IL CONSENSO NEGATO

– Annunzià… ti sposo… te lo giuro… ma mò corichiamoci insieme… che cambia ora o tra un paio di mesi? – Angelo Fittipaldi, 20 anni, sembra davvero convinto agli occhi di Annunziata Petracca, 19 anni, e così, dopo diversi mesi di amoreggiamento, col loro pieno consenso, nel settembre del 1931 si congiunsero carnalmente.
Ma Angelo non ha fatto i conti con sua madre, Maria Feudo, energicamente contraria alle nozze per le misere condizioni economiche della Petracca. Madre e figlio cominciano ad avere spesso vivaci alterchi, tanto che un vicino di casa, Alessandro Aloia, si mette in mezzo per consigliare la Feudo di desistere da tale opposizione, ma costei fu irremovibile.
Ma Angelo e Annunziata si amano e continuano a vedersi in casa della ragazza per fare l’amore e Angelo continua a giurare che farà cambiare idea a sua madre e, finalmente, potranno sposarsi. Arriva anche a spingersi oltre:
– Anche se mia madre non mi dà il consenso, ti sposo lo stesso!
Annunziata, però, resta subito incinta e quando il suo stato non può più essere nascosto, sua madre, Antonietta Gramuglia, non potendo più tollerare un simile scandalo, tanto più che aveva un’altra figlia diciassettenne, il 19 aprile 1932 la caccia di casa.
– Angiulì… mi devi aiutare… mi ha cacciata e sono in mezzo alla via.
Angelo non ci pensa su due volte, la prende per mano e la porta a casa sua in contrada Cozzo del Vescovo di San Marco Argentano, sua madre dovrà farsene una ragione.
– Non la voglio in casa mia! Vedi dove la devi portare, ma qui no! Mai! – il tono di Maria Feudo è di quelli che non ammettono repliche. Angelo la prega, la scongiura, batte i pugni, minaccia sfracelli ma non riesce ad ottenere niente altro che il permesso di ospitarla solo per quella notte, esclusivamente in considerazione delle pietose condizioni in cui si trova la ragazza.
La mattina seguente, però la mise senz’altro alla porta e Angelo accompagna Annunziata in un pagliaio vicino, restando con lei per quattro giorni. Ma questo stato di cose non può più continuare, così la mattina del 24 aprile Angelo pensa di accompagnare Annunziata in casa di Rosina, la sorella maggiore della ragazza, dove trovano anche la madre. Tutti insieme discutono a lungo della situazione e, finalmente, decidono di andare a Roggiano Gravina, paese natale di Angelo, per ottenere il rilascio immediato dei documenti necessari per la celebrazione del matrimonio. Arrivati in paese, Angelo dice alla futura suocera di aspettarlo pochi minuti:
– Prima di andare al municipio voglio salutare alcuni parenti… aspettatemi qui…
Antonietta Gramuglia aspetta pazientemente quasi tutta la giornata, ma di Angelo non c’è più nemmeno l’ombra. Convinta di essere stata vittima di un tranello, verso le quattro di pomeriggio se ne torna a casa in preda a tutte le furie.
– Allora? Tutto a posto? – le fa, trepidante e ansiosa, Annunziata, convinta che sia finalmente giunto il tanto sospirato giorno della sua sistemazione.
– Tutto a posto ‘nu cazzu! – sbotta la madre, che continua con una serie di epiteti inenarrabili nei confronti di Angelo e della madre – m’ha lasciato in mezzo alla via e se n’è andato con una scusa.
Ad Annunziata crolla il mondo addosso. Sua madre certamente non la rivuole in casa e da sua sorella non potrà stare in eterno. Che ne sarà di lei e del bambino che deve nascere? Nella migliore delle ipotesi dovrà fare la puttana per riuscire a mettere qualcosa sotto i denti. No, la puttana proprio no! Farà qualcosa di straordinario! Approfittando del fatto che sua madre torna a casa e che sua sorella esce per prendere l’acqua, si arma di un coltello con lama acuminata e lunga 19 centimetri, di quelli che si adoperano per ammazzare i maiali e, in preda alla più viva disperazione, esce, dirigendosi verso la casa del suo uomo. Vuole vendicare il suo onore vilipeso? Vuole uccidere Angelo che l’ha disonorata? Vuole tentare ancora una volta di commuovere quel cuore che pure aveva tanto palpitato per lei? O forse vuole ammazzarsi davanti a coloro i quali le hanno distrutto la vita?
Arrivata vicino alla casa di Angelo, si accorge che non c’è e decide di aspettarlo. Vede un comune conoscente e gli chiede se lo ha visto rientrare. No, non lo ha visto. Così lo aspetta per un giorno e per una notte, spiando il ritorno di Angelo, nonostante piovesse a dirotto. È sfinita e pensa che forse Angelo è tornato e lei non lo ha visto. Così, verso le 17,30 del 25 aprile, va a bussare alla porta. Le apre Maria Feudo:
– Dov’è Angelo? – le chiede.
Ma Maria Feudo, non appena la vede, stravolta, fradicia, cenciosa, la aggredisce cercando di spingerla lontano dalla sua casa:
Vatti a cercare un altro uomo, puttana fottuta! – le urla in faccia.
 Annunziata, vedendosi ancora una volta offesa, perde la testa. Caccia lo scannaturu da sotto i suoi cenci e vibra alla donna, che avrebbe voluto fosse sua suocera, un primo colpo al fianco destro che la fa stramazzare al suolo.
Maria la implora di risparmiarla, mette le mani avanti per proteggersi, ma la pietà e la comprensione che non ha avuto verso Annunziata, Annunziata non l’ha verso di lei. Nell’animo della ragazza ci sono solo un odio cieco e una rabbia irrefrenabile, così le coltellate si susseguono inesorabili. Altre quindici coltellate e la morte arriva immediata.
Annunziata butta il coltello sul cadavere martoriato e si va a costituire dai Carabinieri di San Marco, spiegando le ragioni del suo orribile delitto:
– L’ho fatto in un momento di esasperazione, determinato dal contegno cinico e sprezzante di Maria Feudo che non solo mi negò pane e sale, ma mi respinse in malo modo con minacce e con schiaffi… mi ha pure chiamato mala femmina
Gli inquirenti non credono che lo abbia fatto in un momento di esasperazione, ma credono che abbia premeditato il delitto, aiutati in questo dalle accuse che adesso Angelo le riversa addosso, cercando di coprire di fango e di vergogna la donna che a lui si era data, assumendo che prima di lui altri l’avevano posseduta. Tutti sanno che non è vero e lo testimoniano, ma non c’è niente da fare, l’accusa resta di omicidio premeditato e con questa imputazione, il 7 settembre 1932, il Giudice Istruttore la rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
Il dibattimento si tiene il 5 maggio 1933.
Il Pubblico Ministero non conferma l’accusa di omicidio aggravato dalla premeditazione, sostenendo ora quella di omicidio volontario; la difesa chiede il riconoscimento del vizio parziale di mente o, in subordine, l’attenuante della provocazione grave.
La Corte osserva che sull’autrice dell’esecuzione materiale del delitto nessun dubbio può sorgere perché è la stessa imputata che lo ha confessato, ma non può dubitarsi neanche sul concorso dell’elemento intenzionale perché, a parte che la Petracca non ha osato di dire di aver voluto soltanto ledere, la volontà omicida, nella specie, traspare in modo non equivoco dalla idoneità dell’arma a produrre la morte, dalla reiterazione dei colpi, ben sedici, e dalla ubicazione degli stessi con lesione di organi vitali. Non può ritenersi, però, che il delitto sia stato premeditato o, per lo meno, sul concorso di simile aggravante sorge il grave dubbio, in quanto tutte le peculiari circostanze di fatto accertate inducono a ritenere che se mai la Petracca avesse maturato qualche proposito criminoso, questo era diretto contro il proprio seduttore e non contro la di lui madre. Ma anche sul proposito di uccidere il suo seduttore bisogna fare le debite riserve perché, se da una parte vi è una causale proporzionata, il possesso dell’arma e la permanenza della Petracca nei pressi della casa del Fittipaldi per un giorno e per una notte, dall’altra vi è la considerazione che, essendo stata scacciata da casa sua, non le rimaneva altra via di scampo che chiedere protezione all’uomo che in tali condizioni l’aveva ridotta e ben può darsi che si sia armata di coltello per difendersi, capendo che doveva attraversare e rimanere per qualche tempo nei boschi. Né si opponga che tali considerazioni costituiscono una stortura dei fatti, perché fino a quel momento mai il Fittipaldi le aveva detto di volerla abbandonare e quindi legittima era tale speranza.
La Corte sostiene di non poter accogliere il riconoscimento del vizio parziale di mente perché tutte le modalità di fatto concorrono a far ritenere che la Petracca agì nella pienezza delle facoltà mentali, non essendo risultato alcun elemento da cui desumere una eventuale incoscienza, sia pure momentanea. Non ritiene nemmeno di poter accogliere l’attenuante della provocazione perché è mancato da parte della vittima il fatto ingiusto. Non può non ritenersi legittima l’ostinata opposizione della Feudo, quale madre e legale rappresentante il figlio minore, al matrimonio del figlio con la Petracca. Negando il consenso esercitava un diritto che le veniva dalla legge e chi esercita un diritto non commette fatto ingiusto, ma nel contempo adempiva anche ad un dovere che le veniva imposto da una legge naturale e morale, in omaggio alla quale i genitori devono impedire ai loro figliuoli di contrarre matrimoni che a loro non sembrano vantaggiosi o che comunque potrebbero essere fonte d’infelicità o dispiaceri. Del pari manca il fatto ingiusto in quanto a chiunque è lecito respingere, anche con la violenza, chi vuole violare il proprio domicilio e la Feudo non fece altro che scacciare, sia pure con uno spintone e con qualche calcio, la Petracca che per forza voleva penetrare nella di lei abitazione. Pertanto, comunque si guardi la cosa, la reazione di costei non può mai giustificarsi. L’unica attenuante che può concedersi è quella che la Petracca agì in un momento di grande disperazione, determinata dallo scempio che si era fatto del suo onore e credendo di poterlo vendicare: questo indubbiamente costituisce un motivo di particolare valore morale meritevole di una certa considerazione.
Tutto questo ragionamento serve per confermare la responsabilità penale di Annunziata Petracca. La Corte ritiene giusto, partendo da anni ventiquattro, meno un terzo per l’attenuante suddetta, condannarla ad anni sedici di reclusione, alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, alla libertà vigilata ed altre pene accessorie, nonché al risarcimento del danno alla parte civile. Ma Annunziata è incensurata e deve beneficiare dell’ultimo decreto di amnistia, per effetto del quale le vengono condonati anni cinque della pena detentiva inflittale.[1]
La difesa di Annunziata non ci sta e ricorre alla Corte di Cassazione che, il 31 gennaio 1934 annulla la sentenza, rinviandola alla Corte di Assise di Catanzaro la quale, il 17 dicembre dello stesso anno, vede i fatti in modo diverso: Annunziata agì sotto l’influsso dei cosidetti stati emotivi e passionali, che la legge considera come circostanze influenti sulla quantità del delitto e la misura della pena, quando siano provocati da motivi di particolare valore sociale e morale. Funzionano qui quei moventi che sono approvati anziché riprovati dalla coscienza civile di un popolo in un dato movente storico e tra essi va indubbiamente annoverata la causa d’onore. E fu questo il movente che indusse la Petracca al delitto. Sedotta e resa incinta dal Fittipaldi, con inganno abbandonata da costui per la ingiusta resistenza della Feudo (i genitori hanno l’obbligo morale d’indurre ed obbligare i figli a riparare le male azioni commesse), riusciti vani gli ultimi tentativi per richiamare il giovane all’adempimento del suo dovere, stanca e prostrata dalla lunga e vana attesa di un giorno ed una notte sotto l’imperversare della pioggia, in uno stato passionale di turbamento, di dolore, di sconforto in cui si prospettarono nel suo animo le fitte tenebre di un avvenire per se e per la innocente creatura che portava nel suo seno, ella picchiò alla porta della Feudo nella speranza di commuovere quel cuore indurito dall’egoismo e per il nuovo e ancor più reciso rifiuto opposto dalla Feudo  che determinò l’esplodere della sua passione. Ma i giudici di Catanzaro ritengono che Annunziata sia meritevole di un’altra attenuante, quella di aver subito una atroce ingiuria, tanto più grave in quanto proveniva dalla madre di colui che l’aveva sedotta e fu questa ingiuria che, reagendo nell’animo di lei, già sconvolto dalla passione, costituì la nuova scintilla che alimentò e determinò il proposito di vendetta.
Considerato tutto ciò, la Corte, fatti i debiti calcoli, fissa la pena in anni nove e mesi quattro di reclusione, dai quali, come nel primo processo, vanno dichiarati condonati 5 anni perché amnistiati.[2]


[1] ASCS, Processi Penali.
[2] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Corte d’Assise di Catanzaro.

 

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