TI CACCIO LA PELLE

Il 3 gennaio 1913 il postino consegna alla caserma dei Carabinieri di Fuscaldo una busta da lettere. Il Maresciallo Bruno Ciccone la apre e legge interessato il contenuto: diversi giorni prima, certo Covelli Luigi di Francesco, d’anni 16, aveva tentato, nel bosco Perrone, di abusare della giovane Maio Venere e che ciò non è avvenuto per la fuga di questa. Non c’è firma, si tratta di una segnalazione anonima. La mattina seguente il Maresciallo va in contrada Trappeto dove abita la famiglia della giovanetta per saperne di più, ma né Venere, né sua madre e né una delle sorelle maggiori, Raffaela, dicono di saperne qualcosa. Il fatto denunciato dall’anonimo non è mai accaduto! Anzi, la madre, che più delle due figlie attacca di falso il contenuto dell’anonimo, sembra dispiaciuta anche dell’intervento del Maresciallo. Ma da una parola all’altra, esortata la Venere a dire la verità, questa finisce per ammettere che la mattina dell’11 dicembre 1912 era andata con alcune paesane nel bosco Perrone a raccogliere ghiande. Verso le 15,00, riempito il sacco e sistematoselo sulla testa, si era avviata da sola verso la Moschiera a trovare il sarto Antonio Bonavita che le doveva consegnare una vita da donna. Giunta al punto detto Scolla di Perrone fu raggiunta dal sedicenne Luigi Covello il quale, smontato da cavallo, le si avvicinò, le fece cadere il sacco dalla testa e poscia fece la mossa di prenderla per un braccio, ma lei fu svelta a darsi alla fuga, lasciando colà il sacco, e andò correndo dal sarto che non era nella bottega e quindi tornò a casa.
Tuttavia, sia la madre che la sorella continuano a dire che non era successo niente e che Luigi Covello non aveva fatto nulla di male e quindi non intendono sporgere querela. Il Maresciallo ottiene dalle donne la promessa di fare andare in caserma il capo famiglia non appena tornerà dalla campagna, per parlare della faccenda, ma Francesco Maio non si presenta e il Maresciallo decide di lasciar perdere.
Da allora è passato quasi un mese, sono le 8,00  del primo febbraio 1913, e Venere, in compagnia dell’altra sua sorella Maria Grazia, va nella frazione Cariglio a casa di Maria Sansone, una loro amica. Venere resta dall’amica, mentre sua sorella va al tabacchino a comprare dei sigari per il padre. In questo frattempo Maria Sansone esce di casa e lascia Venere con suo figlio.
Dentro il fienile accanto alla casa di Maria Sansone c’è Luigi Covello che ha notato tutti i movimenti delle donne e, quando Maria esce di casa, approfitta dell’occasione che gli si presenta, entrando dalla porta lasciata aperta.
Luigi afferra una piccola scure trovata dietro la porta e comincia a batterla su di una cassa e sulla porta, senza profferire parola. Nemmeno Venere parla, ma i suoi occhi impauriti dicono tutto.
Maria Grazia Maio è ormai a pochi passi dalla casa dell’amica e sente quello strano e ritmico rumore provenire dall’interno, poi vede Luigi di spalle e gli occhi di sua sorella.
Neppure qui vuoi lasciare mia sorella in pace? – gli dice senza mostrare paura, quasi sfidandolo.
Io non penso a te, né a cento come te e sono buono a fottere anche te e tutta la tua famiglia! – le risponde, sfidandola a sua volta.
Ti sei divertito allora con Venere, dovevi trovare a me per vedere!
Se avessi trovato a te, sarebbe stato lo stesso!
Allora Maria Grazia si rivolge al figlio di Maria Sansone.
Mi sei buono testimone, adesso vado a Fuscaldo per querelarlo!
Ed infatti, uscite le due sorelle da quella casa, Maria Grazia va dai Carabinieri accompagnata dalla sessantenne Vincenza Birbone e racconta, piangendo e singhiozzando, quanto le è capitato, raccomandandosi fortemente perché si fosse fatto un severo richiamo a Luigi Covello.
– Lo vuoi querelare? – le chiede l’Appuntato Attanasi.
– No… credo che basti un ammonimento
– Stai tranquilla, lo richiameremo a migliori comportamenti – la rassicura Attanasi.
Sono ormai le 10,00 quando Maria Grazia e Vincenza Birbone escono dalla caserma.
La voce che Maria Grazia è andata davvero dai Carabinieri è più veloce dell’andatura che la ragazza tiene per tornare a Cariglio e Luigi ne è informato in un battibaleno, così va a raccontare tutto a suo padre, il cinquantanovenne Francesco, fattore nato ad Aprigliano, che ne rimane conturbato.
Verso l’ora di pranzo Francesco Covello torna a casa, si ferma davanti alla porta e sente sua moglie che nella casa vicina discute con il marito di Maria Salerno dell’accaduto di quella mattina.
Vieni qui, vieni, mannaggia la Vergine Maria! – le urla. La moglie, senza controbattere vedendolo turbato, ubbidisce immediatamente. Ma la donna non sa che il turbamento del marito dipende dal fatto accaduto il mattino e crede invece che sia dovuto al ritardo nella preparazione del pranzo. Con gli occhi bassi rientra in casa e non capisce come mai suo marito si sia messo a camminare avanti e indietro sulla ripida rampa che porta a casa loro, guardando, di tanto in tanto, verso la strada sottostante.
Sono ormai le 11,45 quando Maria Grazia Maio arriva a Cariglio, diretta verso casa sua. Francesco Covello la vede sotto di lui, si sporge dal muretto e, rosso in viso, le dice:
Graziella, tu inquieti sempre la casa miami vuoi inquietaremi volete fare andare in galera
A voi non v’inquieta nessuno! – gli risponde.
Come non mi inquietate? Io ti voglio cacciare adesso la pelle! – replica con rabbia, ormai sul punto di perdere la testa.
Maria Grazia si ferma di botto e lo guarda negli occhi. Non sa se rispondere o lasciarlo perdere e continuare per la sua strada. Tra di loro non ci sono che 5 o 6 metri.
Francesco Covello fa un paio di passi avvicinandosi al punto in cui si è fermata la ragazza, apre la giacca e mette mano alla sua rivoltella. Maria Grazia resta paralizzata quando vede l’arma, poi vede la prima fiammata e sente la prima detonazione. Le altre due revolverate no. Barcolla,  si gira su sé stessa e fa qualche passo, poi cade a terra. Morta.
Luigi Covello è in casa quando sente i tre colpi e si precipita fuori. Vede Maria Grazia stesa a terra e la chiazza di sangue che si allarga sotto di lei.
Papà, che hai fatto? – gli urla, poi gli salta addosso, lo disarma, lo prende per mano e lo porta a casa, come inebetito.
Gli buttano dell’acqua sul viso e sembra riprendersi, mentre dalla strada arrivano le urla disperate della gente che è accorsa sul posto. Luigi resta calmo. Prende il padre sottobraccio e insieme escono dalla porta posteriore che dà sulla campagna dileguandosi.
Maria Sansone, quando avviene la brevissima e tragica discussione, sta lavando dei panni nel gorgo del canale di scolo del mulino, dove l’acqua si raccoglie e dove sono allineate varie grosse pietre inservienti alle lavandaie e vede tutto.
I Carabinieri arrivano sul posto con il Pretore ed il medico legale un paio di ore dopo e vengono informati che probabilmente l’assassino è andato a rifugiarsi in casa di un certo Francesco Aloi a Guardia Piemontese e il Maresciallo Ciccone manda subito due suoi uomini a cercarlo, ma non lo trovano e non lo trovano nemmeno nelle campagne e boschi circostanti. Poi, la mattina successiva, il Maresciallo viene avvisato che i Covello probabilmente si nascondono nel vaccarizzo di Vaccari in contrada Perrone e manda a cercarli due Carabinieri. Non sono nemmeno lì, ma i militari scorgono due donne le quali, appena li vedono, scappano. Molto strano. Tommaso Gubitosa e Salvatore Lillo, così si chiamano i due Carabinieri, con tutta l’anzia e di corsa, le inseguono e fanno tombola. Vedono Francesco Covello che pian piano scendeva dal viottolo per immettersi nella via nuova.
– Francesco Covello! – grida Gubitosa mentre imbraccia il moschetto. L’uomo si gira, li guarda e risponde:
Non correte, io sto fermo qui, venite
Si fa arrestare e portare nel carcere di Fuscaldo, docile come un cagnolino. Quando lo interrogano, piangendo, dice di non ricordare nulla, di non sapere quanti colpi ha esploso, di non ricordare affatto ciò che egli disse alla defunta, né quali parole questa indirizzò a lui. Inutile continuare. Ma la mattina del 3 febbraio sembra essersi calmato e il Pretore lo interroga nuovamente. Il racconto che fa parte da molto lontano:
Circa ventiquattro anni or sono, Francesco Maio fu da me invitato ad entrare come colono al servizio del cavalier Vaccari di cui io sono, ed ero, il fattore – il suo tono adesso è deciso e va all’attacco – Varie considerazioni mi inducevano a proteggere il Maio, fra cui quella della sua numerosa famiglia e delle sue miserrime condizioni economiche, oltre al fatto che fra la mia e la sua famiglia era stata contratta parentela spirituale, avendo mia moglie cresimato, circa venti anni or sono, la di lui figlia Raffaela. Il Maio, però, che non era solerte e coscienzioso nel riguardare gl’interessi del cavalier Vaccari, credendo che io fossi causa delle sue varie destituzioni dal posto, mi serbava rancore e non rare volte me lo dimostrava; anzi, non era tanto lui a volermene, quanto la di lui moglie e la di lui figlia Maria Grazia, le quali gli dicevano sovente: “Ecco il bene che ti fa il compare del cazzo!”. Ma io, transigendo più volte al mio dovere, nascondevo i malfatti del Maio, pur di non arrecargli danno e il cavalier Vaccari questo lo sa benissimo. Il giorno undici dicembre del decorso anno Maio mandò sua figlia Venere a raccogliere la ghianda di sua porzione. Siccome in un fondo vicino c’erano delle donne che dovevano trasportare dello stabbio, io mandai mio figlio Luigino perché, accertandosi del numero delle lavoratrici, me ne avesse riferito. La sera stessa venne da me Maio per dirmi che in quel giorno mio figlio Luigino, giusto quanto aveva riferito la Venere, si era permesso di toccarla e farle proposte oscene, tanto che lei si era messa a gridare in presenza di altre ragazze che erano rimaste indietro. Aggiungeva però che non c’era stato nulla di grave e ciò era stato confermato dalla Venere in presenza di Antonietta Chimento e di altre. Ritiratosi mio figlio io lo investii con molta veemenza ed anzi lo schiaffeggiai malgrado egli sosteneva che quanto aveva detto Venere era menzogna perché, fra l’altro, egli al ritorno non era nemmeno sceso di cavallo. Il giorno dopo, a Fuscaldo, durante la fiera di Santa Lucia, Maio sosteneva che la di lui figlia era stata deflorata da Luigino e pretendeva che io lo indennizzassi con duemila lire. Io gli obbiettai che era falso giacché non si era parlato affatto di deflorazione e che, ad ogni modo, per quieto vivere e per non vedere macchiata la condotta di Luigino, ero disposto a dargli un paio di centinaia di lire. Qualche giorno prima di Natale si venne ad un accordo in casa del cavalier Vaccari e io avrei dovuto sborsare al Maio lire trecento ed egli avrebbe dovuto desistere da ogni proposito di denunciare il fatto all’autorità e, difatti, mi rilasciò dichiarazione che tengo in casa mia. Quando la Maria Grazia seppe di questo accordo montò su tutte le furie, per come mi fu riferito da Rosaria Argento alias Cattiva. Erano così le cose allorché il venerdì sera 31 gennaio, mentre io discorrevo con Domenico Argento, si presentò mio figlio Adolfo, di anni 7, piangendo e riferendomi che era stato schiaffeggiato dal figlio del Maio a nome Pasquale. Io, per evitare ulteriori strascichi, benché addolorato, ci passai sopra e non volli neppure più parlarne. L’indomani, primo febbraio, verso le dieci tornai dal trappeto e ritiratomi in casa non vi trovai mia moglie ed intesi che la stessa parlava concitatamente con Maria Salerno. Venuta in casa le richiesi l’oggetto del colloquio ed ella mi rispose: “Non sai niente? Maria Grazia Maio è andata a Fuscaldo a querelare Luigino!” ed io, eccitatissimo: ”Ma che le ha fatto?”. E mia moglie rispose: “Peppino Salerno sa tutto, chiamalo e fatti dire da lui quello che sa, io non so niente”. Chiamato il ragazzo, mi disse: “Stamane Venere Maio era seduta in casa mia presso il fuoco. poco dopo venne Luigino e si sedette ad una panca vicino la porta. In quella Giunse la Maio Maria Grazia e visti la sorella e Luigino, disse a costui: “Non la vuoi finire d’inquietare mia sorella?” ed il Luigino: “Ma chi l’ha vista tua sorella? Io non l’avevo neppure veduta!”. E la Maria Grazia: “Non la vuoi finire? Adesso vado a Fuscaldo e ti do la querela”. Io allora chiesi al ragazzo se sapesse che Francesco Maio era in casa ed avuta risposta affermativa aggiunsi: “Adesso vado io a parlare col padre perché avverta la figlia a non più disturbarmi!”. Nell’uscire da casa mia, avevo fatto appena pochi metri, ed ero presso la porta della Salerno, incontrai Maria Grazia che saliva a Cariglio. Vedendola, mi fermai e le dissi: “Ma che t’ha fatto Luigino che sei andata a dargli querela?” ed ella: “Ma chi ti inquieta a te e all’anima di mammata?”. A ciò, infuriato, e poiché mi trovavo in uno stato di esaltazione indicibile, estrassi la rivoltella e dicendo: “Non la vuoi finire? Toh!” esplosi tre colpi con l’intenzione di intimidirla soltanto e non già di ferirla o ucciderla, giacché io, che sono un abilissimo tiratore, se avessi avuto intenzione di colpirla non avrei sbagliato un sol colpo e mi meraviglia anzi di averla presa con un colpo al petto perché, ripeto, quel colpo ha dovuto essere deviato dalla mia agitazione perché tirai in basso ed alla breve distanza di circa due metri. Al terzo colpo, mentre ai primi due non si era mossa, la Maio disse: “Madonna!” e fece dei passi e cadde…
E si, l’agitazione deve avergli giocato davvero un brutto scherzo perché il colpo fatale, sparato dall’alto in basso a non più di 3 metri di distanza, ha attraversato il polmone sinistro, il cuore, lo stomaco, il fegato e l’intestino di Maria Grazia!
Il padre della ragazza conferma al Pretore l’accordo raggiunto tra lui e Francesco Covello, ma respinge tutte le accuse che questo gli ha mosso e, anzi, sostiene che non sia, come vorrebbe far credere, un buon uomo. Egli invece è un uomo violento e prepotente e in molti lo possono confermare. Poi al giudice che raccoglie la sua querela aggiunge:
Ho sentito dire che Covello per sottrarsi alla pena cerca qualificarsi per pazzo. Lascio considerare alla Signoria Vostra come potrebbe essere ritenuto tale un individuo che da trent’anni ha tenuto oculatamente una gestione di oltre mezzo milione. Covello è sano e i suoi conati per infingersi pazzo non meritano alcun credito dalla Giustizia.
E i giudici non lo ritengono affatto pazzo. Il 23 aprile 1913, la Sezione d’Accusa lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di omicidio volontario.
Di rinvio in rinvio, il dibattimento inizia il 4 gennaio 1915 ed è subito una vera e propria battaglia. I difensori di Francesco Covello, i famosissimi penalisti cosentini Nicola Serra e Ambrogio Arabia, mettono in campo tutta la loro maestria fino a che riescono ad ottenere ciò che Francesco Maio temeva: l’imputato sarà sottoposto a perizia psichiatrica nel manicomio di Nocera Inferiore. Ad occuparsi di lui saranno i dottori Rodrigo Fronda, nominato dalla Corte, e Raffaele Canger, nominato dalla difesa. Solo per un caso, i due ricoprono rispettivamente le cariche di Direttore e di Vice Direttore del manicomio di Nocera.
Dopo qualche mese di osservazione, i due periti giungono a una conclusione condivisa: Francesco Covello, al momento in cui commise il fatto ascrittogli, non trovavasi in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti. Egli trovavasi nello stato di infermità mentale da scemare grandemente la imputabilità, senza escluderla. Francesco Covello può esser messo in libertà senza pericolo per sé e per gli altri.
Il dibattimento viene rinviato a nuovo ruolo in un clima di costante battaglia procedurale e riprenderà solo 27 giugno 1916.
Il 5 luglio successivo Francesco Covello viene condannato a 6 anni e 8 mesi di reclusione e pene accessorie.
Il ricorso per Cassazione presentato dall’imputato sarà, il 31 ottobre 1916, rigettato.[1]


Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

 

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