– Muoviti che dobbiamo andare a prendere dei covoni di grano – il tono usato da Antonio Bartucci la mattina del 5 luglio 1924 è duro come al solito e non ammette repliche. Sua moglie, Annunziata Volpintesta, ubbidisce senza fiatare, sa che se lo contraddirà prenderà le botte. Sa anche che il grano di cui suo marito sta parlando è sicuramente di provenienza furtiva, vorrebbe denunciarlo ma ha una paura fottuta di essere ammazzata e di lasciare i suoi sette figli piccoli senza nessuno, quell’uomo ha pure scavato una fossa nell’orto e l’ha fatta vedere ai bambini, dicendo loro:
– Questa è la fossa dove seppellirò vostra madre.
In verità Annunziata una volta è andata a parlare col Maresciallo di Rende per raccontargli dei continui maltrattamenti e privazioni subiti, ma quando si trattò di mettere nero su bianco, non se la sentì, la paura ebbe il sopravvento.
Antonio Bartucci è un uomo violento, gira per le campagne nella zona dello scalo ferroviario di Castiglione Cosentino armato di rivoltella e coltello. Gli piace bere un buon bicchiere e giocare a carte – tutti lo definiscono un gran giocatore – ma se perde non paga e nessuno ha da ridire per paura di vedersi bruciato il raccolto o, peggio, la casa. Quando non è alla cantina va casa per casa a fare la questua (si fa per dire perché si tratta di vere e proprie estorsioni), costringendo la moglie ad accompagnarlo. Dopo tutto questo bel da fare si potrebbe essere indotti a pensare che la notte, ormai stanco, se ne stia a ronfare placidamente nel letto. Errore. Antonio la notte non dorme ma va a rubare tutto quello che gli capita a tiro: cocomeri, grano, galline, pecore, maiali, fichi, e tutto il resto che la terra può dare; i contadini della zona lo sanno benissimo che è lui il ladro ma non osano ribellarsi, hanno troppa paura. Addirittura, per cercare di evitare danni peggiori, molti gli offrono spontaneamente il frutto del proprio lavoro.
Lavoro: una parola da evitare quando ci si trova a parlare con Antonio Bartucci. Formalmente fa lo stalliere ma il suo padrone, che pure i mezzi per non sentirsi intimorito da lui dovrebbe averli, tollera perfino che se ne vada in giro, chissà dove, col suo cavallo e non ha niente da ridire nemmeno quando, servendogli delle tegole per rifare il pollaio, Antonio gliene porta circa 500 senza dirgli come le ha avute.
Che sia un tipo violento da temere è fuor di dubbio, ma Antonio è anche un furbacchione. Richiamato sotto le armi nel 1916 per combattere al fronte, riesce a passare, dopo essere stato arrestato per diserzione e assolto per non provata reità, da un ospedale militare all’altro fingendosi pazzo. Sappiamo delle migliaia di disgraziati che hanno simulato pazzia, malattie e ferimenti di ogni genere per scampare alla trincea e sono finiti davanti al plotone d’esecuzione, ma lui no. Se la cava per la diserzione e se la cava anche davanti ai medici che lo dichiarano affetto da imbecillità e lo congedano. L’Esercito gli consegna addirittura un diploma per aver servito la Patria con fedeltà e onore. Se qualcuno gli obietta qualcosa, la sua risposta, allusiva e vanitosa, è sempre la stessa: Ho fatto fesso il governo, figurati se mi faccio fregare da te!
Ma torniamo alla mattina del 5 luglio. Annunziata segue il marito senza fiatare e i due si incamminano verso una zona dove certamente grano non ce n’è. Sulla porta di casa la loro figlia quattordicenne Maria li guarda preoccupata, teme che il padre possa fare del male alla mamma e così chiama il nonno e insieme si mettono a seguirli, tenendosi a distanza. Le preoccupazioni di Maria sono fondate: Antonio, giunti in un posto isolato, prende una cordicella da una tasca, obbliga la moglie a girarsi di spalle e le lega le mani. Poi si toglie la cinta dei pantaloni e ne fa un cappio che stringe intorno alla gola di Annunziata e stringe
– Puttana! Dammi i soldi, dove li tieni i soldi? – la donna non riesce a parlare, sta soffocando. Poi allenta la presa e Annunziata riesce a prendere fiato e a dirgli che ha cinquanta lire nel tascone del grembiule. Antonio gliele prende, se le mette in tasca e ricomincia a stringere il cappio. Vuole davvero ammazzarla. Ma proprio quando sembra che non ci sia più niente da fare, che la sorte della povera donna sia tragicamente segnata, delle grida lacerano il silenzio: è Maria che, seguita dal nonno, sta correndo in soccorso della madre. Antonio si distrae un attimo e molla la presa. Bestemmia all’indirizzo della figlia e questa incertezza è fatale per la riuscita del suo progetto omicida. Annunziata, con gli occhi sbarrati e senza fiato cade a terra ma la morsa della cinghia si è allentata. Ora l’aria entra prepotentemente nei suoi polmoni e tutto le comincia ad apparire sempre meno sfuocato. Guarda verso il marito e le sembra di vederlo impegnato a respingere l’assalto di Maria e del proprio padre. “Ora o mai più” pensa mentre, a fatica, si rialza e si mette a correre lontano più veloce che può, con le mani legate dietro la schiena. Non si è accorta che i suoi movimenti scomposti per rimettersi in piedi hanno fatto cadere a terra la cinghia che la stava uccidendo. Antonio, nel frattempo, si è liberato dell’anziano padre con uno spintone ed è riuscito a raccattare da terra la cintura, con la quale comincia a tirare contro la figlia dei colpi violentissimi, uno dei quali la raggiunge sul viso e la fa cadere a terra. Annunziata è ormai lontana, lui la guarda, si morde la mano in segno di minaccia e poi le urla dietro:
– Puttana! Quando ti prendo ti ammazzo e ammazzo tutta la razza tua!
Annunziata si rifugia in casa dei signori Spizzirri per i quali lavora e ci sta tutto il giorno. Verso sera va a casa di un suo cugino, Costantino Iorio, al quale chiede consigli su come comportarsi, poi torna dagli Spizzirri per passare lì la notte, perché l’indomani andrà finalmente dai Carabinieri a denunciare il marito e porre fine ai maltrattamenti.
Antonio torna a casa, prende la doppietta e la cartucciera piena di colpi, altre cartucce se le mette in tasca con tutto l’occorrente per ricaricarle; carica la rivoltella a sei colpi e si riempie le tasche dei pantaloni di proiettili; alla cintura appende un’affilatissima baionetta che ha rubato all’Esercito e una roncola. Adesso è pronto per mettersi alla ricerca della moglie e comincia a girare casa per casa ma non la trova. Verso sera va a casa di Costantino Iorio, sa che potrebbe essere lì perché spesso l’ha aiutata dandole rifugio, soldi e cibo per i bambini. Ma Annunziata è già andata via, per sua fortuna.
– Devi venire con me a cercarla – dice a Costantino – la devo trovare, perlamadonna!
– Te lo puoi cacciare dalla mente, non vado da nessuna parte con te! – gli risponde a tono. Antonio insiste ma l’altro non cede, supportato dalle urla di sua moglie e di sua madre.
– Va bene… va bene… me ne vado, ma la vedremo, la vedremo… – termina minacciosamente mentre esce da quella casa.
Ormai è notte, sarebbe fatica sprecata andare in giro a cercarla. Antonio torna a casa e giocherella con la banconota da cinquanta lire che ha sottratto ad Annunziata. Potrebbe andare alla cantina a bere ma non ne ha voglia, il sangue ancora bolle e il vino potrebbe calmarlo. I sette figli dormono, finalmente. Lui è come impazzito e continua a ripetere come una cantilena: “vedremo… vedremo…”
Quando il sole comincia ad alzarsi Antonio apre gli occhi, sorpreso di essersi assopito sulla sedia, con le braccia conserte poggiate sul tavolino. Si stropiccia gli occhi, si stiracchia, controlla le armi che ha addosso, imbraccia il fucile ed esce di casa mormorando “e ora la vediamo!”.
Costantino Iorio sta zappando sotto un gelso bianco a circa duecento metri da casa sua e non può accorgersi che alle sue spalle sta arrivando Antonio il quale, quando è a una decina di metri dal cugino della moglie, imbraccia la doppietta, prende la mira e gli scarica addosso una cartuccia di pallettoni. Costantino cade senza un lamento mentre Antonio, con calma, si avvicina di qualche metro e fa fuoco ancora una volta. Il corpo inerme di Costantino ha un sussulto quando la seconda scarica lo investe e ne fa scempio. Antonio si avvicina ancora per assicurarsi di avere portato a compimento il suo proposito, proprio quando Concetta Russo, la moglie del povero Costantino, si affaccia dalla finestra per capire cosa siano quei due colpi.
Vede e riconosce Antonio col fucile in mano. Vede a terra un corpo e capisce subito. Urla disperatamente mentre scende le scale a rotta di collo per raggiungere il marito, morto innocente in contrada Polino Sottano di Rende a ventitré anni.
I colpi e le urla li sente anche Antonio Santelli che abita nei pressi e vede sotto il gelso Antonio con la doppietta in mano e Concetta che corre urlando verso l’assassino. Anche lui capisce, lascia la zappa e si lancia verso la donna, consapevole che se si avvicinerà troppo ad Antonio, ci lascerà le penne anche lei.
Antonio potrebbe farli secchi tutti e due ma non ce l’ha con loro, così, ridendo beffardamente, si allontana dal posto mentre Santelli, sollevata di peso la donna, la porta in casa sua.
Stranamente, ad essere avvisati per primi dell’omicidio sono i Carabinieri di Cosenza che cercano di contattare quelli di Rende senza riuscirci e così sul posto vengono mandati il Brigadiere a cavallo Antonio Pino e il Vicebrigadiere a cavallo Mario De Pascale, i quali arrivano intorno alle otto e cominciano subito le indagini. Il Maresciallo Giovanni Tesoni, comandante della stazione di Rende, arriva invece nel primo pomeriggio e conoscendo bene i luoghi e l’assassino, indirizza subito le ricerche verso il casolare abitato dalla famiglia di Giovanni Guido in contrada Conciostocchi.
La costruzione è grande e ha diverse uscite; sarà problematico riuscire a catturare l’assassino, bene armato e deciso a vendere cara la pelle, senza che nessuno si faccia male. Il Maresciallo Tesoni fa circondare l’edificio ordinando ai suoi uomini di avvicinarsi progressivamente ma con circospezione. Poi nota che tutte le porte di ingresso del primo piano, come quelle del piano terra sono chiuse tranne una. È lì che concentreranno l’attenzione. Il piano è presto fatto: il Brigadiere Pino e il Vicebrigadiere Panetta si lanceranno con una certa fulmineità in quel locale in modo da non dare il tempo al latitante di fare uso delle armi ed esporre la vita di qualcuno degli operanti.
Pino e Panetta si tuffano nella stanza e si accorgono subito che Bartucci si nasconde sotto un cumulo di paglia col fucile spianato. È un attimo. Il Brigadiere Pino assesta un poderoso colpo col calcio del suo fucile su un braccio di Antonio Bartucci e gli fa cadere il fucile e poi, contemporaneamente a Panetta gli si butta addosso per immobilizzarlo. L’assassino lotta con tutte le sue forze menando botte da orbi e quando la mano sinistra di Panetta arriva a tiro dei suoi denti gli assesta un formidabile morso che gli stacca un pezzo di carne. A questo punto entrano in azione anche il Maresciallo Tesoni e il Vicebrigadiere De Pascale e in quattro riescono a bloccare Bartucci e a disarmarlo completamente. È finita. Ansimando e a strattoni, lo portano nella camera di sicurezza della caserma di Rende e poi in quella di Cosenza.
– Sono Bartucci Antonio di Giuseppe e di Spizzirri Maria, nato in Rende il 4 agosto 1888, contadino – sono le uniche parole che pronuncia prima di chiudersi nel silenzio. Solo dopo qualche ora si convince ad aprire bocca e racconta – Non sono stato io ad uccidere Iorio Costantino che, del resto, non conosco nemmeno. Mia moglie mi faceva le corna con tutti ed ultimamente, d’accordo con i suoi parenti, mi legò ad un albero assestandomi poscia delle bastonate, finché andò a chiamare i Carabinieri i quali, venuti, pure loro mi percossero. Onde, attualmente mi sento indolenzito in tutto il corpo e, senza lagnarmi, nemmeno riesco a star seduto – Tesoni e gli altri militari sono allibiti ascoltando queste parole e gli chiedono energicamente di chiarire bene ma Antonio si richiude nel suo mutismo tentennando il capo e facendo anche finta di niente quando gli mettono davanti il verbale per firmarlo o per apporre un segno di croce. Niente di niente.
Intanto, la popolazione delle zone frequentate da Bartucci, come liberata da un incubo, finalmente lieta di poter dire impunemente ciò che da anni, per timore, aveva taciuto, racconta dei furti e delle angherie subite. Anche Annunziata, oltre che delle botte ricevute, racconta qualcosa di molto interessante per la Giustizia: accusa apertamente il marito di essere il responsabile di un tentato omicidio a scopo di rapina, per il quale era stata accusata ingiustamente un’altra persona e che ora giace in un fascicolo a carico di ignoti. La denuncia della donna trova riscontro nei ricordi di altri testimoni e Antonio dovrà rispondere anche di questo reato.
Sono ormai passati diciotto giorni dall’omicidio quando Antonio, interrogato dal Giudice Istruttore Tommaso Carnevale, apre di nuovo bocca:
– Mi protesto innocente di tutte le imputazioni ascrittemi ed invero non ho esploso due colpi di fucile contro Iorio Costantino, uccidendolo e non ho usato violenza e resistenza ai Reali Carabinieri per sottrarmi all’arresto, finanche assestando un morso al Vice Brigadiere di essi. È falso altresì che nel momento dell’arresto avevo sulla persona il fucile, la rivoltella eccetera – Carnevale ha un moto di stizza, ma Antonio prosegue imperterrito – non ho mai sorpreso in flagrante adulterio mia moglie, chè se l’avessi sorpresa l’avrei uccisa unitamente all’amante. Furono i vicini di casa che mi dissero della cattiva condotta di essa mia moglie, ma io, non pertanto, non la cacciai di casa; soltanto non volevo che scappasse continuamente di casa, lasciando i nostri figli a sé stessi abbandonati, giacché io ero, come sono, cagionevole in salute e non potevo accudirli. Non è vero che passavo tutte le notti fuori di casa e rubavo verdura, cocomeri, galline eccetera, che mi capitavano sotto mano. È falso pure che una notte mi portai a casa una pecora già scannata e non so nulla del maiale di tal Amato Domenico, né delle 500 tegole di Dominicis Gustavo. Non mi sono imposto mai a chicchessia per ottenere cibarie e derrate, ma le chiedevo soltanto ai miei parenti quando ne avevo bisogno. Alle volte, comunque, mi rivolgevo pure agli estranei ma poi li ricompensavo prestando loro la mia opera o quella di mia moglie. Non so nulla nemmeno del mancato omicidio a scopo di furto di Costabile Giuseppe e quindi non capisco come si possa pensare che io sia l’autore di tal delitto. – “Questo è un santo!” ironizza il Giudice Carnevale – Durante il servizio militare sono stato negli ospedali militari di Avellino e Messina perché sofferente di febbri reumatiche e malaria, sicché non ho fatto che un paio di mesi di istruzione. Non ho mai contratto malattie veneree.
– Voi dite che vostra moglie vi tradiva con tutti, ma noi abbiamo fatto indagini in merito e tutti ci hanno risposto che vostra moglie è una donna onestissima e ha sempre tenuto un comportamento irreprensibile – lo incalza il Giudice perché ormai è chiaro che Antonio sta facendo di tutto per far passare il suo crimine come un delitto d’onore.
– No! Essa è stata tanto mala femmina che mi ha inoculato male venereo ed il dottor Giuseppe Spizzirri, invece di curarmi mi ha prescritto dei farmaci che mi facevano male. Ricordo che mi sono lagnato di ciò con lui e che egli mi ha risposto “Tanto è lo stesso, dovrai morire ed io mi prenderò come serva tua moglie”. Costei, d’altro canto, mi diceva “fa come dico io, altrimenti ti farò ammazzare”.
Davanti al fastidio del Giudice per queste dichiarazioni, l’avvocato Filippo Coscarella, difensore di Antonio, comincia a sostenere che dubita seriamente delle facoltà mentali del proprio assistito e presenta una richiesta di perizia psichiatrica che, tuttavia, non viene accolta.
L’istruttoria si chiude in breve e Antonio viene rinviato a giudizio con accuse tremende e con l’aggravante di avere agito per pura malvagità. Durante il dibattimento, l’avvocato Coscarella ripropone la richiesta di perizia psichiatrica e questa ottiene l’effetto sperato: Antonio sarà ricoverato nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto per essere esaminato.
Ad eseguire la perizia saranno il professore Mario Zalla e il dottor Emanuele Mirabella, direttore dell’Istituto.
I due periti capiscono subito chi hanno davanti e non sono affatto teneri nei confronti di Antonio: anche per ciò che riguarda la causale del delitto non occorre andare a cercarla negli oscuri meandri della pazzia; con la semplicità del buon senso l’hanno tratteggiata i testimoni Tesoni Gennaro e Cardamone Santo. Il Bartucci, anima torbida di delinquente, odiava nell’Iorio la persona che forse più apertamente disapprovava la sua condotta di marito e di padre, che offriva talvolta alla di lui moglie (di cui era cugino) il conforto della parola e dell’asilo, che poteva conoscere meglio di altri, attraverso agli sfoghi della moglie tormentata i suoi reati e poteva da un momento all’altro divenire un pericoloso denunziatore. A chi ragioni coi criteri dell’onestà potranno sembrare questi motivi inadeguati alla strage; ma non più tali appaiono a chi non ignori la psicologia del delinquente: che è un anomalo, per fortuna, ma non un infermo di mente di fronte alla Legge!
Nessuna malattia, nessuna infermità mentale, neanche le più nebulose, può renderci ragione del contegno dell’imputato: solo la simulazione ci rende ragione di tutto. Certo nel contegno del Bartucci, specie nei riguardi della moglie, c’era qualcosa di anormale: i maltrattamenti cui la faceva segno, non contento di trascurarla, di sfruttarla e di lasciarle tutto il peso della numerosa famiglia, trovano malamente spiegazione nella psicologia normale; la trovano però nella psicologia dei delinquenti per costituzione, cui la sofferenza altrui è motivo di acre soddisfazione.
Simulatore dunque noi giudichiamo il Bartucci; simulatore non molto abile ma ostinato; anormale si, ma di quella anormalità che caratterizza la delinquenza costituzionale e che in base al Codice Penale vegliante, improntato ai principi della Scuola Classica, non può e non deve essere invocata ad attenuante della imputabilità. Uccidendo Costantino Iorio, il Bartucci ha dato sfogo in piena coscienza e libertà dei propri atti al rancore del suo animo perverso di delinquente. Lo compiangiamo per aver sortito tale animo dalla natura, che certo non gli fu benevola, ma non gli troviamo un posto, se non quello del simulatore, nei quadri della psicopatologia.
Bartucci Antonio non è e non era, all’epoca in cui commise i reati di cui è imputato, affetto da malattia o da infermità di mente, tale da togliergli o da scemargli comunque la coscienza o la libertà degli atti.
I perturbamenti psichici ch’egli ha presentato successivamente all’arresto e che tuttora presenta, sono simulati.
Tradotto in linguaggio comune, le porte del carcere stanno per chiudersi alle spalle di Antonio Bartucci per un lungo periodo: 21 anni, sentenzia la Corte d’Assise di Cosenza il 14 febbraio 1927.
Il 6 maggio 1927, la Suprema Corte di Cassazione rigetterà il ricorso presentato dai suoi legali e la condanna diventa definitiva.[1]
Il plagio letterario costituisce reato ai sensi dell’articolo 171 comma 1, lettera a)-bis della legge sul diritto d’autore, che sanziona chiunque metta a disposizione del pubblico, immettendola in un sistema di reti telematiche mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera protetta (o parte di essa).
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