Fino alla sera del 10 luglio 1898 il ventiquattrenne barbiere di Fiumefreddo Bruzio Ernesto Verri e il trentenne sarto Andrea Di Santo erano amici. Quella sera Ernesto, come il suo solito, si ubriaca e comincia a distruggere casa sua. Quando il suo amico, avvisato, lo va a trovare per cercare di calmarlo, per tutta risposta si becca una revolverata nell’avambraccio sinistro e sporge querela. Ernesto Verri si becca 4 mesi di reclusione e l’amicizia si trasforma in odio.
Ernesto esce di prigione e non perde occasione per offendere e sfidare Andrea che sopporta tutto per il suo carattere mite, un pusillanime come dice Concetta Pezzetti sua moglie. Sopporta tutto fino a domenica 8 ottobre 1899 quando in mezzo alla piazza del paese, mentre tutta la popolazione sta assistendo alla commedia di un prestigiatore di passaggio, tira fuori un coltellino e vibra, almeno questa è la sua intenzione, una coltellata alla coscia sinistra di Ernesto, riuscendo soltanto a lacerargli il pantalone. I gesti di Ernesto sono inequivocabili e vogliono dire che prima o poi gliela farà pagare perché uno che ha la fedina penale come la sua non può permettere a un vigliacco di fare il gesto di volerlo accoltellare. E l’odio e il rancore crescono, crescono in fretta.
È la sera dell’11 ottobre 1899, tre giorni dopo l’ultima lite. I fanali pubblici sono stati appena accesi quando Andrea esce di casa con sua moglie Concetta per aiutarla a trasportare due tavole di pane, dal forno accanto a casa loro, fino alla casa di Francesco Amendola. La sorpresa è grande quando, appena sulla strada, vedono Ernesto Verri e il suo genitore Marino fermi a pochi passi da loro.
– Vile,vigliacco, vieni di pendino se ài coraggio! – dice Ernesto all’indirizzo del rivale.
Marito e moglie cambiano strada per andare al forno e quando arrivano entra solo Concetta, mentre Andrea resta fuori a fumare un mozzicone di sigaro, voltato verso la porta di mare.
– Che fai qui a quest’ora? – gli chiede Maria Carmela Barone, che sta passando da lì per tornare a casa, ma Andrea non le risponde, si gira e come un fulmine entra nell’atrio del forno. La donna non ha nemmeno il tempo di restare sorpresa da quello strano comportamento che un altro fulmine le passa accanto: è Ernesto Verri che si precipita anche lui nel forno, sguaina il suo bastone animato e colpisce alle spalle Andrea, scappando immediatamente, proprio mentre la fornaia è intenta ad infornare i taralli.
– Madonna del Carmine… Ernesto Verri mi ha ammazzato! – urla Andrea.
La confusione è grande nel forno. Concetta soccorre il marito che con un filo di voce la prega di portarlo a casa del dottor Giovanbattista Pavone, cosa che fa a fatica, ma nonostante l’insistente picchiare sulla porta, nessuno apre.
– Ha paura che lo vedano da casa di Verri, per questo non apre… – osserva Concetta – ti porto a casa e lo facciamo venire da noi.
Come previsto, il dottor Pavone arriva poco dopo e trova Andrea che si lamenta e chiede aiuto perché sente che sta morendo. Proprio allora arriva anche il parroco, don Carmine Carbone:
– Gli faccio l’estrema unzione? – chiede al medico.
– Ma no! Si spagna ca mora, ma non è niente… chiacchiera come chiacchierò l’anno passato – gli risponde il medico e non servono le insistenze dei familiari. Per il medico è una sciocchezza e se ne va.
– Don Carmine, dategli l’olio santo per carità – insistono i familiari e lo stesso Andrea.
– Non avete sentito il medico? Non è niente… questi sacramenti non sono uno scherzo! Adesso lo confesso e poi ci vediamo domani.
Ma non c’è un domani per Andrea Di Santo, che poche ore dopo, fra atroci spasimi, passò ad altra vita.
Per il Brigadiere Francesco Bigoni si tratta di omicidio premeditato. Avvisato il Pretore, comincia la caccia all’assassino che sembra essere sparito nel nulla. Intanto viene stabilito che Andrea Di Santo è morto per l’emorragia interna causata dalla perforazione del polmone sinistro, del diaframma e della milza, trapassati dallo stile del bastone animato di Ernesto Verri.
Cinque giorni dopo il fatto, il 16 ottobre, il Brigadiere Bigoni viene avvisato che il ricercato si nasconde in casa di suo padre e, accompagnato dal Pretore del luogo, lo va ad arrestare.
– Nego di essere stato io l’autore della morte di Di Santo Andrea. Nella sera dell’undici, verso mezzora di notte mi sono ritirato nella mia abitazione come vide la mia vicina Rosaria Patitucci o Vommaro. Nel corso della notte ho dormito nella mia casa, ove tuttavia dimora mia moglie. Nella mattina seguente, facendo l’alba sono partito per andare alla stazione per radere taluni miei clienti…
– Però alla stazione non siete mai arrivato…
– Quando stavo per arrivare alla stazione fui avvisato dalla moglie di Carmine Catero che i Carabinieri andavano in traccia mia per arrestarmi come preteso autore del cennato omicidio. Allora io mi sono allontanato dal paese e dopo molto cammino sono arrivato in Cosenza. Colà dimorai due giorni e ieri sera verso la mezzanotte sono arrivato in questo abitato e sono andato nella casa paterna giacché mio padre aveva promesso al Brigadiere di essere io pronto a mettermi a disposizione della giustizia. Intanto non so il motivo pel quale i miei vicini e la moglie del defunto dicono che io sia stato l’autore del colpo di stile che produsse la morte del Di Santo.
– Beh… ci sono dei testimoni oculari e poi non potete negare che tra voi e la vittima non ci fossero buoni rapporti…
– Non posso negare che vi era dell’inimicizia tra me e il defunto Di Santo giacché costui nell’anno passato venne a insultarmi nella mia abitazione e nella lotta riportò egli un colpo di rivoltella in un braccio e pel tale reato sono stato condannato dal Tribunale di Cosenza e già ho espiato la pena di mesi quattro di reclusione. Nonostante ciò il Di Santo ha continuato sempre a insultarmi e ingiuriarmi fino a che nella domenica otto corrente mese cercò di ferirmi con un pugnale in una gamba, ma poiché è vile, non fu buono ad altro che a sfiorarmi una parte del pantalone. E non solo, signor Pretore. Nel giorno successivo, il medesimo si fece lecito dire a Gentile Francesco che mi avrebbe dato dei colpi di scure che aveva in mano…
– Avete detto che eravate ubriaco. Dove avete bevuto e quanto? C’era qualcuno con voi?
– Nelle ore pomeridiane del di undici corrente ho giuocato alle carte nell’esercizio di Storino Luigi, presenti Storino Natale, Morelli Costantino ed altri. Colà ho bevuto del vino ma non mi ricordo se mi abbia fatto del male. Dopo che sono uscito dal carcere si è diminuita in me l’abitudine dell’ubbriachezza che prima mi dominava…
Ma forse le cose non stanno proprio così. Secondo Natale Storino, che gestisce la cantina di suo zio Luigi, il vino ad Ernesto piace molto:
– Ernesto Verri quando aveva soldi in tasca li buttava bevendo il vino che molto gli piaceva, come io osservavo, allorché veniva nello spaccio. Nelle ore pomeridiane del precedente Mercoledì undici corrente ottobre, fu, come io vidi, nello spaccio giuocando alle carte con diversi amici. Potette bere quasi un litro di vino che io vendevo agli avventori. Essendo egli abituato a bere, credo che non l’avesse ubbriacato. Egli andò via dal suddetto negozio verso un’ora di giorno e passeggiava per l’abitato tranquillamente senza commettere alcuna stranezza, come io ebbi ad osservare…
Nemmeno Costantino Morelli, uno degli amici che giocava a carte con Ernesto, è convinto della sua ubriachezza:
– Il mio barbiere Ernesto Verri era dedito al vino e molte volte si turbavano le sue facoltà intellettuali ed io gli dicevo di stare attento perché aveva famiglia. Il precedente mercoledì undici ottobre, nello spaccio di Storino giuocò egli con me ed altri amici e potette bere un litro e quarto di vino. Verso un’ora di giorno, finito il giuoco, siamo usciti da quel luogo ed ognuno andò per la via sua. Come io vidi, il Verri incominciava ad essere allegretto pel vino bevuto, ma nel camminare non dava segni di barcollare, né la sua parola era balbuziente. Nel corso della sera seppi che Di Santo Andrea fosse stato ferito gravemente dal Verri e ciò mi recò somma meraviglia perché quasi un paio di ore prima io avevo osservato l’animo tranquillo del Verri…
Continuando le indagini, il Brigadiere Francesco Bigoni si trova davanti alla concreta possibilità che Ernesto Verri sia stato coadiuvato nell’esecuzione del delitto da suo padre, presente sul posto. A metterlo nei guai è una dichiarazione della moglie dell’ucciso:
– In verità non posso dire che il padre fosse stato vicino al figlio per istigarlo ad uccidere mio marito, ma ritengo che stesse vicino a lui per persuaderlo a non bagnarsi le mani di sangue, ma quando lo vide ostinato, intesi che disse al figlio “e… va minalu”. Intendo dare querela contro entrambi i Verri giacché il padre non doveva abbandonare il figlio nel momento del delitto. L’avrebbe invece dovuto rattenere o chiamare aiuto…
Siccome Concetta non ha potuto sentire Marino Verri pronunciare quelle parole, il Brigadiere e il Pretore cercano di saperne di più interrogando Maria Carmela Barone, testimone oculare del delitto.
– Con tutta coscienza posso affermare che non vidi sul luogo dell’avvenimento Marino Verri e neppure gli ho sentito dire “va ammazzalu” oppure “va minalu”.
Marino Verri può tirare un sospiro di sollievo.
Dopo due mesi dai fatti il Pretore invia gli atti al Pubblico Ministero e sembrano non esserci dubbi né sulla consapevole volontà omicida di Ernesto Verri, né sulla posizione di suo padre Marino. Scrive il Pubblico Ministero nella sua relazione: dalle modalità che precedettero ed accompagnarono il luttuoso avvenimento emerge che Ernesto Verri formò il disegno di fare strage del suo avversario prima dell’azione. Infatti nutriva forti rancori contro il Di Santo, andò a provocarlo mentre solo e tranquillo se ne stava a fumare e nel vederlo allontanare, temendo di fuggirgli, l’inseguì e con lo stile in bastone di cui era abusivamente armato, gli cagionò la letale lesione. Egli quindi premeditò l’uccisione dell’infelice Di Santo. Sul conto dell’altro prevenuto Marino Verri nessun elemento di prova si è raccolto per potersi ritenere responsabile di avere determinato il figlio Ernesto a commettere l’omicidio anzidetto, perciò deve essere prosciolto dall’ascritta imputazione per mancanza d’indizi di reità.
La Procura Generale del re concorda con questa impostazione e chiede alla Sezione d’Accusa il rinvio a giudizio di Ernesto Verri con l’accusa di omicidio aggravato dalla premeditazione. La Sezione d’Accusa accoglie la richiesta. È l’8 gennaio 1900.
Il 19 febbraio successivo si apre il dibattimento e già il giorno dopo la giuria emette il suo verdetto dichiarando Ernesto Verri colpevole e, non credendo alla dichiarata ubbriachezza, gli commina una condanna durissima: 30 anni di reclusione e pene accessorie.
il 26 maggio 1900 la Suprema Corte di Cassazione rigetterà il ricorso dell’imputato.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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