SGOZZATO COME UN CAPRETTO

La vittima
La mattina del 30 settembre 1917 mastro Paolo Spanò, cinquantenne mattonaio della provincia di Reggio Calabria ma da anni residente a Greci di Lago, esce di casa dopo aver salutato sua moglie, la quarantenne Francesca Aricò e reggina come il marito, dicendole che sarebbe andato a Lago per esigere del denaro per tegole vendute al negoziante Angelo Muto, 143,10 lire per l’esattezza. Mastro Paolo è un omone e per giunta gira sempre armato di una rivoltella che tiene alla cintola, ma gli piace bere e quando lo fa chiacchiera troppo raccontando i fatti suoi a chiunque incontri. Per cominciare si ferma nella cantina di Giovannina Sacco dove, in mezz’ora, beve un mezzo litro. Quando esce è allegrotto e, come il suo solito, incontra degli amici con i quali si mette a confabulare. Poi va a ritirare i soldi dovutigli e, ormai sono le 17,00, si mette sulla via del ritorno a casa.
– Buonasera mastro Paolo, ve le hanno pagate le tegole? – gli chiede Giuseppina Policicchio, tanto la cosa è di dominio pubblico.
– Buonasera Giuseppina, si me le hanno pagate! – le risponde battendosi il palmo della mano sulla tasca dove tiene il portafogli. Poi i due continuano le proprie strade.
Ma mastro Paolo non ha ancora voglia di tornare a casa, meglio passare dalla cantina di Vincenzo Turco, fare una partita a briscola e bere qualche altro bicchiere. Passando davanti alla casa del suo amico Gaetano Naccarato pensa bene di fermarsi per invitarlo a bere con lui, ma Gaetano non ne ha molta voglia, così mastro Paolo comincia a insistere fin quando l’amico cede. Quando entrano nella cantina trovano una comitiva di giovanotti che già stanno giocando a carte. Mastro Paolo offre da bere e insiste per giocare: la comitiva subito se lo associò e così continuarono il giuoco, consumando circa litri quattro di vino. Poco dopo Gaetano Naccarato approfitta del fatto che l’amico è preso dal gioco e dal vino e se ne va. Mastro Paolo e gli altri, invece, restano fino alle 19,30 e poi si avviano tutti insieme verso Greci. Poco prima di arrivare all’aia di Antonio Politano, Angelo Porco si licenziò dalla comitiva e si recò a casa, situata molto vicino alla strada ove passavano, mentre invece Porco Beniamino, Policicchio Francesco, Porco Giuseppe, Porco Antonio, Policicchio Pasquale e Policicchio Giuseppe all’aia di Politano – erano le ore 19,45 – si licenziarono tutti dallo Spanò, meno Policicchio Francesco di Carmine il quale era avanti di circa 30 passi dalla comitiva e chiamò Porco Beniamino perché affrettasse il passo siccome all’indomani doveva alzarsi presto per recarsi alla fiera di Mendicino a vendere maiali.
Sono le 7,00 del primo ottobre 1917 quando Francesca Aricò bussa alla porta della caserma dei Carabinieri di Lago. È visibilmente preoccupata perché suo marito non è rincasato e, per di più, alcuni vicini le hanno detto di averlo ritrovato morto nel valloncello poco lungi dalla fontana pubblica denominata Scocca.
Sgozzato come un capretto od un maiale.
Il Brigadiere Gaetano Manganelli e i suoi uomini, dopo avere avvisato il Pretore di Amantea, si precipitano sul posto. Lungo la stradella che da Greci mena alla contrada Porcili, precisamente dove la via è tagliata perpendicolarmente dal vallone Conca, è il luogo del delitto. Poco sotto la via si notano le orme di un uomo sul terreno umido, una sotto e l’altra sopra alla distanza di un passo regolare. Cinque metri più sotto giace il cadavere in posizione supina. La testa, rivolta verso la parte inferiore del valloncello, tocca il rivolo di scolo della fontana pubblica, mentre le gambe, divaricate, sono piegate fino a toccare le cosce, le braccia sono aperte. Ha una ferita sulla parte anteriore destra del collo, ma la cosa strana è che i vestiti non sono macchiati di sangue, mentre il viso, il padiglione degli orecchi, buona parte del cuoio capelluto sono ricoperti di sangue aggrumito, come da una maschera.
Certamente chi lo ha ucciso ha fatto un lavoro da vero professionista: il fascio nervo-vascolare di destra (carotide, giugulare e vago) è nettamente reciso; la laringe è tagliata in due trasversalmente, l’esofago è anch’esso tagliato trasversalmente; nel fondo della vasta lesione notasi la parte corrispondente della colonna vertebrale.
Certamente chi lo ha ucciso lo ha fatto per rubargli i soldi che aveva nel portafogli, infatti nelle tasche, tutte completamente rivoltate all’infuori, non c’è niente. Come non c’è la rivoltella che, evidentemente, non ha fatto in tempo ad usare o perché aggredito da gente di cui si fidava, o perché aggredito all’improvviso da qualche sconosciuto. Ma questa seconda ipotesi viene subito scartata perché, interrogati tutti i compagni di gioco e di bevute, è chiaro che nel punto dove è stato trovato, mastro Paolo era in loro compagnia. E allora deve essere stato per forza qualcuno di loro.
Il Brigadiere Manganelli sospetta che qualche parte debbano averla avuta Gaetano Naccarato e suo figlio Carmine perché cadono in contraddizione: il primo giura di non essersi fermato a casa ma di essere andato in montagna, il secondo dice che suo padre era a letto che dormiva. Ad aggravere i sospetti sui due, secondo Manganelli, è il loro atteggiamento alterato e molto preoccupato. Stesso atteggiamento tenuto da Antonio, Giuseppe e Beniamino Porco. Nel suo verbale il Brigadiere precisa: Siamo più che convinti, inoltre, che Porco Giuseppe sia uno degli esecutori materiali del delitto e precisamente colui che vibrò il colpo al collo del povero Spanò poiché non si può e non sappiamo spiegare la sua titubanza nel rispondere alle nostre domande. Non è superfluo aggiungere che, sebbene Porco Giuseppe abbia solo 17 anni, pur tuttavia è abbastanza robusto e quindi ha potuto benissimo uccidere lo Spanò con arma da taglio e, con una piccola spinta datagli da Porco Giuseppe, sia caduto giù dal sentiero e poi gli si sia gettato addosso e l’abbia sgozzato. Si è il fatto che si sapeva fra tutti coloro che accompagnavano lo Spanò erano quasi tutti ubbriachi, tant’è vero che Porco Beniamino vomitò parecchie volte. Invece Porco Giuseppe non poteva essere affatto ubbriaco perché quando rincasò cucinò pasta che mangiò con i peperoni, mentre prima disse che non appena recatosi a casa andò subito a letto. Manganelli riscontra delle contraddizioni anche tra le deposizioni dello stesso Giuseppe Porco e di Antonio Porco con quella di Beniamino Porco il quale sostiene che mastro Paolo non aveva denaro addosso, tant’è vero che gli prestò centesimi 30, mentre i primi due negano tal fatto.
Sul fatto che l’esecutore materiale sia stato Giuseppe Porco è d’accordo anche Francesca Aricò che ricorda un episodio di qualche tempo prima, quando suo marito buon’anima e Giuseppe Porco avevano dormito insieme per lavoro e, svegliatosi, scoprì che gli mancavano 50 lire dal portafogli: “Quello leva le uova da sotto le galline senza farsene accorgere” le avrebbe detto suo marito che, tuttavia, preferì non sporgere denuncia. E poi c’è il particolare di non poco conto: tutta la comitiva sapeva che mastro Paolo aveva in tasca il gruzzoletto ricavato dalla vendita delle tegole.
Per adesso le indagini si concentrano su questi cinque uomini e Manganelli li dichiara in arresto. Interrogati, tutti si dichiarano estranei al fatto. La vedova di mastro Paolo insiste nelle sue accuse ma cambia un particolare: non sarebbe stato Giuseppe Porco a rubare le 50 lire a suo marito mentre dormiva, ma Francesco Naccarato, poi fornisce un possibile, per quanto flebile, movente dell’omicidio, oltre al furto:
Il povero mio marito si era adoperato per concludere il matrimonio tra Santo Porco, attualmente militare, e la sorella dell’imputato Beniamino Porco a nome Rosina. Ora, dopo l’efferato delitto, Maria Porco, madre di Beniamino, mi ha detto che mio marito l’aveva pregata di non far passare dinanzi la porta della sua abitazione il teste Policicchio Francesco, soggiungendole che dove aveva egli messo il piede per chiedere in isposa una ragazza, altri non dovevano porvelo. Inoltre, mi ha detto la mia comare Maria Porco, che mio marito le disse che per il matrimonio di Rosina si era procurato molte inimicizie
Intanto, nelle minuziose perquisizioni fatte nelle abitazioni dei sospetti non viene rinvenuto niente che possa essere ricondotto all’omicidio: né il coltello, né la rivoltella della vittima e né un qualsiasi indumento sporco di sangue.
Il Brigadiere Manganelli, indagando sulle ultime parole della vedova Spanò, esclude che Francesco Policicchio, ex sergente congedato perché ha perso il braccio destro in battaglia, possa avere aspirato alla mano di Rosina Porco, ma riferisce di una sibillina conversazione svoltasi tra la madre di Rosina e il padre di Francesco Policicchio: nel ragionare sull’ammanco del braccio del sergente Policicchio, il padre le disse che non aveva affatto pena perché l’ha tra i suoi e che per il suo avvenire gli avrebbe messo un negozietto facendolo sposare una ragazza che sapesse leggere e scrivere per la gestione del negozietto. Il fatto è che Rosina sa leggere e scrivere, ma è troppo poco per pensare a un omicidio che Francesco Policicchio avrebbe dovuto commettere affrontando quel pezzo d’uomo che era mastro Paolo col solo uso del braccio sinistro. In realtà anche le accuse contro gli altri cinque sembrano vacillare e l’avvocato Tommaso Corigliano ne approfitta per chiederne insistentemente la scarcerazione, ma il Giudice Istruttore la nega.
Intanto sul tavolo del Pretore di Amantea arriva una lettera anonima che indica i nomi di alcune persone che potrebbero sapere molto sull’omicidio e, in particolare, punta l’attenzione su una tale Carmela Raimondi, una forestera a Lago da un due anni e quasi di tanto in tanto in quanto si fa assentire di tante e tante cose
E poi ne arriva un’altra, con la stessa grafia, più particolareggiata. Questa volta l’anonimo fa il nome di quello che indica come responsabile della uccisione di mastro Paolo: ho appurato ch’è stato Domenico Chilelli, quel ladro che robò anche la signora Filomena Scanga e il molino del sig Vincenzo Palumbo. Vorrei dirvi altro ma non mi fa il mio cuore poiché non mi credeti, allora poteti chiamare come testimone al sig. Andrea Porco, pastore di Lago, quale in quella sera si trovava vegliando poiché i suoi cani avevano un forte abbaiare verso il posto dove fu ucciso quel disgraziato e che il signor Porco Andrea andò dove i cani abbaiavano, credendosi che fosse qualche lupo ma invece conobbe al Chilelli Domenico tutto spaventato correndo per la strada e la mattina fu trovato quel povero disgraziato.
L’avvocato Pietro Mancini, che rappresenta la parte civile, preoccupato dalla confusione che si sta creando tra accuse che vacillano, lettere anonime, strane manovre e la sostituzione del Giudice Istruttore – Carmine Di Francia ha preso il posto di Antonio Giannuzzi –, scrive al nuovo Magistrato una lettera di fuoco, temendo seriamente che gli imputati possano venire scarcerati. È l’8 gennaio 1918.
Il sottoscritto si appella vivamente alla vostra scrupolosa coscienza per chiedere che non l’indulgenza più arrendevole voglia usarsi per gli arrestati nel processo di assassinio che fortemente ha allarmato e funestato un mandamento intero.
Gli arrestati, che furono trattenuti per lungo tempo nelle carceri di Amantea, ebbero modo di concordare con i propri parenti, preparare le loro difese, far correre la voce che i detenuti sarebbero usciti, impedendo in tal modo la libera voce dei testimoni. Se quell’Egregio Pretore di Amantea (Tommaso Carnevale, nda), contro il quale si appuntarono le critiche della difesa dei Porco, avesse lontanamente dubitato della reità degl’imputati – egli che conosce uomini e cose ed interessi – né li avrebbe arrestati, né avrebbe seguito la istruzione contro di essi. V.S. noterà il premuroso desiderio degl’imputati di escludere dall’istruttoria il Pretore Carnevale.
Quando questa manovra è venuta a naufragare nella lodevole, ostinata resistenza di un Giudice Istruttore come Giannuzzi che, nativo di Aiello, conosce tutte le tristi abitudini di compiacenze che i testimoni di Lago e contorni sono usi a praticare, allora si è cercato di tentare qualche altra manovra che ha lo scopo unico ed esclusivo di sottrarre alla giustizia gli attuali arrestati.
Signor Giudice, quando costoro saranno liberi penseranno loro a far tacere o lusingare la gente. Il processo, insieme con l’escarcerazione degli arrestati, mandatelo anche in archivio. Accadrà per questo delitto quello ch’è successo per altri più gravi delitti consumati in quel paese. Più non diciamo. V.S. che ha mente e coscienza saprà intenderci.
Se la libertà dei cittadini è sacra, più sacra ancora v’è la loro vita. Non deve pensarsi né dirsi che qui in Calabria, nel territorio di Lago, si può impunemente uccidere. 
Noi abbiamo fiducia nella sua giustizia, Signor Giudice Istruttore. E dalla sua giustizia aspettiamo un provvedimento ponderato ed onesto.
Ma la sua fiducia è mal riposta. Il giorno dopo Carmine Di Francia firma l’ordine di scarcerazione per tutti e cinque gli indagati, condizionandola al pagamento di una cauzione complessiva di 500 lire, che viene prontamente versata dall’avvocato Corigliano, e al divieto di recarsi a Lago per un mese con obbligo di recarsi immediatamente al domicilio coatto di Amantea.
I cinque vengono scarcerati, ma nessuno rispetta l’obbligo di dimora. Il comandante della stazione dei Carabinieri di Amantea li ferma, li interroga e denuncia subito la trasgressione senza tuttavia arrestarli. Tommaso Corigliano, forse per una cattiva comunicazione, crede che i suoi assistiti siano stati arrestati e presenta una nuova istanza di scarcerazione scatenando un putiferio. Adesso le acque sono agitate e inevitabilmente intorbidite da sospetti e veleni.
In tutta questa confusione arriva un’altra lettera anonima che indica come autori dell’omicidio di mastro Paolo Spanò Carmela Raimondi e Domenico Chilelli, coadiuvati da altre due persone di cui non fa il nome. Il Brigadiere Manganelli indaga e scopre l’autore delle lettere anonime: Nicola Politano. Ma le accuse sembrano infondate perché Politano ha scritto le lettere  in quanto nutre un’antipatia per la Raimondi, una donna che non si fa i fatti suoi. Chilelli viene tirato in ballo in quanto, come abbiamo visto, è l’amante della donna. È il 19 febbraio 1918. Subito dopo Manganelli viene sostituito e tutto tace per un paio di mesi. Il primo maggio Pietro Mancini scrive di nuovo per lamentarsi:
Il processo dorme sonni beati sul tavolo di qualche ufficio e la povera vedova del morto chiede invano giustizia…
Questo stato di cose – che V.S. dovrà far cessare – è assai triste e doloroso!!! Più giorni passano e più l’oblio ed il gioco di qualche protettore compiacente di Lago fanno scomparire indizi e prove.
È strano. Un delitto così grave che avrebbe dovuto spronare ed acuire tutta la ben nota indefessa attività degli Ufficiali di Polizia Giudiziaria non ha avuto l’onore che di qualche affrettata indagine. Voglia V.S. scuotere i dormienti. Provocare l’andata alla stazione di Lago di altro, più solerte Maresciallo. Si sproni l’arma dei CC.RR.
In un piccolo paese tutto si sa se si vuol sapere…
V.S. ci ha sempre insegnato che la giustizia non sente privilegi. Che il sangue del povero merita la stessa protezione che il sangue di altri.
L’unico risultato che la parte civile ottiene è quello del ritorno tra i sospettati di Francesco Policicchio, colpevole di, così pare, essere rimasto da solo per pochi minuti, la sera del delitto, in compagnia del povero mastro Paolo Spanò. A questo punto il Pretore di Amantea ordina una perizia tecnica sul luogo del delitto con la presenza di tutti gli indagati e, fattili posizionare secondo le loro prime dichiarazioni, si convince che Policicchio deve per forza essere il responsabile del delitto, così emette un mandato di cattura nei suoi confronti con l’accusa di avere ucciso a fine di lucro. Le proteste sono vibrate per difenderlo, per difendere una mirabile figura di eroe di guerra. L’avvocato Corigliano, forte della scarcerazione degli altri imputati, sostiene che anche Policicchio è nelle stesse condizioni degli altri cinque, salvo che non siasi inventata una delle solite fanfaluche di fidanzamenti sfumati ad opera dell’ucciso come, con poca fortuna, si era cercato metter su contro uno dei precedenti prevenuti escarcerati. E poi c’è sempre l’impossibilità materiale di Policicchio a commettere un omicidio con le modalità con le quali fu commesso l’omicidio di mastro Paolo, l’impossibilità, col solo uso del braccio sinistro, di scannare un colosso, sempre armato, quale era lo Spanò.
Pietro Mancini aveva ragione a sostenere che le indagini sono state approssimative e frettolose. E, stando così le cose, la procura Generale non può che chiedere alla Sezione d’Accusa, attesoché sia la istruzione che le indagini dei carabinieri non hanno portato a nessuna luce nell’attuale processo per cui il buio è più pesto del primo momento,  di dichiarare il non luogo a procedere per tutti gli imputati. È il 28 marzo 1919. Due settimane dopo la richiesta viene accolta, gli imputati prosciolti e l’assassino (o, più probabilmente, gli assassini) di mastro Paolo Spanò resta sconosciuto.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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