LA RAGAZZA CON LA PISTOLA

Evelina carissima
Ti mando questa lettera perché prima di dare parola con te in persona voglio che tu ripassi come venne la cosa e come dovevo fare per potere eseguire le parti se tu quando il 3 agosto a Reggio mi signasti della terribile sventura accaduta e che già in quel giorno tutto avevo combinato col laltra e i suoi genitori stessi. Ciò che venne fatto il suddetto per sollevare questa ragazza dalle torture e dalle pene, in quanto sposarla come ti anno detto che io la sposerò sabato, cioè domani, questo non è vero; il giorno non lo dichiarato perché prima avrei piacere passare la visita per vedere come stanno le cose. Il fatto è che le parole che meno mi garbano sono quelle che mi disse tuo fratello ieri sera. Mi disse che tu gli ai detto che io ti lusingai con un braccialetto per arrivare alle tue confidenze. Questo, Evelina, spero che non lo vorrai replicare perché se tu starai in ragione giuste, anch’io starò sulle buone parole perché, come sai come venne la cosa che io le prime parole ti dissi che la gente mi dicono che tu fai lamore con altri; tu mi giurasti di no ma io ti dissi se tu mi vuoi bene, e non sia vero, presto mi darai confidenze per prova. Tu sai quale proposta mi ai fatto: “si accetterò ma voglio l’anello da fidanzata”. Io a questo non mi rifiutai, allora il d’accordo venne di trovarti a Reggio e tu ai preferito il braccialetto e non lanello. Queste furono le lusinghe venute dalla tua bocca, prego! Perché se tu vuoi far conoscere ai tuoi genitori che io ti abbia lusingata, questo non è vero perché nelle condizioni dove tu ti trovavi non credo che fossero vere le lusinghe. Tutto se io volessi cambiarti per tutto, per liberarmi di te, ma non ò piacere di eseguire cose non giuste. Potrei dire, senti Evelina io ti lasciai sulle prime confidenza perché non ti trovavi sulle condizioni che tu dovevi essere. Ma io di questo non ne parlo perché quel che fu successo sarà stato d’amore e non di capriccio. Ma questo non è lo scopo che io voglio adoperare contro di te perché quel che feci con te lo feci d’amore e nullaltro. Non voglio dirti parole dodio perché quanto non posso soddisfarti ora, potrò soddisfarti nell’avvenire e ti dico, in verità, contro di te e i tuoi genitori il delitto e il dispiacere è più terribile di quanto si possa immaginare al mondo. Ma per te quanto posso fare è tutto questo altrimenti non saprei come mi ai detto oggi a Reggio perché sono andato a fare la promessa con questa donna, perché fu lei la prima a svelare tutto. E mentre per lei eseguisco, anche tu mi portasti le parole terribili, adolorato quanto mai della tua bontà, di te e della tua intera famiglia. Potevo venire io in persona oggi come nostro d’accordo, commettevo un secondo delitto. Ma voi che prima tu ripassi come venne la cosa e come riguardo linsieme e dopo volentieri parlerò con te di quanto segue, ma io venire oggi, tutte le parole che potevo dire erano queste. Capisco che tu ai ragione per indispettirti. Anche io, avendo ancora più alterazione per altri affari e certo difficilmente nel venire potrebbe andar bene. Dopo parleremo da soli in qualche posto e se vuoi minacciare ai i pieni diritti e io in qualunque maniera non farò resistenza, perciò farai come credi.
Ermete
Evelina Tamagnini ha 21 anni, è di San Tomaso della Fossa, una frazione di Bagnolo in Piano in provincia di Reggio Emilia, e fa la ricamatrice. Quando verso la fine del 1916 conosce Ermete Faccenda, ventiseienne commerciante di tessuti di Novellara, a pochi chilometri da casa sua, in paese qualcuno dice che ha fatto all’amore con un paio di giovanotti, ma molti altri giurano che non è vero. Il fatto è che tra Evelina ed Ermete sembra essere scoppiata una passione travolgente e, tra una promessa e l’altra, verso i primi di giugno del 1917 la ragazza rimane incinta. E qui cominciano i guai perché Ermete non è più così certo, al di là delle parole d’amore che le scrive, della sua passione, così si fidanza ufficialmente con la diciannovenne Elvira Camellini, ma ad Evelina dice che è stato costretto a farlo per paura del padre della ragazza.
Come abbiamo letto nella lettera, nell’imminenza delle nozze tra Ermete ed Elvira, i problemi si fanno più seri perché adesso si è messo di mezzo il fratello di Evelina, Alfeo, rientrato dal fronte con una licenza di convalescenza di 30 giorni.
Ferragosto è passato da due giorni e il caldo della pianura padana è opprimente. Evelina suda pedalando nel primo pomeriggio sulla strada che da casa sua porta a Santa Maria di Novellara, ma ciò che le bagna il viso è sudore misto a lacrime di rabbia.
A sinistra della strada, l’abitato comincia con un grosso fabbricato ove è sita la Cooperativa di Consumo. Di fronte c’è l’abitazione di Ermete. Evelina vede le costruzioni da un sentiero nei campi, non vuole farsi vedere sulla strada, così continua a pedalare e si ferma una cinquantina di metri oltre la casa di Ermete, davanti alla casa di Annita Tondelli, trentenne massaia.
– Buongiorno, posso avere un bicchiere d’acqua? – fa Evelina alla donna che conosce appena, la quale, da parte sua, nota subito il suo contegno ilare ed amabile, nonché il suo bel vestitino
– Ma certo! Con questo caldo! – le due donne entrano subito in sintonia, poi Evelina dice:
– Avrei bisogno di parlare con Faccenda Ermete, lo puoi far chiamare?
Annita è un po’ perplessa, poi, davanti alle insistenze della ragazza e ai due soldi che porge ad un suo nipotino, acconsente.
– Mi raccomando, devi dire a Ermete che lo cerca la zia Annita, hai capito? – il ragazzino annuisce e, rimaste sole, Evelina racconta la sua storia alla nuova amica.
Ermete arriva dopo pochi minuti e resta sorpreso nel trovarsi davanti la sua amante, ma temendo che Evelina possa mettersi a urlare in mezzo alla strada accetta di restare e ascoltare ciò che ha da dirgli. Annita da parte sua, per evitare che i vicini li vedano, acconsente ad accoglierli in casa e li lascia da soli nella ampia stanza d’ingresso, mentre lei se ne va in cucina ma, avendo lasciato la porta aperta, sente tutto.
– Ti sei scordato le promesse che mi hai fatto, che hai fatto alla mia famiglia? E il braccialetto che mi hai regalato per fede? E le spese sostenute per quella promessa? Adesso sono incinta e devi sposarmi!
– Ma… prima di te ho messo incinta l’Elvina e devo sposare lei… ma stai tranquilla che questo matrimonio non è coronato da pieno accordotra sei mesi mi separo e torno da te…  se ti piace così, altrimenti ti ricordo che tu non eri come dovevi essere quando ti sei data a me
Dici questo per uscire dall’impegno – gli risponde quasi con indifferenza. Su quel tono il discorso durò a lungo, poi Annita sente dire ad Evelina con tono risentito – Vigliacco! Per forza non ti sposerei nemmeno io! Adesso mi devi solo pagare l’onore che mi hai tolto!
– E quanto vale il tuo onore? – le risponde ironicamente.
Dieci biglietti da mille!
Ti do cinquecento lire, non di più.
Tra i due nasce una specie di trattativa sul valore dell’onore della ragazza, che Ermete mantiene fermo alla sua proposta originaria, mentre Evelina cala progressivamente fino a mille lire.
A questo punto arriva Alfeo, forse a conoscenza delle mosse di sua sorella.
Vi siete combinati? – si informa.
Io sposerò l’altra – gli risponde Ermete.
– Dalle mille lire e facciamola finita!
Io do cinquecento lire… del resto te le do per riguardo a tuo fratello perché a te non darei niente!
– Visto che sono tutte e due incinte fai una cosa, la migliore – interviene di nuovo Alfeo –, non sposare né l’una, né l’altra.
Io sposerò quella là!
La questione va avanti ancora un pezzo quando Evelina, con accento arrabiato proruppe dicendo:
Vai, vigliacco, a prendere le cinquecento lire perché voglio svincolarmi da te e non ti voglio più guardare in faccia!
Forse è la volta buona per chiudere questa brutta vicenda. Ermete si avvia verso casa sua per prendere i soldi ed Evelina, con suo fratello, entra nella stanza dove è Annita. Sembra tutto calmo. Pochi minuti stiedero lì e quindi ritornarono nell’andito dove si posero a parlare fra di loro a bassa voce. Come tornò il Faccenda, ambedue si trovavano in piedi nell’andito, quegli porse alla Tamagnini un involtino di carta moneta e mosse per allontanarsi.
Torna indietro un po’ – fa Evelina all’improvviso. Ermete la accontenta e lei continua – dunque non mi vuoi mica?
Prendo quella lì – insiste.
– Segui il mio consiglio, non prendere nessuna delle due, ti conviene – interviene Alfeo.
Prendo quella lì… – e fa per uscire di casa. Evelina gli va dietro, si avvicina alla sua bicicletta che ha lasciato nell’andito, apre la sua borsetta appesa al manubrio, prende una rivoltella a sei colpi, la punta alle spalle di Ermete e fa fuoco. Per fortuna il colpo va a vuoto e il giovane scappa.
Annita è in cucina quando sente la detonazione. Si volta tutta spaventata e vede del fumo nell’andito, il Faccenda che scappava ed il Tamaglini Alfeo a fianco della sorella sulla sinistra a distanza di circa un metro. Evelina si mette a correre dietro Ermete ed Alfeo dietro la sorella, incitandola con voce soffocata e bassa (in modo che io sola potei udirlo, racconterà Annita).
Dai, ammazzalo del tutto quel vigliacco!
Ermete deve percorrere pochi metri per mettersi al sicuro in casa sua, si gira per vedere cosa fa Evelina, che proprio in questo momento spara di nuovo da non più di 4 metri. Il proiettile lo centra sotto l’ascella sinistra perforandogli prima il polmone, poi il cuore e, infine, anche l’altro polmone, ma nonostante ciò, barcollando, riesce a percorrere qualche altro metro, poi stramazza a terra.
Un ragazzo, Fortunato Gasparini, è davanti alla porta di casa sua e accorre per soccorrerlo ma, mentre si accinge a sollevargli il capo, arriva Evelina che fa fuoco altre tre volte dicendo:
Troio di un vigliacco e di un assassino
Nel mentre esplodeva l’ultimo colpo sopraggiunse di corsa il di lei fratello ed, afferratala, le strappò di mano la rivoltella che gettò nel campo. Essa cercò di svincolarsi dicendo “Lasciami che lo voglio pestare” ma lui, continuando a trattenerla, le disse “Troia di una bagascia, cosa ci vuoi fare altro?”.
Poi Alfeo riesce a trascinarla in una casa vicina mentre Evelina continua a urlare fuori di sé e cogli occhi fuori dalla testa:
Lasciami andare che se non è morto lo ammazzo del tutto!
Dopo un po’ si calma, la mettono su di un biroccino e la portano a casa, mentre il fratello torna da Annita per riprendere la bicicletta.
Che bel lavoro che siete venuti a fare! – lo rimprovera la donna.
Tacete sposa… – le risponde con contegno mortificato, poi se ne va.
Il Maresciallo Maggiore Angelo Federici, comandante della stazione di Novellara, arriva sul posto poco più di un’ora dopo. Constata sommariamente i fatti, mentre i suoi uomini rinvengono la rivoltella di piccolo calibro con cinque cartucce esplose ed una intatta, poi va a casa di Evelina e la arresta.
Io non potevo sopportare l’abbandono – esordisce –. Nella penultima domenica, vedendo che non rispondeva affatto alle mie lettere, lo fermai in Santa Maria della Fossa in mezzo alla strada e a molta gente. Domandatogli perché non mi aveva risposto, incominciò col dire di non avere ricevute le mie lettere che gli avevo spedite per posta e poiché insistetti nelle mie esortazioni di riparare al mal fatto, mi ingiunse di non affrontarlo più in quel modo perché altrimenti mi avrebbe ripudiato completamente. In seguito gli mandai altre lettere per mano delle mie sorelle e anche di mio padre e lui a non rispondere. Soltanto disse a mio padre che riconosceva che avevo ragione, che egli era stato uno stupido ed un ignorante a fare quello che fece, ma riconoscendo i miei diritti non poteva sposarmi avendo già promesso di sposare quell’altra. Infatti, egli appena abbandonato me aveva incominciato a fare all’amore con certa Camellini Elvira colla quale, come in seguito ho saputo, erasi trovato in rapporti intimi fino a tre anni prima. Ieri l’altro mi fu assicurato che il Faccenda doveva sposare al più presto la Camellini. Tornai a casa disperata informando mio fratello Alfeo che ero stata resa incinta da Ermete e nella sera andò a trovarlo esortandolo ad abbandonare l’idea di quel matrimonio, almeno fino a che mi fossi acquietata, senonchè lui rispose di non potere differire per non volere fare cattiva figura con i propri parenti ed aggiungendo che aveva preparato il corredo nuziale ed il letto. Mio fratello mi informò dell’esito di quel colloquio e tutta la notte non ebbi requie e ieri mattina andai a trovare la casellante di San Tomaso e le domandai il revolver in prestito col pretesto di uccidere un galletto il quale nella notte restava sempre fuori impedendomi di dormire. Rientrata a casa con il revolver, lo nascosi e poi, per suggerimento di mio fratello, mi condussi a Reggio nella speranza di rivedervi Ermete, senonchè non riuscii sulle prime a vederlo e mi condussi da un avvocato per chiedergli un consiglio sul da farsi. L’avvocato Lasagni mi rispose che avevo certamente dei diritti, li facessi valere mettendogli paura con qualche espresso o telegramma per mandare a monte quel matrimonio, come io stessa gli avevo prospettato. Come gli dissi che ero disposta anche a degli eccessi, se egli non mi avesse sposata, tornò a dirmi che se avevo dei diritti potevo fare quel che volevo. Lascia all’avvocato £ 10 in compenso del consulto e altre 5 per provvedere a spedire il telegramma o l’espresso che doveva pensare lui stesso a scrivere. Venuti via dall’avvocato, girando per Reggio ci imbattemmo in Via Emilia con Ermete. Fermatolo, gli domandai se fosse vero che doveva sposare la Camellini ed egli, confermando di non poterne fare a meno, rifiutò di dirmene nel momento la ragione, promettendomi che sarebbe venuto a casa mia a dirmi il perché. Poiché mi premeva di essere informata al più presto, gli proposi di tornare con noi a San Tomaso, rispose che aveva il cavallo allo stallo e si allontanò per andarlo ad attaccare. Io e mio fratello gli stemmo dietro col nostro biroccio, senonchè giunti allo stallo non ve lo trovammo, né più vi fece ritorno, cosicchè, dopo averlo atteso un bel pezzo ce ne tornammo a casa. Giunta a casa, fino alle ore 15 lo attesi invano e così, posto il revolver nella mia borsetta, tolsi la bicicletta e di nascosto alla mia famiglia, attraversando campi e sentieri, mi condussi a Santa Maria e andai nella casa di Tondelli Annita, alla quale mio fratello, ieri stesso appena tornato da Reggio, era andato a fare viva raccomandazione perché essa e suo marito persuadessero Ermete a dilazionare almeno il matrimonio fino a che mi fossi acquietata. Poiché essa mi assicurò di non avere avuto tempo di conferire con lui e che il di lei marito era andato a Reggio donde ancora non aveva fatto ritorno, dati due soldi ad un bambino, lo incaricai di andarlo a chiamare a nome di Annita. Di lì a poco venne e, presente Annita, lo scongiurai e lo supplicai ripetutamente a non sposare la Camillini, dicendogli che a tale condizione mi sarei anche acquietata se non avesse sposato neppure me, ma egli fu irremovibile dicendo che aveva paura del padre della Camillini, il quale era un avanzo di galera che poteva piantargli un coltello davanti e un altro di dietro. Soggiungeva che appena si fosse stancato di quella mi avrebbe sposata, volendo con essa fare solo il matrimonio religioso e che intanto mi dava dei denari perché io nascondessi a tutti la mia gravidanza. Respingendo ambedue quelle proposte, lo abbracciai e piansi supplicandolo con maggiore energia, ma egli mi respinse brutalmente. Nel mentre sopraggiunse mio fratello portandomi tre lettere che aveva mandato a casa di mio padre lo stesso Ermete appena tornato da Reggio. Avendogli domandato che cosa avesse scritto, rispose: “Proprio quello che ti ho detto adesso…”. Pregai mio fratello a provare lui di persuaderlo perché io non me ne sentivo più forza, ma lui era irremovibile, onde mio fratello passò in una camera e si pose a piangere. Tornai da Ermete facendo altri tentativi riusciti infruttuosi. A certo punto, cavate di tasca 550 lire me le porse esortandomi a metterle nella borsetta verso la quale allungò la mano ed io, che avevo appesa la borsetta al manubrio della bicicletta, insistendo nel dire che non avevo che farmene di quel denaro, alle sue insistenze, aperta la borsetta vi posi dentro quel denaro con una mano, nel mentre con l’altra ne cavai fuori la rivoltella di nascosto a lui. Reiterai le mie supplicazioni ma lui, sempre irremovibile, alzatosi da sedere mosse per allontanarsi. Appena passata la soglia, chiamatolo, gli mostrai la rivoltella dicendogli che mi sentivo capace di trarre la mia vendetta con quell’arma. “Fai quello che vuoi, ma io non posso cedere” mi rispose. Allora gli tirai un colpo a distanza di due o tre passi, che credo sia andato a vuoto. Scappò subito in strada da me inseguito a breve distanza e in un momento che si voltava indietro a guardare, ne sparai un altro e subito è caduto sul margine della strada. Fuori di me mi gli appressai e gridando gli esplosi altri due o tre colpi e frattanto fui afferrata per di dietro da mio fratello che mi buttò da una parte strappandomi la rivoltella, che lanciò in mezzo ai campi
Sottoposta a visita ginecologica, Evelina risulta essere al terzo mese di gravidanza, quindi non ha mentito su questo punto, ma la testimonianza di Annita, le contraddizioni tra le due versioni e il fatto che si sia procurata l’arma il giorno prima dell’omicidio inducono gli inquirenti a sospettare che la ragazza abbia premeditato il delitto. Gli inquirenti mettono anche in rilievo le contraddizioni che pesano su Alfeo Tamaglini, convincendosi che ha avuto un ruolo decisivo nell’omicidio e lo arrestano, ma c’è un problema: di chi è la competenza a giudicare il suo – eventuale – coinvolgimento essendo un militare in servizio? Comincia così un viavai di carte tra la Procura del re di Reggio Emilia e il Tribunale Militare di Firenze, competente per territorio. Questo palleggiamento di competenze si protrae per oltre sei mesi senza che la Procura del re di Reggio Emilia chieda proroghe alle indagini ed Evelina viene rimessa in libertà provvisoria.
– Seppi dal parroco che mia sorella si sarebbe recata a casa di Annita – si difende Alfeo – perché era stata da lui, così andai a cercarla lì, la trovai che stava discorrendo con l’Ermete e le consegnai delle lettere, dopo insistevo perché l’Ermete non sposasse la Camillini ed egli ripeteva che era impegnato e fu lui a proporre denaro a mia sorella. Protestammo entrambi dicendo che non era questione di denaro ma di onore. Mia sorella diceva che la cosa non poteva essere messa a tacere neanche con diecimila lire ed egli continuava ad offrire lire cinquecento che aveva in casa, per mettere mia sorella in condizione di partorire fuori dal paese. Per tagliar corto ad una discussione incresciosa, gli dissi di andare a casa sua, persuaso che non sarebbe più ritornato e, appena allontanatosi, dissi all’Annita che l’Ermete non sarebbe più ritornato e tale era anche la sua convinzione. Invece tornò dopo pochi minuti e si mise a parlare con mia sorella. Mentre mi trovavo in cucina sentii un colpo d’arma da fuoco, balzai di colpo nel corridoio dove si trovavano i due, mi misi in mezzo a loro ma mia sorella sparò un altro colpo nel mentre l’Ermete stava fuggendo attraverso una porticina che immette nel porticato. Mia sorella balzò fuori dall’altra porta, feci per rincorrerla ma, ferito com’ero al piede sinistro che portavo ancora fasciato, mi era impedito di correre. Mia sorella intanto inseguiva l’Ermete sparando degli altri colpi. La raggiunsi, la disarmai della rivoltella che buttai sul campo vicino e la condussi a casa.
– Annita Tondelli riferisce che hai incitato tua sorella ad ammazzarlo…
È assolutamente falso – ma non gli credono e resta in carcere.
È il 16 maggio 1918 il giorno in cui la Sezione d’Accusa presso la Corte d’Appello di Modena emette la sentenza di rinvio a giudizio contro Evelina Tamaglini con l’accusa di omicidio qualificato dalla premeditazione e porto abusivo di rivoltella, ordinandone di nuovo l’arresto, mentre dichiara l’incompetenza dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria a giudicare Alfeo Tamaglini per concorso in omicidio qualificato e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale Militare di Firenze.
Per fissare la data del dibattimento bisogna aspettare ancora del tempo; intanto la guerra finisce e con la guerra finisce anche la legge marziale. Il 21 febbraio 1919 viene promulgato il Regio Decreto n. 160 che, all’articolo 5, ristabilisce la competenza dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria per reati soggetti alla giurisdizione militare perché commessi in tempo di guerra o comunque devoluti alla giurisdizione militare da bandi o leggi speciali emanati durante la guerra. È proprio il caso di Alfeo, il quale, il 27 aprile 1919, viene rinviato a giudizio dalla Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Modena. Adesso si può fare sul serio e il dibattimento viene fissato per il 3 novembre successivo presso la Corte d’Assise di Reggio Emilia.
In 3 udienze, nelle quali emerge la figura della vittima come quella di un impenitente libertino che amava dare fastidio alle donne giurando che avrebbe sposato solo quella che mi resisterà, si arriva alla sentenza: è il 6 novembre 1919 quando il Presidente della Corte annuncia che Evelina Tamagnini, sebbene abbia ucciso Ermete, non è colpevole di avere commesso l’omicidio, ma piuttosto è colpevole di avere portato fuori dalla propria abitazione una rivoltella senza aver pagata la tassa prescritta e la condanna alla pena pecuniaria di lire 180 ed al pagamento delle spese processuali. È ovvio che se Evelina non è colpevole, non può esserlo nemmeno Alfeo che viene assolto.
Ah! Un’ultima cosa. Ad Evelina vengono sequestrate le 550 lire ricevute da Ermete a garanzia delle spese.[1]
  

 

[1] ASRE, Processi Penali.

 

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