LE SEGAI LA GOLA

C’è un po’ di tramontana la mattina presto del 17 gennaio 1900 ad Aieta, ma il vento sta cambiando e sicuramente verrà a piovere, se non oggi, certamente domani.
Una donna esce di casa borbottando una specie di maledizione, certamente rivolta a qualche famiglia vicina:
Che ti possa puzzare il pane… – volendo cioè dire che tu possa non mangiar più paneio non devo parlare più a loro
Una vicina che si sta preparando per andare a portare il pane al marito che lavora in campagna la sente, serra i pugni e i denti per resistere alla tentazione di litigare e per fortuna quella specie di maledizione non causa una lite furibonda.
La vicina, la trentaseienne Rosa Cicalise maritata Napolitano, imbocca una mulattiera e si dirige verso il fondo dove il marito l’aspetta. Ora è in un tratto di strada isolato e il vento le fa arrivare la voce che lei odia con tutta sé stessa, quella stessa voce che poco prima aveva pronunciato la maledizione, la voce della sessantasettenne Maria Oliva che sta evidentemente percorrendo una stradina parallela a quella di Rosa.
Gli occhi le si illuminano di una luce sinistra e la mano le va nella tasca del grembiale per accarezzare il coltello a serramanico che porta sempre con sé. Ecco, il momento che aspettava da tempo è arrivato. Calcola la distanza che la separa dalla Cappella della Madonna, dove le due stradine si incrociano, e corre all’impazzata per arrivare prima della sua nemica. Arrivata, tira due o tre lunghi respiri per riprendere fiato, poi si nasconde dietro il muro della chiesetta con il coltello ben stretto in mano. Un minuto? Due minuti? Il tempo sembra essersi fermato, ma poi il rumore dei passi e le voci, si le voci perché con Maria c’è sua nipote Angela, che si fanno sempre più vicini l’avvisano che il momento è arrivato.
Con un balzo è in mezzo alla strada. Maria è lì davanti a lei e, sorpresa e impaurita, urla:
Ohi madonna mia!
Pregasti la madonna che distruggesse la mia casa, ma ora ti toglierò d’innanzi! – le urla in faccia con tutto l’odio che ha dentro mentre la butta a terra, le mette un ginocchio sul petto per non farla muovere e le affonda con inaudita violenza la lama nella gola una, due, tre volte, tanto da reciderle la trachea, la carotide e la laringe, mettendole allo scoperto perfino le vertebre cervicali. In questi momenti è sorda e cieca, non vede né sente la nipote che urla al soccorso e cerca di strattonarla per farle lasciare la presa.
Poi, quando si rende conto che Maria è morta, finalmente molla la presa, si ripulisce alla meglio del sangue che la imbratta, afferra per i piedi il cadavere, lo trascina fino al limite del torrente che scorre lì vicino e lo butta a testa in giù nella scarpata alta poco più di un paio di metri. Poi prende per mano la ragazzina, raccatta il fagotto col pane da portare a suo marito, si carica sulla testa il barilotto pieno di acqua che portava la ragazzina e torna in paese. La accompagna dal padre, che è anche suo cognato avendone sposato il fratello, e gli confessa l’omicidio:
– Ho scannato tua suocera… se mi vuoi ammazzare, fallo adesso… – dice mentre posa ai piedi dell’uomo il barilotto.
Ho giocato la libertà… – le risponde, facendole capire che quella morte gli è gradita.
Rosa riprende la mulattiera e raggiunge in campagna il marito, gli dà la colazione e gli lascia la chiave di casa.
– Vado a Scalea dai Carabinieri per consegnarmi…
Ma non fa nemmeno un centinaio di metri che una guardia municipale, avvisata del fatto, la raggiunge e la arresta.
Il Brigadiere Achille De Lorenzi ha davanti Rosa che, a capo chino, gli spiega il perché di tanta brutalità:
Da più anni esistono inimicizie fra me e Maria Oliva, la quale non cessava un momento dall’intaccarmi sull’onore dicendo che io ero donna di facili costumi e che mi ero data ora a uno ed ora all’altro. Le prime quistioni ebbero luogo perché suo genero Giuseppe Napolitano, fratello a mio marito, aveva venduto a questi delle pecore ed oltre a ciò vi era contesa perché la Oliva non voleva concorrere al mantenimento del padre del Napolitano, vecchio e ammalato che non può darsi ad alcun lavoro. So che fra l’Oliva ed il genero Giuseppe esistevano relazioni illecite pria che questi avesse sposato la di lei figlia Luigia, che poi morì. Dopo la morte della figlia le quistioni si accentuarono maggiormente e gl’insulti più frequenti e suppongo che ciò dipese dalla gelosia perché vedeva che Giuseppe aveva dell’affetto per me. Non facea passar giorno senza che mandasse una maledizione a me, a mio marito e a suo genero. Secondo la Oliva io avevo relazioni con suo genero e con Mario Lo Monaco, chiamandomi puttana di costui. Ebbi troppo a male che la Oliva mi attribuisse fatti illeciti con suo genero, anche perché questi è fratello di mio marito. Un anno fa Giuseppe Napolitano cercò di conciliare la Oliva con me e con mio marito ed infatti sembrò che un avvicinamento si fosse realizzato, tanto è vero che la Maria portò in mia casa anche un po’ di vino, circa un mezzo litro, che bevette mio marito il quale si trovava già ammalato al ventre. Dopo aver bevuto detto vino, mio marito stette più male col ventre ed il dolore passò alla testa. Io attribuisco questo fatto al vino somministrato dalla Oliva. Questo mio sospetto fu diviso da mio marito il quale ritenne, come ritiene, che dall’epoca in cui à bevuto detto vino, i suoi mali aumentarono. La somma di tutti questi fatti colmò la misura e mi fece determinare ad uccidere chi era causa non solo della mia agitazione continua, ma anche di quella di mio marito.
– Ma ucciderla in quel modo…
Nel momento del misfatto ero talmente acciecata che avrei ucciso anche un uomo. Fu perciò che eseguii l’azione in modo barbaroe le segai la gola – risponde con gli occhi che si accendono, poi cambia tono e aggiunge – presentemente mi pento e mi condolgo, ma allora fui dominata completamente dall’odio, né ho avuto un solo momento di riflessione
– È questo il coltello che avete usato? – le chiede il Brigadiere mostrandogliene uno.
– No, quello è il coltello che ho consegnato alla guardia quando mi ha arrestato, quello che ho usato l’ho buttato lungo la via… non ricordo bene dove…
Per il momento non resta altro che andare a recuperare il cadavere e bisogna fare in fretta perché nel frattempo si è scatenato un vero e proprio diluvio e se il livello del torrente si alzasse repentinamente, il corpo potrebbe essere trascinato via e non essere più trovato. Così il Brigadiere con due Carabinieri e un paio di uomini del paese raggiungono il luogo del delitto, fradici fin nelle ossa e quasi congelati. Ma per fortuna il corpo è ancora lì, solo la testa, quasi staccata, viene sballottata qua e là dalla furia delle acque e gli uomini devono faticare non poco per non essere portati via dalla corrente mentre sollevano il cadavere e cercano disperatamente di fargli superare quei maledetti due metri di strapiombo fino a che, stremati, riescono nell’impresa che è quasi buio.
C’è un reo confesso, una testimone oculare, c’è anche l’arma del delitto perché Rosa l’ha fatta recuperare, c’è un movente, l’odio. Ci sono anche dei testimoni che giurano su come il comportamento della vittima sia la causa vera della tragedia. L’istruttoria può considerarsi chiusa in pochi giorni e il Pubblico Ministero può formulare la sua richiesta: rinvio a giudizio per omicidio con l’aggravante della premeditazione. Il 18 giugno 1900, la Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro accoglie la richiesta del Pubblico Ministero e resta solo da fissare la data del dibattimento che si preannuncia altrettanto rapido.
Infatti, il 5 novembre successivo, il processo si apre e si chiude con la condanna di Rosa alla pena di 16 anni di reclusione per omicidio volontario in concorso di circostanze attenuanti. A salvarla dall’ergastolo è la giuria che non riconosce la premeditazione perché la votazione su questo punto termina in parità.
La condanna diventerà definitiva il 13 maggio 1901 quando la Suprema Corte di Cassazione rigetterà il ricorso di Rosa. [1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

 

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