In contrada Maio di Rende, tra le altre proprietà ci sono quelle dei cognati Eugenio Morrone e Francesco Scarlato e quella di Gregorio Volpintesta che confinano tra di loro con una particolarità: la proprietà di Volpintesta è divisa dalle altre due da un canale di irrigazione largo e profondo circa un metro che, poche centinaia di metri più a valle, sfocia nel torrente Emoli. Verso gli inizi della Seconda Guerra Mondiale, Scarlato e Morrone decidono pacificamente di segnare il confine tra le rispettive proprietà scavando un solco che termina al confine con la proprietà di Volpintesta, quindi fino al canale di irrigazione.
Alle prime piogge, però, Volpintesta va su tutte le furie perché, dice, l’acqua raccolta dal solco va a finire nel canale e, dice Volpintesta, quasi lo riempie portando umidità alla sua casa che è distante pochissimi metri. Tra urla, minacce e bestemmie, per evitare discussioni, Scarlato e Morrone richiudono il solco. Il confine è comunque visibile per il terreno smosso e l’armonia torna fra i tre vicini. Passano gli anni, il terreno smosso è ritornato al suo posto e il confine non si distingue più. A questo punto, siamo verso la metà di settembre del 1952, Francesco Scarlato ed Eugenio Morrone decidono di verificare di nuovo il confine e di tracciarlo con un nuovo solco.
– Glielo dobbiamo dire a compà Gregorio? Chin’u senta sinnò…
– Ma no! non può dire niente, noi il canale non lo tocchiamo nemmeno… ci fermiamo a mezzo
metro…
metro…
– Hai ragione, ‘un po’ dire nente!
La mattina del 22 settembre 1952, di buon’ora, i due cugini, armati di zappe e vanghe, cominciano a scavare il solco. Affacciato alla finestra di casa sua, Gregorio Volpintesta li guarda rosso in viso e con le vene del collo ingrossate e pulsanti. Poi fa un gesto di stizza e rientra in casa. Francesco ed Eugenio hanno scavato si e no tre o quattro metri del solco, quando la loro attenzione viene richiamata dalla voce del vicino il quale, di nuovo affacciato alla finestra con in mano un fucile e due cartucce, urla loro:
– Vi ho detto che questo confine non lo dovete muovere se no vi sparo!
– Non stiamo a fare qualche cosa nel terreno tuo, stiamo a fare il limite delle nostre proprietà – gli risponde Eugenio Morrone, dopo aver guardato, sconsolato, suo cugino.
– Allora, per la madonna del carmine, vi caccio dal mondo! – urla di nuovo Volpintesta caricando il suo fucile americano a più colpi, comunemente chiamato “rifolo” (Rifle. Nda) e spianandolo contro i due cugini.
– Fujimu ca ne spara! – dice Eugenio a suo cugino Francesco, lasciando la zappa e mettendosi a correre non appena sente lo scatto dell’otturatore. Francesco invece non si muove e sfida l’avversario:
– Spara se hai coraggio, io continuo a lavorare!
E Volpintesta spara davvero. Francesco Scarlato viene investito da una micidiale scarica di pallini da caccia
– Mi hai ucciso come un passero… – ha il tempo di dire, poi, girandosi su sé stesso, cade riverso a terra sulla parte sinistra.
Eugenio Morrone, mentre scappa facendo diversi salti di corsa veloce, si gira e vede cadere suo cugino, poi volge lo sguardo verso la casa di Volpintesta e lo vede che sta mirando verso di lui. Adesso corre a zig-zag ma, per sua fortuna, non ci sono colpi per lui. È salvo.
Adelina Morrone sta pulendo delle pannocchie dietro la casa di Volpintesta quando sente urlare Eugenio e subito dopo la detonazione. Attraverso un filare di canne e saltando il canale, vede suo cognato Francesco Scarlato steso a terra; si avvicina e si china su di lui. Cerca di sollevargli la testa mentre il ferito emette un gemito e dalla bocca gli esce un fiotto di sangue. Poi più niente, è morto. Adelina guarda in direzione della casa di Volpintesta e lo vede affacciato alla finestra che, levata dal serbatoio una cartuccia ne mette un’altra, le punta contro il fucile e le dice:
– Allontanati se no sparo pure te…
Adelina, per la paura, cade a terra mezza svenuta ma ha il tempo di notare che Volpintesta abbassa il fucile, chiude la finestra e rientra in casa.
Attirati dallo sparo e dalle urla, sul posto si precipitano anche i figli di Gregorio Volpintesta che entrano in casa e trovano il padre seduto su di una sedia accanto al letto. Fuori, accanto al morto arrivano molti suoi parenti che cominciano ad inveire contro l’assassino e si rischia che la situazione degeneri.
– Papà, che è successo?
– L’ho ammazzato io… stavano scavando di nuovo quel solco…
– Dobbiamo andarcene… dobbiamo andare dai Carabinieri… vai a preparare il calesse – dice Ercole, il maggiore dei due figli, a suo fratello Aniello. Pochi minuti e Gregorio Volpintesta parte alla volta di Cosenza
Sono le 11,30 del 22 settembre quando alla Questura di Cosenza arriva una telefonata: è il capo stazione dello scalo ferroviario di Cosenza, Orlando Scarpelli, il quale informava che all’altezza del casello ferroviario, al chilometro 26 della strada ferrata Cosenza-Paola, un tale armato di fucile da caccia aveva ucciso un contadino e minacciava gravemente di morte altre persone. Nessuno perde tempo. A bordo di una camionetta vengono inviati sul posto gli Agenti della Squadra Mobile Nicola Grande e Giuseppe Petrosino, coordinati dal Vice Brigadiere Giuseppe Ciancio.
Il cadavere si presenta con la testa poggiata sul braccio sinistro e la mano leggermente chiusa, mentre il braccio destro è ad angolo retto, leggermente alzato all’altezza della regione mammaria. Sulla facciata anteriore del braccio destro si notano ferite multiple da arma da fuoco, mentre sull’emitorace destro (faccia laterale), che è coperta da una canottiera, molti fori evidentemente prodotti da pallini da arma da caccia, coronati da una grossa macchia di sangue. Sotto le ginocchia del morto c’è il manico della sua zappa, la quale si trova in un solco recentemente scavato. Vicino alla testa c’è un basco nero capovolto, foderato in rosso e vicino ad esso due zoccoli.
– È stato mio padre… è partito alla volta di Cosenza per presentarsi all’Autorità Giudiziaria… il fucile è in casa… – dice Ercole.
Constatati i fatti, sequestrato il fucile, quattro cartucce cariche ed una esplosa che hanno trovato sul letto accanto al fucile, Ciancio e Grande rientrano in Questura, mentre Petrosino resta a piantonare il cadavere. Adesso la priorità è trovare Gerardo Volpintesta, potendo lo stesso desistere dal proposito di presentarsi al magistrato. Ma l’assassino non desiste. Infatti, verso le 13,00, viene rintracciato dall’Agente Grande, proprio nella Salita Tribunali mentre sta per costituirsi in carcere.
– Già da tempo Morrone voleva scavare un fosso al confine tra la sua proprietà e quella di Francesco Scarlato, in maniera da fare scaricare l’acqua nel canale di mia proprietà, che d’estate serviva per fare affluire l’acqua proveniente dal fiume al fine di irrigare il mio fondo, mentre d’inverno rimaneva asciutto ad evitare che portasse umidità alla mia abitazione. Pregai Morrone di chiudere il solco e lui, resosi conto di quanto gli dicevo, non continuò l’escavazione del fosso. Anzi, dopo un certo tempo atterrò il fosso. Stamattina vidi Eugenio Morrone e Francesco Scarlato che con delle zappe avevano incominciato a scavare il solco. Io, dopo essermi affacciato dalla finestra, pregai i due di smettere di scavare il solco, facendo loro presente che con detto scavo avrebbero fatto scaricare l’acqua nel mio canale, il che avrebbe arrecato umidità alla mia abitazione. I due risposero che avrebbero continuato a scavare il fosso nonostante il mio divieto; io insistetti perché smettessero, ma essi non recedettero dalla loro intenzione, anzi incominciarono ad inveire contro di me dicendo che ero un cornuto e che sarebbero venuti in casa e mi avrebbero pestato tanto da lasciare come pezzo più grande l’orecchia. Allora io presi dal muro un fucile da caccia e lo impuntai contro di loro con l’intenzione di farli impaurire e di farli scappare; Morrone si diede alla fuga, mentre Scarlato rimase, ma non ricordo bene se disse “Se hai coraggio sparami”. Proprio in quell’istante esplose un colpo del mio fucile, senza che io me ne rendessi conto, anzi non sapevo nemmeno se il fucile fosse carico poiché da parecchio tempo il fucile era rimasto appeso al muro. Scarlato cadde bocconi per terra ed io, resomi conto che Scarlato era rimasto ucciso, rimasi per poco tempo in casa, interdetto per quanto era successo. Vennero in casa i miei due figli e dissi loro che mi sarei recato al Tribunale per costituirmi ed allora mio figlio Eugenio andò in cerca di un biroccino e quindi venni a Cosenza…
– Quindi non sapevate se il fucile fosse carico o meno… e allora le quattro cartucce cariche che erano sul letto accanto all’arma? – gli contesta il Giudice Istruttore.
– Il fucile aveva in canna una sola cartuccia. Quelle rinvenute sul letto, io le presi da un tiretto dopo che il colpo era esploso per metterle a disposizione della Questura…
– Questa è una cosa alla quale non si può credere – continua a contestargli il magistrato – c’è un contrasto troppo stridente tra lo stato di interdizione in cui assumente di esservi trovato dopo che il colpo era partito e la necessaria calma per pensare a mettere fuori dal tiretto le cartucce e porle vicino al fucile al fine di farle trovare agli Agenti della Questura!
– Io dopo il colpo rimasi interdetto, ma ciononostante pensai di prendere le sole cartucce in mio possesso che si trovavano nel tiretto per porle sul letto accanto al fucile…
– Lo sapete che ci sono dei testimoni che hanno riferito di avervi visto caricare il fucile mentre eravate affacciato alla finestra?
– Io non ho caricato il fucile prima di impugnarlo, ma esso si trovava malauguratamente carico senza che io lo sapessi…
– Un’ultima cosa… l’Agente Grande sostiene che quando vi ha arrestato, gli avete dichiarato che, infuriato, avete sparato dopo che Scarlato vi disse “se hai coraggio sparami…”
– Io ero sconvolto, quindi non ricordo cosa abbia riferito, non credo, però, di aver dichiarato quanto mi contestate perché non risponde a verità. Io non sapevo che il fucile fosse carico e mi limitai soltanto a puntarlo contro Morrone e Scarlato per farli impaurire… malauguratamente partì il colpo…
Man mano che le indagini vanno avanti, molti testimoni giurano di avere visto tutto e tutti confermano che Gregorio Volpintesta ha sparato volontariamente.
L’autopsia non può dire se il colpo sia stato sparato volontariamente o meno, però dice qualcosa che potrebbe significare molto: Francesco Scarlato, quando fu colpito, era intento a zappare, quindi piegato con le braccia protese in avanti, offrendo il lato destro del corpo a Volpintesta. A suffragare questa ricostruzione è l’ubicazione delle ferite sul braccio (venti) e sulla regione ascellare (quarantacinque), prodotte da pallini da caccia N° 4, i cosiddetti Vurpari.
Ma ad inguaiare seriamente Gregorio sono sua moglie, Palma Mazzotta, e i suoi figli.
La moglie racconta:
La moglie racconta:
– Il 22 settembre, verso le ore 6, mi recai a Cosenza prendendo l’autobus in località Quattromiglia. Ritornai da Cosenza, dopo aver comprato del pane, con il treno verso le ore 10,30, scendendo allo scalo di Castiglione Cosentino. Da qui mi portai nella mia abitazione. In casa trovai mio marito seduto su di una sedia, il quale mi disse che aveva sparato a Scarlato perché lavorava in compagnia di Eugenio Morrone e, nonostante invitato, non aveva voluto smettere di fare con la zappa un solco tra la sua proprietà e quella di Morrone. A mia volta dissi a mio marito che avrebbe potuto accordarsi con le buone e lui mi rispose che sparò perché Scarlato non aveva voluto aderire alle sue richieste di smettere il lavoro…
Poi Ercole, il primo a raggiungere il padre in casa:
– Trovai mio padre seduto su di una sedia e sul letto vidi che era deposto il fucile con cinque cartucce di cui quattro cariche ed una vuota. Non so se il fucile sia stato scaricato da mio padre, però penso che così sia stato…
Infine Aniello:
– Mio padre si è limitato a dirmi che egli aveva preso il fucile per fare intimorire Scarlato e Morrone al fine di farli allontanare, ma poiché Scarlato aveva risposto che sarebbe rimasto sul posto a
lavorare, aggiungendo “se hai coraggio sparami…” mio padre aveva sparato contro Scarlato…
lavorare, aggiungendo “se hai coraggio sparami…” mio padre aveva sparato contro Scarlato…
Per il Pubblico Ministero il dubbio se si sia trattato di omicidio compiuto con piena volontarietà o se sia da attribuire a sua imprudenza, non esiste perché le modalità stesse del fatto indicano chiaramente la volontarietà: innanzi tutto egli lo afferma alla Questura e non può, come è solito a tutti gli imputati, mettere in ballo percosse, schiaffi e sputi da parte degli agenti, ma prospetta la tesi che, essendo estremamente conturbato per quanto accaduto, ha affermato una circostanza non vera. È falso. Il turbamento per un grave fatto commesso non obnubila le facoltà intellettive ma le lascia integre. Sotto l’impressione del recente delitto commesso, l’uomo, per quel bisogno che ogni essere umano sente, riferisce i fatti così come avvenuti, è questa la verità. Il Volpintesta è vecchio cacciatore e pertanto egli dice bugia quando afferma che non sapeva se il fucile fosse carico: è stato egli stesso a caricarlo, nun fu altro per il rumore metallico dell’otturatore avvertito da Eugenio Morrone. È la precisione con cui lo Scarlato viene colpito che ci dimostra pienamente la grande perizia con cui egli maneggiava le armi e non è concepibile una involontarietà così grave in un vecchio cacciatore così come egli era. E di tale perizia egli ce ne da ancora una prova allorché, dopo aver sparato, egli scarica regolarmente l’arma omicida e deposita fucile e cartucce sul letto. Secondo il Pubblico Ministero l’atto non ci denota una premeditazione, ma ci denota la volontà omicida di un soggetto che tutti descrivono di carattere iroso, malvagio, maligno. Il movente dell’umidità che il solco avrebbe potuto causare all’abitazione di Volpintesta è una falsa credenza, il vero movente è da ricercare, per il Pubblico Ministero, nel suo carattere malvagio e dispotico. Deve essere rinviato a giudizio.
Il 30 aprile 1953 il Giudice Istruttore accoglie la richiesta e Gregorio Volpintesta viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
Il dibattimento si apre il 27 luglio successivo con la dichiarazione delle parti lese di essere state interamente risarcite dall’imputato. Il giorno dopo la Corte è già in grado di emettere la sentenza che dichiara l’imputato colpevole del reato di omicidio volontario in persona di Francesco Scarlato e di minacce gravi in persona di Eugenio Morrone. Con la concessione dell’attenuante di avere interamente risarcito il danno prima del giudizio e delle attenuanti generiche, la Corte lo condanna a 10 anni di reclusione e pene accessorie.
Il 2 luglio 1954, la Corte di Appello di Catanzaro, in riforma della sentenza di primo grado, concede a costui anche l’attenuante dello stato d’ira, cagionato dal fatto ingiusto altrui, e riduce la pena inflitta per l’omicidio ad anni sette di reclusione. Inoltre dichiara non doversi procedere per il reato di minacce con arma perché il reato è estinto in virtù dell’amnistia concessa con D.P.R. n. 922 del 19/12/1953. Infine dichiara condonati anni quattro della pena inflitta per l’omicidio, a norma dell’articolo 2 del citato D.P.R.[1]
Ancora due mesi e mezzo e poi Gregorio Volpintesta potrà tornare ad affacciarsi alla finestra della sua camera da letto senza temere più che a qualcuno venga in mente di scavare dei solchi.
[1] ASCS, Processi Penali.
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