SUPPOSTE DI PIOMBO

La mattina del 7 dicembre 1952 Giuseppe Vilardi, commesso nella farmacia Serra, è a casa. Qualcuno bussa alla sua porta. Vilardi apre e si trova davanti un giovanotto dai modi cortesi:
– Don Peppì, buongiorno, vengo a nome della signora Baldis che vi manda a dire se potete andare a casa sua per praticare delle iniezioni di penicillina ad un suo figliuolo ammalato
– Va bene, ma le medicine le ha già?
– No… mi ha dato questa ricetta per comprarle, sotto c’è una carrozzella che aspetta…
Vilardi dà un’occhiata alla ricetta, si mette il cappotto e, insieme al giovanotto, parte in carrozzella da Corso Mazzini verso il centro storico, dove abita la signora Baldis. Lungo il tragitto si fermano davanti alla farmacia Misasi per acquistare le medicine prescritte. Vilardi entra e trova il dottor Aldo Misasi dietro il bancone, intento a sistemare alcune carte.
– Buongiorno dottò! – lo saluta cordialmente.
– Buongiorno Peppì! Come stai?
– Tiriamo la carretta… voi siete sempre un giovanotto!
– Mi sfotti? Ho passato i trentadue…
– Cent’anni ccu bona salute!
– Peppì che ti serve?
– Devo andare a fare delle punture, qui c’è scritto tutto – gli dice porgendogli la ricetta, poi aggiunge – ah! Datemi pure una scatola di bicarbonato.
Il farmacista va a prendere le medicine, le mette in un sacchetto di carta che porge a Vilardi e dice
– Fanno duemilalire Peppì, ti ho fatto duecentolire di sconto… ah! Vedi che ti ho scritto come diluire la penicillina e poi, secondo me, per un bambino tre fiale in una volta sola sono troppe…
– Sempre gentile dottò! Lo so benissimo come si diluisce il medicinale. Arrivederci! – gli dice porgendogli delle banconote.
La signora Baldis mette a bollire la siringa nel suo astuccio e apre il sacchetto. Qualcosa non torna
– Peppì, non c’è tutto…
– Come non c’è tutto? Tre boccette di penicillina, una scatola di supposte Bi-Valeas e in più una scatola di bicarbonato – ripete meccanicamente.
– Qui ci sono le tre boccette e il bicarbonato, le supposte non ci sono.
– Il farmacista si sarà imbrogliato, il conto era giusto… dopo fatta la puntura ci passo e risolvo il malinteso.
Vilardi risale nella carrozzella. Giunto davanti alla farmacia Misasi scende e dice al cocchiere che può andarsene perché farà due passi, poi entra.
– Dottò… c’è stato un equivoco… non mi avete dato le supposte però credo di averle pagate… in caso contrario verrà la signora a ritirarle…
– Sicuro? Mi dispiace…
– Tranquillo dottò, una distrazione capita a tutti e… grazie per lo sconto! – gli dice in tono scherzoso.
Al dottor Misasi il riferimento alle 200 lire di sconto che ha praticato a Vilardi suonano come un’accusa: l’accusa di essersi intascato i soldi in modo fraudolento.
Devi andare a farlo in culo soltanto! – ruggisce il farmacista.
Io non sono abituato… a fare in culo ci vai tu! – replica stizzito Peppino.
È la goccia che fa traboccare il vaso. Aldo Misasi gira intorno al bancone, si pianta davanti a Vilardo e gli molla un sonoro ceffone.
Vavatinni! – gli intima guardandolo con gli occhi rossi dalla rabbia. Vilardi sta per reagire ma per fortuna interviene un cognato del farmacista che riesce a calmare gli animi – Vattene! – ripete Misasi e Peppino si avvia verso l’uscita tenendo nella mano sinistra due denti finti che gli sono caduti per la violenza dello schiaffo ricevuto ma, fermatosi sulla porta, si gira e reagisce:
Vieni fuori vigliacco! Escia fora ca ti fazzu vida iu… i shcaffi tua ‘un mi tiagnu! – la sua mano destra sparisce nella tasca dei pantaloni e ne esce armata con una pistola. Misasi sbuffa, afferra una sedia e si lancia sull’avversario con l’intenzione di fracassargliela in testa, dimenticando il piccolo particolare che Vilardi è armato.
Prima di stramazzare al suolo svenuto, Aldo Misasi sente un dolore acutissimo all’addome. È stata la pallottola calibro 6,35 che gli si è conficcata vicino al pube, perforandogli l’intestino in cinque punti e rimanendo all’interno del corpo.
Peppino Vilardi rimette in tasca la pistola e si avvia verso Piazza Ferrovia dove lo inseguono le urla di un passante che ha visto tutto. Il trambusto viene avvertito dal Vigile Urbano Michele Pennese che ferma Peppino e lo fa entrare nel portone del civico 7 di Piazza Ferrovia, rinchiudendolo nel chiosco di fiori che è all’interno di quell’androne. Lo perquisisce e gli trova la pistola, che sequestra, e poi, prima di accompagnarlo in Questura, gli porge un fazzoletto per tamponare il sangue che gli cola dal naso.
Aveva dimenticato di darmi le supposte B-Valeas e mi sono lamentato aspramente dicendo che mi aveva fatto fare una brutta figura con la cliente, ma il mio dire non è stato né violento, né volgare. Alle mie rimostranze, Misasi mi ha mandato a fare in culo. Alle prime offese non ho risposto, ma alle successive volgarità rispondevo: “Ci vai tu a fare in culo, non è modo di trattare i clienti!”. Dopo tale risposta Misasi mi ha preso a schiaffi riducendomi in un angolo tra l’armadio e il muro. Riuscivo a sfuggire ed uscendo gli dicevo che non mi sarei tenuto i suoi schiaffi e lo invitavo ad uscire. Alla mia minaccia Misasi cercava di uscire fuori con una sedia per lanciarmela, mentre il giovane che era in farmacia cercò di trattenerlo afferrandolo per il corpo, ma Misasi si liberò, allora io estrassi la pistola con la mano destra, mentre con la sinistra cercavo di parare i colpi della sedia. Appena estrassi l’arma la puntai contro Misasi intimandogli di stare fermo, invitandolo di nuovo ad uscire fuori la farmacia ove gli avrei potuto dare ogni soddisfazione. Misasi allora mi diede un colpo con la sedia sul braccio destro e sulla pistola che tenevo in mano. Partì così involontariamente un colpo che attinse Misasi alla pancia. Sono quindi uscito dalla farmacia e con passo calmo mi diressi verso la stazione dei Carabinieri per costituirmi ma, giunto all’angolo di via Sertorio Quattromani, fui raggiunto da un vigile che mi voleva perquisire. Io mi rifiutai e così mi condusse in un portone vicino ove mi disarmò
A smentire questa ricostruzione è il cognato del dottor Misasi, Giuseppe Policicchio, che durante la lite era nella farmacia intento a leggere un giornale:
Non ho ben percepito le parole che Vilardi profferì all’indirizzo di mio cognato allorché, con fare risentito, entrò nella farmacia, né le parole che mio cognato, di rimando, pronunziò nei confronti di Vilardi. Ricordo però che si lamentò con fare inurbano e alquanto alterato. I due, tra uno scambio di parole alquanto alterato, vennero alle mani. Intervenni e li divisi, cosa che mi fu facile in quanto da nessuno dei due mi fu opposta resistenza. Mio cognato disse a Vilardi di andarsene e l’altro se ne uscì profferendo parole di cui non ricordo l’esatto tenore, ma mi pare che disse: “Va… bene… va bene… me ne vado… me ne vado…”. Vilardi però, non appena raggiunse la soglia della porta estrasse dalla fondina una rivoltella e si voltò profferendo contro mio cognato parole ingiuriose e di sfida, bestemmiando volgarmente. Mio cognato, che si trovava fuori del bancone e vicino la cassa che è collocata sul lato sinistro del locale per chi entra, invitò ripetutamente Vilardi a desistere dal suo atteggiamento e ad andarsene, ma Vilardi continuò ad invitare mio cognato ad uscir fuori dicendo: “Vigliacco… vigliacco…”, senonché, proprio nel momento in cui mio cognato aveva afferrato uno sgabello che si trovava a portata di mano, dicendo di nuovo a Vilardi: “esci fuori”, quest’ultimo lasciò partire un colpo che attinse mio cognato
– Eravate in farmacia anche la mattina quando Vilardi prese le medicine?
– Si.
– Come vi sono sembrati i due?
Non vi era stato nulla di anormale fra i due. Discussero semplicemente in modo pacato sulle medicine che Vilardi desiderava.
– Chi ha veramente cominciato la lite?
Per la verità debbo dire che mio cognato, a seguito delle ingiurie al suo indirizzo, fu il primo a lanciarsi, poi i due si azzuffarono e si dettero l’un l’altro scappellotti.
La testimonianza di Policicchio e le gravi condizioni in cui versa il dottor Misasi costano a Vilardi una denuncia per tentato omicidio.
Nel frattempo il dottor Ludovico Docimo, Direttore dell’Ospedale cittadino, opera d’urgenza il ferito per ricucirgli l’intestino tenue e i vasi sanguigni recisi dal proiettile, che non viene cercato per non accrescere i rischi dell’intervento chirurgico. Bisognerà aspettare per capire se il ferito potrà cavarsela.
E bisognerà aspettare quasi due mesi prima di poter dire ufficialmente che Aldo Misasi è fuori pericolo e sopravvivrà, nonostante nel frattempo sia stato colpito da una emorragia cerebrale che gli impedisce di muoversi, ma finalmente potrà ricostruire, dal suo letto, le fasi della discussione che lo hanno tenuto tra la vita e la morte:
Quella mattina Vilardi mi disse che doveva, egli stesso, praticare le iniezioni indicate nella ricetta. Spiegai allo stesso come doveva diluire la penicillina, avvertendolo che non era il caso di far uso di tutti e tre i flaconi di penicillina. Vilardi si mostrò seccato per le mie spiegazioni, tanto che io gli consegnai quanto era indicato nella ricetta e gli dissi solamente che di medicamenti non ne capiva niente. Non ricordo cosa Vilardi mi rispose, ma certo se ne andò via contrariato, forse per le parole che gli avevo detto. Verso le 13 ritornò in farmacia e mi fece presente che dal pacchetto delle medicine mancava una scatola di supposte. Io non so con esattezza cosa risposi, ma ad un certo momento, poiché Vilardi mi fece quasi intendere che io mi ero appropriato di 200 lire, quanto in effetti costava il medicinale che avevo dimenticato di consegnargli, mi adirai e lo apostrofai  dicendoli qualche parola di cui ora non ricordo il tenore e da ultimo, poiché egli non se ne voleva andare, uscii da dietro il bancone e gli assestai uno schiaffo, spingendolo verso la porta. Non ero ancora ritornato dietro il bancone, quando sentii mio cognato gridare: “Guarda che spara! Guarda che spara!”. Istintivamente presi uno sgabello che mi venne a portata di mano, ma lo avevo appena sollevato da terra che Vilardi
esplose il colpo… e non ricordo altro
Ora che Aldo Misasi smentisce anche suo cognato si prevedono grattacapi per gli inquirenti: chi degli unici tre presenti al fatto ha detto la verità sugli attimi precedenti allo sparo?
Secondo il Giudice Istruttore, invece, la cosa è abbastanza semplice:
L’imputato afferma di essere stato ripetutamente, in due riprese e con violenza, colpito con schiaffi e pugni e non può per lo meno esser taciuto che sul viso del Vilardi al momento del suo fermo, che avvenne pochi minuti dopo dal fatto, furono notate macchie di sangue. Non sembra lecito dubitare che il Misasi, almeno nel primo svolgersi dell’incidente, viene sorpreso in atteggiamento prepotente ed aggressivo, anche se non si può, in base agli elementi generici emersi e ad ovvie considerazione di ordine logico, seguire la tesi difensiva profilata nell’interrogatorio e tendente a prospettare una situazione di legittima difesa.
Ad un certo momento il Vilardi tirò fuori la pistola e ne fece uso. Quando? Che avesse estratto l’arma appena venuto a diverbio è da escludere perché non lo dice nemmeno la parte lesa, né il teste Policicchio; che l’avesse estratta mentre il Misasi gli si lanciava contro per colpirlo è da non credere giacché il Vilardi non si sarebbe, con un’arma in pugno, lasciato avvicinare, tanto che il Misasi poté impunemente assestare almeno uno schiaffo al Vilardi; ond’è da ritenere con maggiore verosimiglianza che il Vilardi, schiaffeggiato e messo in fuga per come ammette lo stesso imputato, abbia in quel momento tirato fuori la pistola e, voltatosi indietro, abbia esploso il colpo che attinse il Misasi.
Fece il Vilardi uso immediato dell’arma? Se è indubbio, quindi, per quanto è emerso, che il Vilardi estrasse l’arma quando stava per uscire dalla farmacia, non sembra credibile che lo stesso, adirato com’era, non ne facesse immediato uso in modo da dar tempo all’altro di poterlo di nuovo, eventualmente, aggredire. Dallo svolgimento, sia pure rapido dei fatti, si evince chiaramente che il Misasi dovette, voltandosi, trovarsi l’avversario contro con l’arma imbrandita e che automaticamente afferrò lo sgabello come per farsene scudo, giacché se l’altro gli avesse a lungo puntato l’arma, diverso, per quanta audacia avesse avuto, sarebbe stato il suo atteggiamento.
Pertanto, se da un canto non è da prendere in seria considerazione l’assunto dell’imputato che il colpo partì inavvertitamente, dall’altro la prospettata tesi di legittima difesa mal regge giacché, non può comunque fondatamente sostenersi che il Vilardi nel momento in cui sparò versasse nella necessità dell’autotutela; l’offesa patita era un fatto già compiuto e l’atteggiamento dell’imputato è da considerarsi quindi una reazione offensiva ex post e non difensiva. Orbene si dice cosa affatto nuova se si ricorda che la legittima difesa opera contro un pericolo incombente e non contro una lesione giuridica già avvenuta che, diversamente, si legalizzerebbe la vendetta.
Tenuto conto di ciò, dell’arma utilizzata, la regione vitale presa di mira, la breve distanza da cui il colpo fu esploso e lo spirito di vendetta da cui indubbiamente il Vilardi era dominato, sono elementi congrui a dimostrare la volontà omicida.
L’ipotesi di tentato omicidio è confermata e Giuseppe Vilardi viene rinviato a giudizio. È il 28 febbraio 1953.
Il 2 maggio successivo comincia il dibattimento.
Appena venni a conoscenza del fatto mi recai all’ospedale presso il dottor Misasi che ancora non era stato operato – dice il dottor Carmelo Serra, proprietario della farmacia presso la quale lavorava Vilardi – e questi mi pregò di fare di tutto perché nulla fosse accaduto di male al Vilardi e di aiutarlo nei limiti delle mie possibilità perché egli di questo non si sarebbe dispiaciuto; aggiunse pure di recarmi in questura per cercare di avere contatto col Vilardi per assicurarlo sulla sua intenzione di non volergli fare del male. Vilardi è stato alle mie dipendenze per 21 anni circa e ha mantenuto sempre una condotta irreprensibile e lodevole sotto ogni riguardo
Le testimonianze sulla correttezza, la buona indole, la laboriosità di Vilardi si sprecano, anche se tutti ammettono che di tanto in tanto soffriva di esaurimento per eccesso di lavoro per cui diventava un po’ nervoso.
Il Pubblico Ministero chiede che il reato sia derubricato in lesioni aggravate con la concessione delle attenuanti da dichiararsi prevalenti sull’aggravante dell’arma e il riconoscimento della provocazione.
La difesa, rappresentata dall’avvocato Orlando Mazzotta, chiede invece l’assoluzione, continuando a sostenere la tesi della legittima difesa.
Nel pomeriggio dello stesso 2 maggio, il Presidente dà lettura della sentenza emessa dalla giuria: colpevole del delitto di lesioni volontarie gravi, aggravate per l’uso dell’arma, con l’attenuante di avere agito in istato d’ira determinato da fatto ingiusto della parte offesa e con attenuanti generiche che dichiara prevalenti sull’aggravante dell’arma contestata. Tradotto in cifre fanno 1 anno e 4 mesi di reclusione, oltre le pene accessorie.
Il 28 luglio 1953 Giuseppe Vilardi rinuncia formalmente al ricorso in Appello e la sentenza diventa definitiva.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi penali.

 

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