Francesco Ranoia, ombrellaio di San Marco Argentano, e la compaesana Silvia Venere si sposano il 5 febbraio 1905. Lui ha 19 anni e lei 15. Lui ha conosciuto solo la madre, lei è una trovatella. Col matrimonio uniscono i propri dolori, ma le cose tra loro vanno subito male. Francesco ha un carattere irascibile e violento e sottopone Silvia a quotidiani pestaggi, tanto che la povera ragazza è costretta a denunciarlo un paio di volte. L’ultima denuncia la fa il 23 giugno 1909 per lesioni qualificate, minaccia a mano armata di rivoltella, maltrattamenti e stupro contro natura e Francesco viene condannato a due anni e cinque mesi di reclusione. Esce a gennaio del 1912 e torna in paese. Silvia non c’è più, se ne è andata a Montalbano Ionico dove ha trovato lavoro, ma Francesco la rintraccia e le si presenta pentito.
– Torniamo insieme a casa, ti prometto che non ti toccherò più – le dice con le lacrime agli occhi.
Silvia è titubante, le continue sevizie le hanno lasciato ferite che non si rimarginano, ma Francesco insiste, resta anche lui per qualche tempo a Montalbano e Silvia può toccare con mano il cambiamento radicale del marito, adesso gentile e premuroso. Si, è cambiato. Silvia accetta di fare pace e i due tornano nella casa al numero 22 di Vico II° Sant’Antonio a San Marco Argentano, ma qui trova un’amara sorpresa: era tutta una messa in scena. Botte e sevizie riprendono come prima e forse anche peggio di prima.
Il 5 agosto 1912 Francesco e Silvia litigano per l’ennesima volta. Lui, prima riempie di botte la moglie e poi si allontana da casa e non torna per giorni. Silvia è disperata e, come fa ogni volta che il marito la picchia, si rifugia a casa di Maria Gaetana Di Cianni che considera come una nonna, non avendo mai conosciuto i genitori. Quella donna, che abita la casa dirimpetto alla sua, è l’ancora di salvezza di Silvia: la capisce, la conforta, la consiglia, la rimprovera se è necessario e, cosa più importante, è l’unica persona al mondo che le voglia bene.
Il 9 agosto Silvia e sua nonna passano la giornata lavorando in contrada Orsomaggio e nel tardo pomeriggio tornano in paese. La ragazza entra in casa per prendere della roba e poi esce per attraversare la strada e andare da Maria Gaetana. Sono le sette di sera.
Silvia è sulla soglia quando le si para davanti suo marito che la saluta come se niente fosse, posa i ferri del mestiere ed entra in casa. Lei lo guarda scoraggiata.
– Vammi a comprare un sigaro e muoviti! – le ordina come si ordina a una serva.
– Sei passato davanti al botteghino, perché non ti sei fermato? Vattelo a comprare da solo e già che ci sei comprati pure da mangiare che non c’è niente! – gli risponde a tono.
– Questa storia la dobbiamo finire, sei una puttana maledetta!
– Si, si, vai dove devi andare che la finiamo questa storia!
Francesco batte un pugno sul tavolo ed esce; Silvia avvisa la nonna e rientra a casa per dirgli una volta per tutte che è davvero finita e che questa volta non ci saranno perdoni. Passano solo pochi minuti e lui rientra con il sigaro in bocca, un involto con un po’ di pasta sfusa e dei pomodori. Silvia è in piedi accanto alla porta.
– Che fai lì impalata? – le dice mentre posa sul tavolo il pacco e le volta le spalle.
Silvia è dietro di lui con il braccio destro proteso verso il marito e nella mano ha una rivoltella:
– Muori! – esclama mentre tira il grilletto.
Francesco si sta girando proprio in quel momento, offrendo il profilo alla pallottola che gli si conficca nel naso e viene deviato verso il basso dall’impatto con lo zigomo destro, poi attraversa la bocca e si ferma nel collo a brevissima distanza dalle vertebre cervicali. Superato il momento di stupore, Francesco, dolorante e sanguinante, si butta addosso alla moglie per disarmarla ma non ci riesce, allora tenta di scappare ma Silvia lo afferra con la mano sinistra per la giacca e gli scarica i quattro colpi rimasti alle spalle, poi molla la presa e lui, sebbene gravemente ferito, riesce a uscire in strada e a chiedere aiuto, quindi crolla a terra svenuto.
Silvia scappa e vaga per la campagna, convinta di aver portato a termine la vendetta che meditava da tempo, ma Francesco viene soccorso e il dottor Sarpi, prontamente avvisato, lo opera sul letto di casa e gli estrae la pallottola conficcata nel collo. Per le altre tre ferite, la prima a cinque centimetri dalla colonna vertebrale nella zona lombare destra, la seconda di striscio vicino alla scapola destra e la terza nel fianco sinistro, non giudica opportuno intervenire perché non riesce a individuare le zone dove i proiettili si sono fermati e teme di peggiorare la situazione.
Arrivano anche il Pretore Francesco Dodaro e il Maresciallo Giovanni Galli che attendono la fine dell’intervento chirurgico e provano a domandare al ferito come sono andati i fatti. A stento Francesco Ranoia fornisce la propria versione e aggiunge:
– Ritengo fermamente che mia moglie fosse stata istigata dalla sua nonna Di Cianni Gaetana e dallo zio Gentile Raffaele a disfarsi di me per essere libera di convivere con qualche drudo. Non ho mai saputo che mia moglie possedesse una rivoltella: rovistai le sue cose quando mi unii con lei e non rivenni alcuna arma. Ritengo che l’avesse acquistata con i miei danari poco tempo addietro… con la nonna di mia moglie ebbi una quistione poco tempo addietro e lei mi percosse. Mia moglie e i suoi parenti desideravano che io lucrassi e quando porto del danaro in casa sembra che mi vogliano bene; dopo, quando non porto nulla protestano e inveiscono contro di me.
I Carabinieri, dietro queste accuse, non devono fare altro che attraversare la strada e mettere i ferri ai polsi di Maria Gaetana Di Cianni e Raffaele Gentile che si dicono estranei ai fatti.
– Non ho mai eccitato la Venere a commettere il reato, anzi ho sempre cercato di mettere pace tra i due… – dice la sessantaseienne Maria Gaetana Di Cianni.
– Nessun interesse avrei potuto avere nello spingere Silvia Venere, figlia naturale di una mia sorella uterina, ad uccidere il marito. Sono carico di figli ed ho altro a cui pensare. È semplicemente incomprensibile come il Ranoia avesse potuto coinvolgere me e mia madre nel fatto – afferma Raffaele Gentile.
Gentile non c’entra davvero niente e a dirlo è lo stesso Francesco Ranoia il giorno dopo i fatti:
– Devo dichiarare che Gentile non dovesse essere edotto del fatto e quindi non è complice. In tale senso adesso intendo modificare la mia precedente dichiarazione.
Intanto vengono ascoltati vari testimoni e qualcuno afferma di sapere che qualche giorno prima del fatto, Silvia ha comprato delle cartucce per rivoltella nel negozio di Bernardo Velardi La Regina.
– Circa quindici giorni fa Silvia Venere venne nel mio negozio e mi chiese cinque capsule di rivoltella calibro sette, dicendo che servivano per un contadino. Senza che le avessi richiesto il prezzo, essa mi dette cinquanta centesimi e diffatti il prezzo cui io le vendo è di centesimi dieci ciascuna. Non venne mai a richiedermi per acquistare rivoltelle – conferma il negoziante.
L’undici agosto Silvia si presenta davanti al Pretore Dodaro per costituirsi e fornisce la sua versione dei fatti, raccontando, di sevizia in sevizia, come è arrivata a sparare al marito:
– La sera del 9, quando tornò, mi disse di andargli a comprare un sigaro e mi rifiutai. Allora mio marito cominciò a quistionare dicendo che dovevamo finirla. Poco dopo egli uscì e non so che cosa fosse andato a fare; tornò poco dopo e senz’altro prese la rivoltella che aveva addosso, la puntò contro di me, esplose un colpo ma la capsula non prese fuoco ed in questo mentre io lo disarmai e poi lo ferii. Mio marito mi era di fronte quando gli esplosi il primo colpo. Dopo voleva scappare e lo afferrai per la giacca per trattenerlo, avendo intenzione di ucciderlo ed egli per scappare dovette levarsi la giacca, che rimase nelle mie mani. Ero decisa ad uccidere mio marito per continui maltrattamenti che mi faceva. Portai con me la rivoltella e la ho smarrita scappando perché l’avevo riposta nella tasca del grembiale. Non è vero che quattro o cinque giorni prima del fatto avessi acquistato delle capsule di rivoltella. Non ebbi alcun eccitamento al delitto da mia nonna Di Cianni Gaetana, né da mio zio Gentile Raffaele. Essi invece incitavano tanto me che mio marito ad andare d’accordo.
Marito e moglie danno due versioni diametralmente opposte dei fatti. Bisogna stabilire se Francesco avesse davvero una rivoltella per rendere plausibile la versione di Silvia. A dirimere la questione ci pensa l’armaiolo:
– Ranoia Francesco molti anni addietro ne acquistò una di seconda mano, sistema Smith, di canna lunga con estrattore e di calibro nove.
È evidente che non può trattarsi della stessa arma e quindi Silvia deve averne acquistata una, ma non si riesce a trovare chi può avergliela venduta. La casa dei coniugi viene nuovamente perquisita ma in modo più approfondito e i Carabinieri scoprono, sotto il primo dei due gradini di accesso alla casa, un buco alto 11 centimetri, largo 9 e profondo 22. A nasconderlo è una pietra, davanti alla quale è sistemata della cianfrusaglia. Il nascondiglio perfetto per una rivoltella!
Tutto comincia a essere più chiaro: Silvia medita a lungo la vendetta e aspetta solo il momento propizio. Non ha bisogno di essere spinta al delitto da qualcuno, le botte e le sevizie subite per anni bastano e avanzano per maturare e covare l’odio necessario ad armarle la mano.
Raffaele Gentile viene scarcerato il 18 agosto e Maria Gaetana Di Cianni il 14 settembre. Silvia è l’unica responsabile, per l’accusa, e viene rinviata a giudizio per mancato omicidio volontario ed i giudici hanno per lei parole durissime: Il Ranoia rimase vivo per miracolo e la Venere, valendosi della rivoltella che scaricò tutta, fece quant’era necessario per ucciderlo e la morte non avvenne per circostanze indipendenti dalla volontà della colpevole. Né puossi un istante di ciò dubitare, perrocchè la Venere nei suoi interrogatori affermava di aver agito freddamente e con disegno già formato per uccidere il marito Ranoia. Difatti, come ebbe di mira la vittima, mise in atto lo scellerato disegno di liberarsi del povero marito. È da escludersi assolutamente che esso abbia dato causa al fatto, perché dopo l’assenza di tre giorni, stanco, desideroso di cibo e di riposo, non poteva avere di certo desiderio di litigare con la moglie. Se egli, il Ranoia, fosse stato armato di rivoltella, la Venere non avrebbe osato di colpirlo ed avrebbe aspettato occasione più propizia per l’attuazione del meditato disegno di ucciderlo.
Povero marito!
Il dibattimento comincia il 10 settembre 1914, due anni dopo i fatti, ma due giorni prima, l’8 settembre, Silvia chiede di essere ascoltata dal Presidente della Corte, cav. Salvatore Felici, e fa una dichiarazione scioccante:
– Vorrei invocare dall’Autorità competente i provvedimenti necessari per sottrarre il mio figlioletto ai brutali maltrattamenti che continuamente gl’infligge il padre, il quale è anche capacissimo di fare su di lui atti immondi come voleva fare e faceva su di me e per cui fu condannato a due anni di carcere. Una perizia sul bambino potrebbe accertare quanto vi sia di vero in ciò che mi è stato riferito sul riguardo. L’accusa è gravissima ma non viene disposta alcuna perizia medica, però vengono chieste, genericamente, informazioni ai Carabinieri di San Marco, i quali scrivono che da informazioni assunte, Francesco Ranoia non è ritenuto capace di fare su di lui atti immondi.
Suvvia, non perdiamo tempo con queste stupidaggini! Il processo aspetta e non vale la pena rimestare il letame.
Silvia non molla e il processo slitta al 14 gennaio 1915, ma la donna chiede un nuovo rinvio insistendo sull’opportunità di eseguire la perizia sul figlio: Le ragioni per le quali è costretta a chiedere detto rinvio sono ben note al sig. Presidente…
Ma non c’è niente da fare, anche questo ulteriore tentativo fallisce e il dibattimento finalmente inizia nella data fissata.
La Giuria la dichiara colpevole di avere volontariamente cercato di uccidere il marito, seppure agendo in uno stato d’ira determinato da una ingiusta provocazione.
In tutto fanno quattro anni e ventisei giorni.[1]
Vedremo in una prossima storia se i magistrati hanno fatto bene o meno a non dare credito agli allarmi lanciati da Silvia.
Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta
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[1] ASCS, Processi Penali
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