Il 26 luglio 1903 Michele Verta, 34 anni, si presenta direttamente al Pretore di Belvedere Marittimo per sporgere denuncia contro la propria moglie. L’accusa è gravissima: infanticidio.
La accusa di aver messo al mondo e poi soppresso alcuni bambini frutto di relazioni adulterine avute in passato e rincara la dose accusandola di avere soppresso un altro bambino nemmeno dieci giorni prima. Basterà chiedere a un qualunque abitante di Belvedere per constatare che il 17 luglio, di primo mattino, appariva incinta grossa e dopo qualche ora era improvvisamente sgonfia.
Ma cosa lo ha spinto a compiere questo passo?
Michele è emigrato in America da qualche anno quando viene a sapere, dalle confidenze di alcuni paesani emigrati dopo di lui, che la moglie lo ha tradito e continua a tradirlo. Furioso, il 17 agosto 1902 rientra a Laise, la frazione in cui abita con la moglie, e la caccia di casa, facendosi restituire anche tutti i regali che le aveva mandato, compreso un bell’anello che Filomena porta al dito. Michele si mette a fare indagini per conto suo e scopre che la moglie è stata vista incinta grossa fino ai primi di marzo e poi, da un giorno all’altro, non aveva più il pancione. Ma è troppo poco per procedere legalmente. Decide così di non ripartire più per l’America e si trova un lavoretto al paese in attesa di trovare prove sufficienti per denunciarla. Però pare che Filomena righi dritto, nessuno la vede in posti strani e nessuno vede uomini entrarle in casa. Al contrario, mese dopo mese, tutti notano che Filomena ingrassa e tutti capiscono che è incinta. Lei fa finta di nulla fino al 17 luglio, la mattina che il marito indica nella denuncia, quando va a lavorare in campagna con altre donne per piantare granone e fagioli.
Mancano ancora un paio di ore per fare giorno quando partono dal paese. Lungo la strada si fermano a casa del proprietario del fondo per prendere le sementi e gli attrezzi. La giornata comincia allegramente con un goccio di caffè che la padrona offre agli operai, ma Filomena non sta bene, ha i dolori e mentre gli altri chiacchierano lei si stende per terra. Quando la chiamano si alza e via con la schiena curva a piantare i fagioli.
Ma Filomena non ci arriva al Monte, lungo la strada si ferma, i dolori sono lancinanti:
– Andate, torno a casa che mi fa male la pancia.
– Dai, fatti forza e vieni fino al campo, almeno stai in compagnia e ti puoi riposare là…
Lei ci prova a continuare, ma non ce la fa proprio a camminare.
– Non è cosa… meglio che me ne vada piano piano… voi andate, se mi sento meglio vengo dopo… prendetevi i chiantaturi e i fagioli…
Filomena si ferma vicino al ponticello accanto alla cappella della Madonna di Porto Salvo e si siede poggiandosi a un muretto a secco, mentre gli altri proseguono il cammino. All’alba devono essere al Monte, pronti a curvare la schiena sulla terra.
Non appena i compagni sono scomparsi dalla sua vista, Filomena si stende tra l’erba e sente che le budella stanno per uscirle fuori. La forza che spinge dentro di lei è irresistibile, contrae tutti i muscoli del corpo, le vene delle tempie le si ingrossano fino quasi a scoppiare, stringe i pugni cercando di trovare un appiglio a cui aggrapparsi ma non c’è che erba secca, vorrebbe urlare dal dolore ma sa che non può farlo, qualcuno potrebbe sentirla. Poi tutto sembra calmarsi, tira due o tre lunghi respiri ma ecco che la forza dentro di lei acquista ancora più vigore, strabuzza gli occhi e asseconda la forza spingendo con i muscoli più forte che può. Ha già l’esperienza di tre figli e sa che non ci vorrà molto, infatti in pochi minuti tutto ha termine. Filomena è stravolta, ma si mette a sedere per prendere quel fagottino insanguinato che ha in mezzo alle gambe. Adesso lo ha tra le mani e piange sommessamente. La bambina emette il suo primo vagito ma lei le tappa la bocca, nessuno deve sentirla.
– E ora che debbo fare? – si chiede. L’istinto le consiglierebbe di pulire la creaturina, di annodarle il cordone e correre da una levatrice per terminare le operazioni necessarie, ma la ragione, fredda, le impone di liberarsene in fretta, perché sa che il marito aspetta un suo passo falso per mandarla in galera come adultera.
Tenendo la bambina e la placenta su un braccio, mentre con l’altra mano le tiene sempre la bocca tappata, si rimette in piedi ancora sanguinante e si guarda intorno. Nessuno. Solo in lontananza si sente il suono ritmico delle zappe che aprono la terra.
Accanto al ponticello dove ha partorito c’è una specie di tombino per la raccolta delle acque piovane, che adesso è asciutto per la bella stagione ed è abbastanza largo e profondo per consentire a un uomo di entrarci comodamente. Sul fondo si apre un cunicolo che permette all’acqua di defluire sotto il ponticello e continuare a scorrere fino a valle. Accanto al tombino c’è una grossa pietra piatta di forma vagamente romboidale. Filomena decide in un attimo. Poggia per terra la bambina accanto al tombino, vi avvicina la grossa pietra e si cala dentro. La bambina comincia di nuovo a strillare e lei l’afferra quasi con rabbia, scuotendola selvaggiamente. Ormai non è più questione di ragione o di istinto, ormai per Filomena è solo questione di evitare la galera. Però quando a guidare le azioni umane non sono né la ragione e né l’istinto ma solo la disperazione, allora cominciano i guai.
Con solo la testa fuori dal tombino prende la bambina e la posa a terra in un angolo del pozzetto, poi a fatica prende la grossa pietra, più pesante di dieci chili, e la sistema sulla creaturina, schiacciandola. A nulla servono le lacrime che cadono su quel primitivo sarcofago.
Filomena si rassetta alla meglio, ma ha la gonnella sporca di sangue davanti e se ne accorge, è sporca anche di dietro e lo ignora. Decide che è meglio se va a lavorare, nonostante sia stremata, per non destare sospetti.
– Filomè, e tu sei tornata? – le fa una compagna di lavoro.
– Si, mi sento meglio… – le risponde simulando noncuranza.
– Certo che ne avevi roba dentro… pare che hai partorito! – le dice un’altra alludendo all’evidente assenza del pancione e facendo l’occhiolino alle altre.
– Ma che vai dicendo? Era tutta aria…
– Aria di nove mesi! – continuano a punzecchiarla.
– E il sangue che hai addosso? – la incalza un’altra.
– Mi è uscito dal naso… – cerca di giustificarsi.
– E ti ha sporcato pure il culo? – le fa quella di rimando, suscitando l’ilarità generale.
– Ma finiscila e dammi i fagioli! – tronca Filomena.
Il repentino dimagrimento di Filomena e quelle strane macchie di sangue sulla gonnella provocano le chiacchiere che giungono inevitabilmente alle orecchie del marito il quale, come sappiamo, non aspettava altro. Così scrive la denuncia che abbiamo già letto e il Pretore comincia a indagare, coadiuvato dai Carabinieri.
Le compagne di lavoro della donna, interrogate, raccontano come si è svolta quella fatidica giornata e dicono che Filomena si è sentita male accanto al ponticello e lì le ha lasciate. I Carabinieri vanno a fare un sopralluogo sul posto e non fanno fatica a notare il tombino. Sono passate ormai due settimane e nell’aria si avverte il tipico odore della carne in putrefazione. Il Maresciallo fa calare nel tombino un contadino che nota la pietra romboidale e sotto di questa, semicoperti da foglie secche, degli ossicini che sembrano lo scheletro di una zampetta.
– Marescià qua c’è qualcosa… sembra una zampa di animale… vorrei sapere come ci è finito sotto questa pietra. Madonna mia che puzza!
– Muoviti! Caccia sta pietra che ce ne andiamo! – gli mette fretta il maresciallo, che boccheggia per il caldo e per la puzza di carogna.
L’uomo solleva la pietra, guarda cosa c’è sotto e strabuzza gli occhi per l’orribile sorpresa che lo fa quasi vomitare. Poi, senza dire una parola, estrae quel che resta del povero corpicino innocente, e lo posa sul bordo del tombino. Adesso è la volta di tutti gli altri a dare di stomaco.
Non ci sono dubbi. La denuncia di Michele Verta risponde al vero e Filomena finisce in carcere con l’accusa di infanticidio. Lei si difende strenuamente dicendo che è vero che era incinta, ma di sei mesi, e di aver partorito un feto morto.
– L’ho messo lì dentro per la vergogna…
Le perizie mediche però la smentiscono. La bambina era completamente formata e nata a termine. Le sue condizioni sono quelle tipiche di una donna che ha partorito da poco. Il rinvio a giudizio è assicurato: Omicidio di un infante, ancora non iscritto nei registri dello Stato Civile e nei primi cinque giorni dalla nascita ovvero nel giorno della nascita, per salvare l’onore suo.
Il 3 giugno 1904 la Corte d’Assise di Cosenza condanna, concesse le attenuanti, Filomena Grosso a 2 anni e 11 mesi di reclusione.[1]
Anche uccidere un neonato era delitto d’onore.
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[1] ASCS, Processi Penali.
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