SPIANDO DAL BUCO

Nicolina Presta, venticinquenne contadina di Dipignano, è sposata con Michele Gallo di Paterno Calabro e qui abita. Essendo il marito emigrato in America nel 1894, è rimasta da sola a badare a sé stessa e ai due figlioletti. Tutti la conoscono per donna onesta e tale è, incapace di tradire il talamo nuziale.
Accanto alla sua casa nel rione Calentino, e propriamente nella via Arenella, che dipartendosi mena alla via detta Arena o S. Marco ed alla Fontana Grande, vi è una gradinata con pianerottolo e spalliera di fabbrica, onde così impedire la caduta di chi ascende. Prossima alla di lei casa c’è la bottega di calzolaio di mastro Francesco Ferraro di 24 anni. Nicoletta ricorre spesso all’opera di mastro Ciccio e i due entrano in una qualche confidenza, tanto che il figlioletto più grande della donna, di appena 6 anni, va ad apprendervi il mestiere.
Nicolina Presta è una bella ragazza e mastro Ciccio è un giovanotto esuberante, troppo esuberante, e ben presto inizia un corteggiamento serrato per ottenere i favori della vicina, che resiste tenacemente, poco o nulla conto facendo delle sue chiacchiere, tranquilla della sua onestà, guardandosi l’onore e serbando questo al suo assente marito che dall’Estero le spediva moneta.
Ma mastro Ciccio è un osso altrettanto duro e non molla. L’8 febbraio 1895, appena calato il sole, Nicolina è nella camera da letto, intenta a far conciliare il sonno al suo bambino più piccolo, mentre il più grande è nella stanza di ingresso, seduto accanto al focolare acceso.
– Apri… apri… – qualcuno a bassa voce insiste da fuori. Il bambino corre ad avvertire la madre e questa, prendendo a gabbo tale asserto, lo sgrida e gli ordina di coricarsi, poi si va a riscaldare al fuoco. Ma ciò che riteveva sogno di suo figlio si ripete – Apri… apri… – Nicolina non ha dubbi, è proprio la voce di mastro Ciccio Ferraro!
– Che vuoi?
– Fammi entrare… ti voglio…
– Per l’anima dei morti, vattene e lasciami stare.
– No, stanotte ti devo fare mia.
– Ti prego, lasciami stare, vattene a casa…
– Apri… sbrigati che può passare gente…
– Vattene! Vattene se no mi metto a gridare dalla finestra! – Nicolina, esasperata, cambia tono.
– No, apri ti ho detto! – anche mastro Ciccio cambia tono, ma Nicolina ha il vantaggio di essere al riparo delle sue mura, così apre la finestra e si mette a urlare chiedendo aiuto. Subito si fa gente e l’uomo è costretto a battere in ritirata, ma dalla strada comincia a offendere la donna – Puttana! Porcella! Non finisce qui… puttana!
Tutto questo trambusto viene alle orecchie dei parenti di mastro Ciccio i quali accorrono e se lo portano via, ma lui continua imperterrito ad inveire, minacciando vendetta. Poi tutto si calma e sembra che non sia successo nulla.
Sembra.
Il sole del 10 febbraio è tramontato da una mezzoretta, Nicolina ha messo a dormire i figli e si è seduta, come al solito, al fuoco. Dall’esterno della porta le sembra di sentire dei rumori quasi impercettibili.
Fuori c’è mastro Ciccio il quale, approfittando di un forellino nel legno della porta, sta spiando la donna. È sola.
– Nicolì… apri…
– Qui non ci devi venire, vattene per l’anima dei morti che tu qui non ci appartieni! – ma mastro Ciccio, pertinace nel suo proponimento, invece di andarsene comincia a scavare il muro accanto al telaio della porta, proprio nel punto in cui c’è la serratura, forse col divisamento di ficcarvi la mano ed aprire il fermaglio. Nicolina continua a supplicarlo affinchè se ne vada, ma mastro Ciccio non se ne dà per inteso e continua a scavare e lei, che adesso teme sul serio di perdere l’onore, lo minaccia – vattene che ti sparo!
Lui non le crede e continua la sua opera. Nicolina una rivoltella carica ce l’ha davvero, l’ha lasciata suo marito quando è partito, “non si sa mai” le aveva detto e adesso quel mai è diventato qui e ora. A grandi passi va nella stanza da letto, apre la cassa dove c’è l’arma, la prende e torna alla porta. Quel pezzo di ferro sembra pesare una tonnellata quando la alza con tutte e due le mani che tremano e poggia la canna nel foro della porta.
Marru Cì… ca sparu
Mastro Ciccio nemmeno questa volta le crede e, lasciata per qualche secondo la sua opera di demolizione, accosta l’occhio al foro nella porta per vedere cosa sta facendo Nicolina, ma dall’altra parte sembra buio, non riesce a vedere niente.
– Ma che… – Mastro Ciccio Ferraro non vedrà e non sentirà più niente. Mai curiosità fu più intempestiva. Il proiettile gli spappola l’occhio destro ed entra nel cervello facendoglielo esplodere come colpito da una bomba a mano. La violenza dell’impatto è così forte da scaraventarlo ai piedi della gradinata, il capo rivolto nella via, le mani penzoloni sul terreno, i due piedi poggiati l’uno sul primo gradino, l’altro, il sinistro, poggiato sul secondo gradino. Sulla strada un rivolo di sangue misto a materia cerebrale.
Nicolina non si è accorta di nulla e continua a stare in piedi dietro la porta, tremante e come inebetita, con le braccia tese e l’arma in mano. I Carabinieri di Dipignano la trovano quasi in questa posizione quando entrano per arrestarla.
– Io volevo spaventarlo…
I parenti di mastro Ciccio non credono alla sua buona fede, non credono che ci sia stato il reale pericolo che Nicolina potesse essere violentata perché, dicono, i due erano amanti da tempo e lei, temendo di perdere i soldi che le arrivano dall’America, ha architettato tutto per giustificarsi agli occhi del marito. Viene anche messo in dubbio il fatto che mastro Ciccio stava scavando il buco nel muro: c’era da prima, per terra non c’erano calcinazzi, qualcuno dice.
Per il Pubblico Ministero invece non ci sono dubbi: i fatti raccontati da Nicolina trovano riscontro ed appoggio nelle risultanze generiche e specifiche e confessioni giudiziali dell’imputata. Le relazioni adulterine sono dubbie, rimangono nei detti parenti dell’estinto ed anche a volerle ammettere, esse non possono distruggere il fatto delle ripetute molestie ed insidie all’onore della Presta. Ma il Pubblico Ministero non crede, al contrario, all’imminente pericolo invocato da Nicolina giacchè in quella sera ella poteva fare quello stesso che fece nella sera precedente, gridando al soccorso dalla finestra, senza ricorrere alla rivoltella, né crede che Nicolina volesse solo spaventare mastro Ciccio: la potenza ed efficacia dell’arma, la direzione del colpo, il foro rispondente ad altezza di uomo, la causa a delinquere grave, proporzionata, non lasciano dubitare della intenzione omicida. Per questo ne chiede il rinvio a giudizio per omicidio volontario.
Il 5 aprile 1895 Nicolina viene rinviata al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
Se il Pubblico Ministero e la Sezione d’Accusa non hanno avuto dubbi sulla volontà omicida di Nicolina Presta, la giuria della Corte d’Assise è altrettanto sicura che l’imputata agì, al contrario, in stato di imminente pericolo e sparò con l’intenzione di mettere in fuga il suo assalitore. Il verdetto è di assoluzione.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

 

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