IL GIORNALISTA D’ASSALTO

Non sappiamo se il Prefetto o qualche altro ha letto nel nostro pensiero. Certo è che un proprietario di mulini è stato arrestato. Se giustamente o ingiustamente non lo sappiamo, ma certo che quel piccolo mulino di S. Antonio, se proprio S. Antonio non l’ha benedetto, come avrà fatto ad ingrandirsi a quel modo?

È il 10 febbraio 1946 quando esce questo trafiletto su un foglio settimanale di Cosenza, L’UOMO DELLA STRADA, diretto dall’insegnante trentaduenne Nicola Visini e nato sulla falsa riga del ben più famoso settimanale satirico-politico “L’UOMO QUALUNQUE”, fondato a Roma nel 1944 dal giornalista e commediografo Guglielmo Giannini [1]. Ma la notizia che narra un episodio del genere non è tale da meritare titoloni a tutta pagina, episodi del genere si verificano quotidianamente da anni, da prima che la guerra finisse, da quando il cibo scarseggia e la fame si è fatta nera; da quando molti speculano sulla fame dei vecchi, delle mamme disperate che non riescono a racimolare abbastanza da sfamare i propri bambini e dei padri disoccupati, altrettanto disperati.
A finire in manette è toccato questa volta a Biagio Lecce, titolare dell’omonimo mulino che produce anche pasta. Sarà anche lui un incettatore e profittatore del bisogno del popolo? No perché viene prosciolto (come molti altri) dalle accuse, ma gli articoli continuano:
Ci siamo informati da un rappresentante della magistratura come mai è stata, per esempio, archiviata una pratica per frode allo stato; come mai sono usciti alla luce tanti signori fermati; e ci ha risposto: “La magistratura non può far nulla quando le cose vengono stabilite in modo tale da esserci l’assoluzione. Che può fare il giudice quando non ha prove, non ha testimoni, quando detti speculatori sono protetti da tutti?” È giusto, giustissimo. Un magistrato non condanna facilmente. La condanna è coscienza e la coscienza è più propensa per l’assoluzione che per la condanna. 
Ancora purtroppo esistono oggi le leggi fasciste, le quali fanno molto comodo agli antifascisti, perché in queste leggi è la difesa delle loro posizioni che cercano di prolungare quanto più è possibile.
Il popolo è pecora e non è temuto. Il popolo non si muove perché sa che non troverebbe difesa.
Ma c’è qualcosa che va oltre l’esito stesso della causa penale: l’onorabilità di Biagio Lecce e di conseguenza il futuro stesso della sua azienda. Visini questo lo sa benissimo e, imperterrito, continua a pubblicare articoletti allusivi, uno dei quali, pubblicato il 21 ottobre 1946 e intitolato “PARLIAMO DI PASTA ECC.”, accusa direttamente Biagio Lecce di praticare il mercato nero. È la goccia che fa traboccare il vaso: Lecce, stanco di questo stillicidio, il 23 ottobre 1946 si presenta dal Procuratore della Repubblica con un foglio di carta bollata scritto a macchina:
Da qualche tempo sono vittima di indegni ricatti da parte del sig. Nicola Visini, Direttore del giornale “L’UOMO DELLA STRADA” il quale, minacciando campagne diffamatorie ai miei danni, mi ha estorto, e tenta di estorcermi, forti somme di denaro.
Verso la fine dello scorso inverno, mentre ero sottoposto a procedimento penale per reato annonario – e precisamente quando era stata fissata, per la prima volta, la udienza per la discussione della causa – il Visini mi avvertì che avrebbe annunciato e commentato il processo con un clamoroso articolo, già da lui scritto, anzi già composto in tipografia, col  quale mi avrebbe aspramente attaccato in modo da creare tutto un ambiente di ostilità nei miei riguardi. Naturalmente mi preoccupai delle possibili conseguenze, per me dannose, della minacciata pubblicazione e, in quello stato d’animo, fui indotto a subire il primo ricatto, aderendo alle richieste di denaro del Visini.
E solo in seguito all’energico intervento del mio difensore, avv. Orlando Mazzotta, riuscii a tacitare il ricattatore versandogli solo lire diecimila, mentre egli ne pretendeva e ne richiedeva ben centomila
Il Visini, incassata la somma nello studio dello stesso avvocato Mazzotta, mi fece constatare che subito faceva scomporre l’articolo già pronto, sostituendolo con un altro.
Mi illusi, per qualche tempo, di avere soddisfatto le male brame del Visini, pur se costui continuava a chiedermi continui favori, come ad es. il prestito, più volte concessogli, della mia automobile.
Senonché il Visini, evidentemente incoraggiato dal successo, sia pure parziale, del suo primo ricatto, pensò bene di ritornare alla carica con esigenze molto più forti.
Cominciò col pretendere infatti la somma di ben centomila lire, avvertendomi che, in caso di rifiuto, mi avrebbe attaccato sul giornale ad ogni occasione.
Seccato e preoccupato per tale nuova esigenza, pregai il comune amico Bonaventura Sartù di interporre i suoi uffici per evitare il ricatto. Ma in un colloquio svoltosi nel chiosco del Sartù, alla presenza dello stesso Sartù, il Visini ebbe la spudoratezza di ripetere la richiesta in forma ancora più minacciosa e perentoria, dichiarandosi infine disposto a limitare le sue pretese… in via transattiva alla più modesta somma di lire cinquantamila.
Nonostante le palesi minacce del Visini mi ribellai alla esosa pretesa che disgustò non soltanto me ma anche i presenti i quali, dopo che mi allontanai, gli espressero la propria disapprovazione.
Il Visini tentò un’ultima volta di conseguire il suo fine inviando al mio mulino il cognato a ripetermi la richiesta, con un’ulteriore… generosa riduzione a lire trentamila. Anche a tale ultima esigenza opposi un netto rifiuto.
Le minacce rivoltemi si sono ora tradotte in realtà perché, sull’ultimo numero de “L’UOMO DELLA STRADA” sono comparsi diversi scritti diffamatori nei miei riguardi, tra cui uno intitolato “Parliamo di pasta” nel quale si afferma che io vendo, giornalmente, al mercato nero, circa due quintali di pasta.
Non essendovi quindi alcun dubbio sulla preordinata aggressione al mio patrimonio morale da parte del Visini, che ha agito e agisce coll’evidente scopo di farmi soggiacere ai suoi ricatti, sono costretto a rivolgermi al Magistrato e perciò lo querelo formalmente per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa e per la prima estorsione consumata ai miei danni e per i tentativi di estorsione ripetuti successivamente.
Ma le sorprese, in Procura, non sono finite. Uscito Biagio Lecce, si presenta un industriale cosentino, Mario Morelli, anche lui con un foglio di carta bollata in mano che contiene un’altra querela nei confronti di Nicola Visini per diffamazione a mezzo stampa e tentata estorsione. Non solo. Secondo Morelli (definito nel giornale un simulatore di reati, un corruttore di funzionari, un frodatore dello stato, un indegno sfruttatore del lavoro altrui) a tentare materialmente le estorsioni ai suoi danni sarebbe stata la moglie di Visini, Lina Amoroso: “Costei, verso i primi dello scorso gennaio, venne nel mio ufficio e dicendomi che avrei dovuto sborsare una ingente somma per essere eventualmente difeso dal giornale diretto dal marito. L’Amoroso mi disse inoltre che se io non mi decidevo a darle la somma da lei chiesta, avrebbe incominciato gli attacchi sul giornale. Io, seccato, risposi alla signora che avrebbero potuto fare quello che volevano e che non intendevo prestarmi a tale ricatto. La signora, nell’allontanarsi, mi disse le testuali parole: “Vediamo chi ci perde, sapremo noi come regolarci…” Questo colloquio fu sentito dai miei impiegati e dopo qualche giorno incominciarono gli attacchi sul giornale”.
Sarà vero o è un tentativo di Biagio Lecce e Mario Morelli di prevenire eventuali denunce a loro carico?
Intanto Bonaventura Sartù conferma:
Un giorno del mese di giugno o luglio, non ricordo con precisione la data, il mio amico Biagio Lecce mi riferì, seccato, che egli veniva fatto violentemente bersaglio di infondati attacchi nel giornale “L’UOMO DELLA STRADA”. Poiché egli era a conoscenza che io ero amico del direttore Nicola Visini, mi pregò di dire a costui che la smettesse. Dopo due o tre giorni vidi il Visini e gli riferii le lamentele del Lecce, anzi lo invitai a far la pace con costui, proponendogli che avrei fatto abbonare il Lecce al giornale. Infatti subito telefonai al Lecce che venne immediatamente  nel mio chiosco. In tale occasione il Lecce offrì al Visini, dietro mio suggerimento, qualche migliaio di lire per un abbonamento sostenitore del giornale. Il Visini rifiutò l’offerta facendogli capire che pretendeva una somma ben più alta. Il Lecce allora se ne andò ed il Visini mi disse che egli pretendeva £ 100.000 – sia perché il Lecce era un milionario e sia perché egli era pieno di debiti –. Alle sue parole io ho inveito contro il Visini con delle parole un po’ forti, dicendogli anche che il Lecce avrebbe dovuto denunciarlo. Dopo queste mie parole il Visini abbandonò il mio chiosco e da quella sera non mi ha più rivolto la parola.
Viene interrogato anche l’avvocato Mazzotta che non vorrebbe rispondere, temendo che la deposizione possa uscire dai limiti del segreto professionale. Il Giudice Istruttore è, al contrario, categoricamente convinto che le circostanze su cui è chiamato a deporre sono estranee ai rapporti professionali e comunque non rivelano nessun segreto del suo cliente e soprattutto perché la sua deposizione è necessaria ai fini di giustizia e lo invita a deporre, cosa che Mazzotta fa:
Effettivamente tra la prima e la seconda decade di marzo scorso, quando era stata già fissata l’udienza per l’istruttoria della causa annonaria a carico del Lecce, che io difendevo, mi vidi presentare allo studio il Lecce tutto impressionato. Egli mi riferì che il Nicola Visini lo ricattava con la minaccia di pubblicare un forte articolo contro di lui, già composto, articolo che non avrebbe pubblicato a condizione che gli avesse sborsato una forte somma di denaro. La cosa mi dispiacque e preoccupò anche un po’ in quanto io sapevo, e lo sapeva anche il Lecce, che da alcuni ambienti si voleva approfittare della situazione processuale del Lecce stesso per ottenere la gestione del suo mulino. E questo veniva fatto anche con una certa clamorosità, come ad esempio con l’affissione di alcuni manifesti che indicavano il Lecce come un affamatore del popolo. Cercai di tranquillizzare il Lecce e mandai a chiamare il Visini il quale, poi, venne a casa mia nel tardo pomeriggio. E così io lo pregai e lo esortai a non avere quelle pretese al mio cliente; non mancai di fare rilevare, con tutte le mie accortezze e delicatezze, che la pretesa formava un grave reato. E così il Visini si mostrò con me tutto premuroso, disposto a non pubblicare più l’articolo, ma facendo presente nel contempo, che le sue condizioni economiche erano tali che il giornale doveva pur trovare qualche sostenitore. Io feci intervenire il Lecce e pacificai gli animi, tanto che poi il Visini riuscì ad ottenere la concessione dal Lecce di £ 10.000 che furono, la mattina dopo, mandate a me dal mulino Lecce ed io le consegnai al Visini. Mi risulta che in seguito il Visini fu molto ben trattato dal Lecce, ormai diventatogli amico, così come mi risulta che il Lecce, ad un certo momento, fu oggetto di nuove richieste a cui finì per ribellarsi, anche perché io lo avevo esortato a non subire più ricatti.
Quindi, stando a quest’ultima affermazione, si trattò di un ricatto bello e buono e non di una offerta spontanea, come inizialmente l’avvocato Mazzotta ha voluto far credere con la storia della concessione.
Ma i guai per Visini e sua moglie si aggravano con le testimonianze dei dipendenti di Mario Morelli che ripetono pari pari il racconto fatto nella querela e così viene spiccato un mandato di cattura per estorsione ai danni di Biagio Lecce e di tentata estorsione ai danni di Mario Morelli nei confronti di Nicola Visini e della sola tentata estorsione nei confronti di sua moglie Lina Amoroso. Entrambi vengono arrestati e si difendono:
Nei primi mesi di questo anno – attacca Visini –, quando venne arrestato Biagio Lecce per reato annonario, io feci un trafiletto commentando umoristicamente la cosa. In tale periodo io ancora non conoscevo il Lecce. Successivamente il mio conoscente Bonaventura Sartù, mentre io passavo, se ben ricordo, insieme con mia moglie davanti al suo chiosco, fui chiamato da costui. Entrato, il Sartù cominciò a chiedermi spiegazioni del trafiletto da me fatto contro il Lecce. Mentre discutevamo, il Sartù improvvisamente chiamò al telefono il Lecce dicendomi che questi voleva conoscermi. Il Lecce venne quasi immediatamente e mi chiese perché io avevo scritto il trafiletto. In tale occasione mi offrì la somma di £ 5.000 quale contributo al giornale. Io mi offesi perché non ritenni opportuno quell’atto e rifiutai l’offerta. Il Lecce, alle mie rimostranze, si scusò dicendo che si trattava di un semplice contributo e mi fece presente che avrebbe mandato la somma per vaglia. Io gli feci presente che avrei rifiutato anche il vaglia. Finita la discussione me ne andai rimanendo amico col Lecce. Questo colloquio si è svolto prima che fosse stato fissato il dibattimento della causa contro il Lecce. Dopo qualche giorno incontrai il Maresciallo della Tributaria Giovanni Lucchese il quale mi riferì che il Lecce gli aveva detto che io volevo ricattarlo e che pretendevo la somma di £ 100.000. Io mi imbestialii per tale cosa e allora preparai un articolo per commentare il detto fatto. Il Lecce, molto probabilmente tramite il proprietario della tipografia, venne a conoscenza di questo articolo e una sera, mentre l’articolo era in composizione, mi dissero che l’avvocato Mazzotta mi cercava per un affare molto urgente. Allora io, data la vecchia amicizia con l’avvocato, insieme con mia moglie salimmo nel suo studio e qui trovammo anche il signor Lecce. L’avvocato Mazzotta incominciò a pregarmi di lasciare stare il Lecce, anche perché doveva in quei giorni celebrarsi il processo annonario a carico del Lecce. Io feci presente al Mazzotta che ero molto irritato contro il Lecce perché costui mi aveva spudoratamente diffamato andando a dire che io volevo ricattarlo. In un primo momento il Lecce negò tale circostanza, ma in un secondo momento, alla presenza del suo avvocato, confessò di avere detto effettivamente quelle cose. Dopo di che l’avvocato Mazzotta richiese al Lecce £ 10.000 che questi gli doveva, oltre ad altre £ 10.000 che sarebbero servite a lui Mazzotta per contributo al giornale. Io mi opposi  e non volli che ciò egli facesse. Per le sole preghiere dell’avvocato Mazzotta io feci scomporre l’articolo ma, ripeto ancora una volta, non ho avuto alcuna somma di denaro. In seguito divenni buon amico del Lecce il quale qualche volta si offrì di portarmi con la sua macchina a Mangone ed io per disobbligarmi l’invitai spesse volte a pranzo. Nego di aver mai chiesto del denaro ai fratelli Morelli, né direttamente, né tramite mia moglie, la quale è incapace di simili bassezze. Nel mese di giugno o luglio venne a casa di mia suocera Gennarino Mauro, macellaio, il quale trovò mia moglie e le offrì una somma di denaro affinché io desistessi dagli attacchi ai Morelli sul giornale. Mia moglie rifiutò dicendogli che io non ero capace di vendermi neanche per dei milioni e ciò accadde proprio nel momento in cui io mi trovavo senza denaro e dovetti sospendere le pubblicazioni del giornale. Insisto nel dire che mia moglie è completamente estranea ai fatti che mi contestate e di cui anche io sono completamente innocente perché, nello scrivere gli articoli di cui mi si accusa, ho sempre avuto di mira nobili finalità e ho creduto di servire colla stampa gli interessi del popolo contro le ingorde speculazioni. Non ho inteso offendere la reputazione di alcuno anche se talvolta sul giornale sono apparse note umoristiche. Le persone attaccate sul giornale sono notoriamente additate dal popolo come dedite al mercato nero e quindi il mio giornale si è voluto rendere interprete dei sentimenti di tutta la popolazione cosentina. Pertanto ritengo di non aver diffamato nessuno ed il giornale per la sua obiettività andava a ruba.
Non è affatto vero che io abbia mai chiesto alcuna somma di denaro né al Morelli, né al Lecce. È vero che sono stata varie volte nella conceria del Morelli, ma ciò ho fatto per avere un po’ di suola per i miei figli. Mai ho chiesto a costui denaro per il giornale, né mai costui mi diede del denaro, neanche a titolo di abbonamento – si difende la signora Visini.
Le cose vanno sempre peggio per Nicola Visini, tant’è che anche l’industriale Pietro Costabile lo querela per diffamazione a mezzo stampa. Anche sul versante dei riscontri alle sue dichiarazioni le cose peggiorano: Bonaventura Sartù conferma che l’incontro nel suo chiosco si è svolto tra i mesi di giugno e luglio 1946 e non prima, e quindi è falso che Visini non sapesse dell’udienza già fissata; il Maresciallo Lucchese nega recisamente di aver mai parlato con Visini di Biagio Lecce e l’avvocato Mazzotta, da parte sua, rivela nuovi particolari circa le modalità della consegna delle famose 10.000 lire che Visini, messo a confronto con l’avvocato, non può far altro che confermare:
Ammetto di avere ricevuto da te all’indomani del cennato colloquio, dinanzi alla cartoleria di Scornaienchi al Corso Umberto, le lire diecimila. Il denaro era contenuto in una busta che tu mi porgesti senza fare commenti e che io ricevetti allontanandomi
È abbastanza, secondo il Pubblico Ministero, per chiedere il rinvio a giudizio di tutti e due gli imputati. Alla signora Visini, però, viene concessa la libertà provvisoria cui non ostano né il titolo del reato, né i precedenti.
Nelle sue richieste il Pubblico Ministero scagiona l’avvocato Mazzotta da possibili conseguenze penali per la sua condotta, affermando che le modalità del fatto denunziano un grave stato di preoccupazione e quindi di minorata resistenza psichica non solo nel Lecce, ma benanco nel suo legale. È il 27 novembre 1946.
Il 7 gennaio 1947 il Giudice Istruttore accoglie le richieste e rinvia i coniugi Visini al giudizio del Tribunale di Cosenza.
Un mese dopo la Corte ritiene che non ci sono prove sufficienti per condannare la signora Visini e l’assolve, mentre condanna il marito a 3 anni di reclusione e pene accessorie.
Entrambi presentano appello e il 4 agosto successivo la Corte d’Appello di Catanzaro riforma parzialmente la sentenza di primo grado riducendo la pena inflitta a Nicola Visini a 1 anno, 9 mesi e 10 giorni di reclusione e conferma l’assoluzione per insufficienza di prove nei confronti della moglie.
Viene preparato il ricorso per Cassazione ma, per motivi che sfuggono anche ai Visini, non viene inoltrato dal difensore di loro fiducia.
Solo oggi vengo a conoscenza che il mio avvocato, non so per quale imperdonabile causa, ha omesso il mio ricorso per la Cassazione contro la sentenza del Tribunale di Cosenza e della Corte d’Appello di Catanzaro che condannava mio marito per estorsione ad anni 1 e mesi 9 di reclusione e assolveva me, che non ho commesso il fatto, per insufficienza di prove. 
All’E.V. Ill.ma io mi rivolgo con tutto lo strazio dell’anima mia ferita a morte dalla ingiustizia e dall’abuso per invocarla e supplicarla in nome di Dio, della Patria e della Giustizia affinché sia fatta luce in questo orribile abisso creatoci dalla brutale malvagità e dalla vile incoscienza di alcuni italiani. Almeno per me la presente vale come ricorso.
La signora Visini scriverà altre volte implorando di accogliere il ricorso anche se i termini sono scaduti ma, ovviamente, è cosa impossibile e il 14 aprile 1948 la Suprema Corte giudica inammissibili i ricorsi presentati oltre i termini.[2]

 

[1] Il settimanale “L’UOMO QUALUNQUE”, caratterizzato da un linguaggio colorito e popolaresco, dichiaratamente anticomunista, alimentò, facendo leva sul malessere sociale dei ceti medi, la sfiducia contro i partiti. Nel 1946, il vasto movimento di opinione pubblica suscitato, soprattutto al Sud, dalla rivista, sfociò nella formazione di un partito politico, il Fronte dell’Uomo Qualunque, che riportò un notevole successo nelle elezioni per l’Assemblea Costituente e un successo ancora maggiore, nel novembre dello stesso anno, nelle elezioni amministrative in numerose città del Centro-Sud. Il Fronte, tuttavia, incapace di darsi un programma definito, si avviò a un rapido declino e dopo le elezioni politiche del 1948 scomparve dalla scena politica (fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/l-uomo-qualunque/  23/05/2018).
[2] ASCS, Processi Penali.

 

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