LE GEMELLINE E IL CALZOLAIO

Ohi chi belle quatrarelle! Siti propriu ‘e stesse stesse! Tu cumu te chiami? – è la mattina del 12 luglio 1898 e la piazza di Serra Pedace è inondata da un sole cocente.
– Teresa – risponde la prima bambina.
– E tu? – continua il quarantanovenne calzolaio Felice Baratta, meglio conosciuto come ‘u stuartu
– Eugenia…
Ah! Allura siti ‘e gemelle… apparteniti a Carminuzzu D’Ambrosio! Carminuzzu è amicu a mmia e allura iu ve vuagliu fare nu regalu… ve piacia pane e casu?
– Si! Si! – rispondono saltando di gioia le gemelline, che da poco hanno compiuto 5 anni.
Allura jamu alla casa mia
Felice ‘u stuartu e le gemelline devono solo attraversare la piazza deserta. L’uomo apre la porta, fa entrare le bambine, poi entra a sua volta, getta un’occhiata alla piazza sempre deserta e chiude la porta dietro alle sue spalle, sprangandola. Prende due pezzetti di formaggio e li offre alle gemelline che lo mangiano con avidità. Poi il suo sguardo cambia, non è più quello gioviale di prima, adesso è duro e a tratti fiammeggiante. Prende in braccio Eugenia e la butta sul letto. In un attimo alza la gonnella della bambina e si sbottona i pantaloni. Eugenia sta per urlare, ma ‘u stuartu le dice:
Statti zitta 
Statti quieto… – lo implora la bambina, mentre l’altra gemellina si è raggomitolata in un angolino.
I lamenti della bambina sono soffocati dalla grossa mano che le chiude la bocca e quasi non la fa respirare. È questione di pochi secondi, poi l’orco geme, rovescia la testa all’indietro ed emette un grugnito di soddisfazione.
Cittu… non è stato niente… – le intima. Poi si siede sul bordo del letto e accende un sigaro. Il suo sguardo ora si posa su Teresa, rannicchiata nell’angolo – Teresì, vieni cca!
La bambina esita, si fa ancora più piccola e non si muove.
Teresì… non mi fare alzare, vieni cca – ripete con tono perentorio. Teresina allora ubbidisce e gli si avvicina. ‘U stuartu continua – brava! Assettati vicinu vicinu a mmia – la bambina ubbidisce tremando mentre una nuvola di fumo azzurrognolo la avvolge. La mano dell’uomo si posa sulle coscette magre della bambina e un nuovo fremito di piacere lo assale. Con una mano spinge sul letto Teresina e le tiene chiusa la bocca, con l’altra le apre le gambe e si lascia di nuovo trasportare nel vortice della sua orrenda perversione.
– Mute… tutt’e due… mute sinnò v’ammazzu! Aviti capitu? – le gemelline, terrorizzate e mute, fanno segno di si con la testa e allora ‘u stuartu si alza, si avvicina alla porta di casa, la apre e fa segno alle bambine di uscire, ripetendo – mute…
È sera, Eugenia e Teresa stanno per andare a letto. Teresa va nell’orto a fare la pipì e ciò le provoca un bruciore fortissimo. Quando rientra sua madre la vede sofferente e le chiede cosa abbia.
‘U stuartu mi ha messo la misciolla nel petrosino
– Che ha fatto? – Maria Cozza non può credere alle proprie orecchie. Le innocenti parole pronunciate da sua figlia significano che Felice Baratta l’ha violentata!
E pure a me! – dice Eugenia.
Allora Maria le ispeziona accuratamente e si sente mancare, poi si fa forza e ordina alle bambine
– Non vi muovete da qui, io vengo subito – ed esce.
Maria Cozza non va dai Carabinieri a denunciare l’accaduto, ma va a cercare Felice ‘u stuartu per chiedergli conto della sua turpissima azione. Lo trova in casa di Concetta D’Ambrosio.
– Merda! Che hai fatto alle mie bambine? Mò t’ammazzu! – gli urla lanciandosi contro l’uomo il quale, prima che la donna lo raggiunga, si inginocchia piagnucolando.
– No! non ho fatto niente… niente…
– Hai fatto, hai fatto, ho visto sui genitali le vestigia della violenza! – davanti a questa accusa ‘u stuartu crolla.
Se mi volete ammazzare, ammazzatemi… perdonatemi e non parlate di quanto è accaduto… – la implora.
Maria sputa per terra e se ne va. Ha resistito alla tentazione di ammazzarlo, ma l’orco deve pagare, così va alla caserma dei Carabinieri di Pedace a denunciare la violenza.
I militari in pochi minuti sono davanti alla porta dell’uomo, ma in casa non c’è nessuno. ‘U stuartu è scappato.
Le gemelline vengono fatte visitare da due medici, i quali attestano che Eugenia e Teresa presentano i segni caratteristici di una recentissima violenza, sebbene nessuna delle due abbia l’imene lacerato.
Felice Baratta non si trova e la popolazione, sia di Serra Pedace che dei paesi vicini, è preoccupata perché sembra che l’uomo si aggiri nelle campagne e nei boschi circostanti. Poi la sera del 27 agosto 1898 ‘u stuartu viene sorpreso nell’abitato di Serra Pedace in casa del cantiniere Salvatore Roberti il quale lo aveva alloggiato e datogli da mangiare e bere allo scopo di favorirlo.
– Quella mattina ero ubriaco – così comincia a difendersi –. Col mio compare Santo D’Ambrosio bevemmo due litri e mezzo di vinoio, pur essendo bevitore abituale di vino, dopo che uscii dalla cantina non mi ricordo cosa feci perché ero molto ubriaco. Forse avrò potuto commettere il delitto ma non posso dirlo con certezza… l’ho detto pure alla madre delle gemelline che ero ubriaco… e dopo non so quello che avvenne
– Cioè non ti ricordi cosa avvenne in casa tua o cosa avvenne dopo che la madre delle bambine ti ha rimproverato?
– Dopo che mi ha rimproverato…
– È difficile crederti perché se davvero eri ubriaco, come mai sei scappato e ti sei nascosto per un mese e mezzo?
Sapevo che i Carabinieri per questo fatto mi volevano arrestare ed io perciò mi guardavo continuamente dormendo nella aperta campagna
– Lo sai che hai inguaiato anche Salvatore Roberti?
La sera del 27 agosto, stanco, mi trovai a passare avanti la casa del mio compare… picchiai alla porta e mi venne ad aprire Salvatore il quale, fattomi entrare, mi disse: “Ah! Compare, hai fatto una cosa che non dovevi fare…”, alle quali parole io risposi: “Che ci possiamo fare? È stato il vino che mi tolse l’intelletto…”. Poi mi fece sedere e mi offrì da mangiare, cosa che non feci perché, stanco com’ero, avevo più bisogno di riposo che di mangiare, perciò tutti e due ci coricammo. Dopo pochi minuti sopraggiunsero i Carabinieri
Purtroppo per lui, i testimoni che ha citato a propria difesa lo smentiscono, prima perché dicono di non ricordare se proprio quella triste mattina fosse ubriaco perché è solito bere dopo mezzogiorno e poi perché, sostengono, Felice Baratta è un ubbriacone di molta forza, capace a bere due o tre litri di vino senza ubbriacarsi.
Su richiesta della Procura del re, la Sezione d’Accusa, l’11 novembre 1898, rinvia l’imputato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza. Salvatore Roberti, invece, viene rinviato al giudizio del Tribunale di Cosenza.
Il dibattimento inizia dieci giorni dopo, il 21 novembre, e basta una sola udienza per arrivare alla sentenza di condanna. ‘U stuartu dovrà restare dietro le sbarre per 5 anni e dieci mesi.
Il 24 febbraio 1899 la Corte di Cassazione rigetta il suo ricorso.
Anche Salvatore Roberti passerà un annetto in carcere.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

 

Lascia il primo commento

Lascia un commento