È il 23 agosto 1900 e fa caldo anche in Sila mentre, nel campo di Giuseppe Guagliardi, si sta trebbiando il grano con il lavoro di due buoi e una vacca di proprietà di Pietrangelo Curto. A guidare gli animali è Vincenzo, il diciassettenne figlio del proprietario. Ad aiutare nel lavoro c’è anche Angelo Imbrogno, uno dei tanti coloni del barone Cosentini. Quando Vincenzo si ferma per mangiare un boccone viene sostituito da Imbrogno che, dopo aver fatto girare un poco gli animali, chiese a Vincenzo Curto, il quale mangiava a poca distanza, che avesse tolto dal lavoro una vacca perché l’era uscito un po’ di sangue dall’ano.
– Falla faticare che dobbiamo sbrigarci – gli risponde il ragazzo.
– Ma non ce la fa… avrebbe bisogno di un salasso – insiste Imbrogno.
– Falla faticare e muoviti! – replica ancora l’altro.
– Attacca ‘u ciucciu addue vò lu patrune… – risponde ironicamente Imbrogno che pungola l’animale, sempre più stremato.
Finito il lavoro tutti vanno a riposare in attesa di un’altra, dura giornata. La mattina seguente, però, i lavoratori vengono svegliati da una brutta notizia: la vacca è morta durante la notte.
– Te lo avevo detto che bisognava salassarla…
– E mò chi lo sente a tata…
Infatti il padre di Vincenzo è furioso per la perdita dell’animale che costerà minori guadagni a tutta la famiglia e bastona il figlio per la sua leggerezza.
– Le usciva il sangue dal culo… – Vincenzo racconta il fatto al ventiquattrenne pastore Domenico Triolo la mattina del 30 agosto mentre, sdraiati sull’erba, stanno facendo pascolare degli animali.
– Quello ti ha fregato, la colpa era sua e l’ha data a te…
– Mi hanno detto che c’è un modo per fare morire le vacche e far sembrare che sono morte di fatica – dice Vincenzo, forse per autogiustificarsi.
– Quale?
– Intromettendo una bacchetta nella natura della vacca, sì da farla rompere a sangue… mi devo vendicare, mi devo vendicare pure per la palìata che mi ha fatto tata… l’avimu ‘e ammazzare!
– Si, l’ammazzamu! – gli risponde l’amico, che tutti conoscono per essere un po’ stupido.
Vincenzo Curto corre nella torre dove abita la sua famiglia. Sa che non c’è nessuno e prende la doppietta di suo padre, poi torna dall’amico.
– Io ho questo… – dice a Domenico Triolo mostrandogli l’arma – tu te ne puoi procurare una?
– No.
– Ci penso io, ci vediamo qui domani mattina. Agli animali pensaci tu – gli ordina allontanandosi.
Antonio Arcuri è un contadino di Serra Pedace, ma per i lavori estivi abita in un pagliaio in contrada Valle Scuro, territorio di Celico. È quasi buio quando gli si presenta davanti Vincenzo Curto.
– Bonasira Monaco – lo saluta chiamandolo per soprannome – si è fatto tardi, mi posso coricare nel pagliaio?
– Certamente!
– Ma quel due botte funziona? Pare rotto – chiede con apparente noncuranza.
– È rotta la bacchetta e pure la chiavetta che attacca il tiniere alle canne, ma spara – gli risponde Arcuri compiaciuto.
– Lo tieni sempre carico?
– Sempre, non si sa mai…
Poi i due si stendono per terra e Arcuri comincia a ronfare. Vincenzo no, è sveglio e aspetta ancora un po’ prima di alzarsi senza fare rumore. Stacca da un chiodo il vecchio fucile a due canne ad avancarica e se ne va nel cuore della notte. Adesso anche Domenico ha la sua arma e la vendetta può essere portata a compimento.
– Allora siamo d’accordo, interrompiamo l’acqua al canale che passa davanti alla casa di Imbrogno proprio lì vicino a quel grande castagno. Noi ci nascondiamo dietro l’albero e quando l’infame si piega per liberare l’acqua lo ammazziamo… da quattro o cinque metri non possiamo sbagliare.
Ma è troppo presto, Imbrogno non è ancora tornato dal lavoro e così i due si stendono sulle felci al fresco del castagno aspettandolo pazientemente. Poi finalmente lo vedono arrivare ed entrare in casa. Ecco, questo è il momento giusto per bloccare il flusso dell’acqua, così quando uscirà per lavarsi sarà costretto ad avvicinarsi.
Infatti, poco dopo Imbrogno esce e, vedendo che l’acqua non scorre, bestemmia ma non risale il corso del canale; chiama invece sua figlia e le dice di andare a liberare l’acqua. I due compari sono fottuti, il nemico non ha abboccato. Ma loro ritentano e deviano ancora il flusso, magari Imbrogno uscirà di nuovo per bere, non si sa mai. Ed è così. Imbrogno esce di nuovo, vede che l’acqua non scorre, bestemmia di nuovo, ma questa volta si incammina egli stesso per sistemare il guasto.
Ormai è alla distanza giusta, si sta voltando di spalle. Ecco, adesso!
L’una dopo l’altra riecheggiano quattro detonazioni. Imbrogno urla per il dolore ma è ferito solo superficialmente. Si gira, vede davanti a lui i suoi attentatori e gli si lancia contro urlando di rabbia. Vincenzo Curto è velocissimo e sparisce in un attimo. Domenico no, scivola e Imbrogno gli è addosso e cerca di colpirlo con la zapparella che ha in mano, senza riuscirci.
– Perché mi avete sparato?
– Perché gli hai ammazzato una vacca…
Poi, approfittando del fatto che Imbrogno lo lascia per qualche secondo mentre si asciuga il sangue che gli cola sul viso, Domenico riesce a scappare e raggiunge l’amico.
Il colono è stato molto fortunato e se l’è cavata con ferite di striscio prodotte da pallini da caccia, una nel parietale destro, la seconda nella regione sottoclavicolare sinistra e la terza nella parte esterna del braccio sinistro. I due potenziali assassini, ansiosi di uccidere, non hanno nemmeno controllato la misura del piombo che, per fortuna, era destinato a cacciare quaglie e pernici. Addirittura nel fucile rubato ad Arcuri una delle due canne era carica a salve!
La mattina del primo settembre, dopo un fitto scambio di telegrammi tra la caserma dei Carabinieri posta in località Fallistro e quelle di Acri e di Celico, arrivano sul posto, come rinforzo, i militari di quest’ultima caserma e cominciano le ricerche dei due mancati assassini, alle quali partecipano anche Francesco Carravetta e Francesco Pantusa, Guardie Giurate del barone Cosentini.
Poi accade un fatto strano: la mattina del 4 settembre si presenta dai Carabinieri di Acri tale Alessandro Lupinacci il quale denuncia che nella notte tra il primo e il 2 settembre, qualcuno ha rubato nella sua pagliaia in località Giammieri, non lontano dalla torre di Imbrogno, quattro galline, un rasoio, quattro chili di lardo, cinque ricotte, un chilo di prosciutto ed un coltello a serramanico, per il valore complessivo di lire 45 circa. I Carabinieri pensano subito che gli autori del furto siano Curto e Triolo e li denunciano anche per questo reato.
Ma ormai il cerchio si sta stringendo e i due hanno le ore contate. Infatti, quella stessa mattina, le due Guardie Giurate li rintracciano nella contrada impraticabile Vallescura. Mentre si avvicinano con circospezione sentono anche un paio di detonazioni e certamente ciò facevano per divertirsi. Quando li sorprendono, Curto getta il fucile e scappa, ma Triolo viene acciuffato e consegnato ai Carabinieri della stazione di Fallistro.
– Mi dette uno dei due fucili pregandomi di accompagnarlo perché voleva recarsi a sparare Angelo Imbrogno. Lo seguii e quando vedemmo quest’ultimo che innaffiava le patate, al di qua del fiume Muccone, Curto esplose un dopo l’altro due colpi del suo fucile e lo ferì alla testa e al braccio. Ciò fatto fuggì e l’Imbrogno, vedendo me fermo, corse per venire a percuotermi, ma per non farlo avvicinare e a solo scopo d’intimidirlo esplosi in alto un colpo del mio fucile, senza lederlo. Egli allora si avventò contro di me, ma io riuscii a scappare… Io e Curto ci nascondemmo e pernottammo nel fondo dove fummo trovati… partecipai al fatto solo per fare compagnia al Curto, che credevo scherzasse…
E poche ore dopo anche Curto viene acciuffato.
– Verso la fine del decorso mese, mentre mi trovavo in un’aia a trebbiare del grano, una mia vacca si ammalò. Io, veramente non essendo troppo pratico per la mia giovane età, dimandai altre persone se potevo salvarla. Fui però scoraggiato a fare ciò da Angelo Imbrogno. Frattanto dopo poco la vacca morì e di questo fatto si dispiacquero molto i miei genitori i quali quasi davano la colpa a me per l’accaduto. Ai loro rimproveri si unirono quelli di altre persone, per cui io rimasi dispiaciutissimo e con rimorso di non averla fatta salassare per sentire i consigli di Imbrogno. Per mia mala ventura mi incontrai col mio conoscente Domenico Triolo, il quale m’invitò a vendicarmi di Imbrogno il quale, a suo dire, mi aveva malamente consigliato per farmi morire l’animale. Di nascosto della mia famiglia andai a prendermi un fucile nella casa di mio padre, mentre il Triolo andò a prenderselo di notte nella torre di certo Antonio il Monaco. Così armati, nelle ore pomeridiane del 31 agosto ci dirigemmo nel bosco detto di Cosentini, ove sapevamo trovarsi Imbrogno e, trovatolo, gli tirammo due colpi, il primo Triolo e l’altro io. Debbo confessarvi che io, veramente, non avevo l’intenzione di ucciderlo, però vi fui indotto dal mio compagno Triolo il quale, insistentemente, mi diceva: “Dobbiamo ammazzarlo”.
– E il furto nel pagliaio di Lupinacci?
– Circa il furto nulla conosco…
Mente perché il fucile lo ha rubato lui e il Monaco lo ha riconosciuto. In più molti lo hanno sentito mentre diceva di volersi vendicare.
Le accuse per le quali viene richiesto il loro rinvio a giudizio sono pesantissime: Vincenzo Curto per tentato omicidio aggravato dalla premeditazione, furto di arma da fuoco con abuso di fiducia derivante dalla temporanea coabitazione e furto di galline e altri oggetti ai danni di Alessandro Lupinacci; Domenico Triolo per tentato omicidio aggravato dalla premeditazione, il furto di galline e altro.
La richiesta viene accolta il 15 gennaio 1901 e il dibattimento fissato per il 6 maggio successivo. Non ci sono sorprese. i due vengono giudicati colpevoli e, concesse le attenuanti di legge, condannati: Vincenzo Curto a 10 anni di reclusione, più pene accessorie; Domenico Troilo a 8 anni e 9 mesi di reclusione, più pene accessorie.
Dagli atti risulta solo il ricorso per Cassazione di Triolo che, il 19 luglio 1901, viene dichiarato inammissibile.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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