PASQUA IN FAMIGLIA

Il 27 marzo 1921 è domenica, una domenica particolare. È Pasqua. E siccome è Pasqua, anche i contadini si concedono un giorno di riposo.
In contrada San Zaccaria di Acri il trentaduenne contadino Salvatore Caputo si sveglia di buon mattino, si scrolla di dosso la paglia ed esce dal pagliaio in cui dorme da qualche tempo, da quando, cioè, suo padre Biagio lo ha cacciato di casa. Salvatore assapora l’aria di festa, si stropiccia gli occhi, si stiracchia e piscia sul tronco dell’ulivo più vicino. Poi percorre i pochi metri che lo separano dalla casa dei genitori per prendere i vestiti della festa e andare in paese a divertirsi.
I genitori, entrambi sessantenni, sono già alzati e stanno seduti davanti al fuoco in silenzio. Anche Salvatore si siede al fuoco e resta in silenzio per un po’, poi si rivolge alla madre educatamente:
– Ma’… me la prendi una camicia pulita che vado in paese per festeggiare la Pasqua…
La madre fa per alzarsi, ma il marito la strattona per un braccio e inizia a urlare contro Salvatore:
– Ma che camicia e camicia! Tu non hai nessuna camicia! Tu non hai il diritto di andare a fare festa! Tu te ne devi andare da questa casa, ma non nel pagliaio, te ne devi andare lontano da qui! Mi hai rotto i coglioni!
– Papà… veramente camicie ne ho e le ho comprate con i miei soldi… hai anche proibito a mamma di lavarmele e ho dovuto pagare Immacolata per farlo… io me ne voglio andare da qui perché pure io mi sono rotto i coglioni di tutte queste scenate che mi fai, ma se non mi dai il necessario, dove vado? Cosa faccio?
– Sono cazzi tuoi dove andare e cosa fare. Tu, e te lo dico per l’ultima volta, te ne devi andare senza toccare niente di quello che c’è in questa casa! – poi, appoggiandosi al bastone che usa per la sua zoppia, si alza e strattona il figlio con la mano libera, mentre con l’altra gli assesta una bastonata in piena fronte, aprendogliela in due. Salvatore è sorpreso, resta immobile a bocca aperta ma non appena il sangue gli scende sugli occhi e gli entra in bocca, perde i lumi e si lancia contro il padre. Ne nasce una violenta colluttazione e la madre, povera vecchia, cerca di mettersi in mezzo per evitare guai peggiori, ma si becca un bastonata e cade a terra stordita.
Santa Sisca si riprende quasi subito ma non si rende conto di quanto tempo sia passato da quando è caduta. A fatica si rimette in piedi e vede suo figlio Salvatore coperto di sangue che sbuffa come un toro e suo marito seduto sulla cassa di legno che è accanto al letto matrimoniale.
– Dorme? – chiede, incredula, al figlio.
– No, è morto… l’ho ammazzato! – risponde facendo un gesto come se si fosse liberato di un peso, poi continua – per favore… prendimi quella maledetta camicia che invece di andare a far festa mi vado a costituire…
Santa si mette ad urlare e accorre subito un vicino, Angelo Montalto, al quale i due raccontano la lite. Poi Salvatore si cambia e va dai Carabinieri.
Il Brigadiere Angelo Aloia e il Vice Pretore di Acri, Cav. Romano, arrivano sul posto nella tarda mattinata rinunciando al pranzo della festa. Davanti alla casetta colonica c’è qualche curioso.  Entrati, annotano che il fabbricato è composto di un sol vano abbastanza angusto e che riceve luce da un finestrino. Vi si notano pochissimi mobili in perfetto assetto, tanto che dallo stato dei medesimi nulla rilevasi di anormale.
Vi si nota un unico letto matrimoniale situato al lato opposto di chi entra nella casa. In una parete vicina vi è appeso un fucile ad una canna, carico; sul letto un cappello a cencio vecchio e accanto al letto una cassa di legno annerita, sporgente in modo da permettere ad un individuo di adagiarvisi alquanto comodamente.
Su di essa si trova seduto un uomo dell’apparente età di anni 60, vestito di panno nero e scarpe da contadino. Egli è quasi poggiato in prossimità del capezzale del letto, in atteggiamento di chi vien colto dal sonno mentre era seduto; le gambe sono quasi distese dritte, le braccia sono in posizione distesa, penzoloni lungo le gambe.
Nella regione parietale destra notasi una lesione contusa, poco sanguinante, ed un’altra piccolissima sul dito medio della mano sinistra.
Sulla scarpa del piede sinistro ed in corrispondenza del malleolo (lato interno) notasi un taglio netto della lunghezza di circa sette centimetri ed un’abbondante fuoriuscita di sangue.
Il cadavere viene rimosso e portato nella camera mortuaria del cimitero dove sarà effettuata l’autopsia che dovrà chiarire la causa del decesso: frattura comminutiva della bozza frontale destra, lesione del cervello – lobo frontale – emorragia e commozione cerebrale. Resta il mistero della ferita al piede che esiste e che i periti esaminano, ma che nessun altro nomina, nemmeno Salvatore. E l’arma usata? La lesione sul capo prodotta da corpo contundente; quella sulla gamba da arma da taglio. E siccome vi è un’arma (scure) che può agire nell’uno e nell’altro modo, in un primo momento ha agito col dorso, in un altro col taglio.
– Ho sentito vociare come al solito – racconta Angelo Montalto – ma siccome abito a circa duecento metri da qui non ho capito cosa si dicessero. Potevano essere le 7,30… dopo più di un’ora ho sentito Santa che gridava piangendo “Ohi Angelo, corri che si stanno menando”. Sono corso e ho trovato Biagio seduto sulla cassa già morto e Salvatore in mezzo alla stanza. Mi hanno raccontato della lite e Santa ha detto che il figlio aveva colpito il padre col dorso della scure.
– Salvatore ha detto qualcosa in proposito?
– No, non eccepì nulla in contrario
– Prima avete detto di aver sentito vociare come al solito… litigavano spesso?
– Si… il defunto era sempre prevenuto verso il figlio, anzi ne aveva paura, tanto che mi è stato detto da Santa che il marito andava quasi sempre armato…
– Sapete perché lo aveva cacciato di casa?
Il defunto era avaro ed attaccato all’interesse e sospettava che il figlio avesse una relazione illecita con Pasqualina Laudone e che a costei portasse oggetti di casa e grano, almeno questa è la voce pubblica… ho sentito qualche volta che il morto diceva al figlio che si fosse ammogliato perché gli avrebbe fornito il necessario per le nozze.
Poi il Pretore raccoglie la testimonianza di Santa Sisca che racconta come si è arrivati alla tragedia:
Ho fatto vita coniugale con mio marito Biagio Caputo per circa quaranta anni e spesso ho dovuto lamentare il suo temperamento eccitabile e violento. Dopo che nacquero dei figli dalla nostra unione, allorquando questi crescevano, pretendeva che avessero lucrato fin dalla tenera età ed io dovevo subire spesso i suoi maltrattamenti perché il defunto riteneva che io ero condiscendente e debole verso i comuni figli. Debbo far noto alla giustizia che il temperamento di detto mio marito è stato la causa della totale rovina della mia famiglia, giacché uno fu ucciso, rimanendo ignoto l’autore, precipitato in un vallone e mio marito ne incolpò uno dei figli a nome Pietrangelo il quale, prosciolto dall’addebito dopo circa tre mesi di prigionia, emigrò in America ove cessò di vivere per un infortunio capitatogli (in realtà fu assassinato. Nda). Salvatore, ora detenuto, era fatto segno da mio marito, da più tempo, a continui maltrattamenti, tenendolo anche lontano di casa e costringendolo a dormire in un giaciglio posto discosto dalla nostra casa colonica
– Ricordate cosa è successo la mattina di Pasqua?
Mi alzai per tempo, accesi il fuoco e accudii alle faccende domestiche; mio marito si alzò poco dopo di me. Si era verso le ore otto quando venne in casa nostro figlio il quale si pettinò e poscia chiedeva una camicia pulita allo scopo di vestirsi decentemente e venire ad Acri per la festa. A ciò si oppose assolutamente mio marito e da qui ne nacque tra i due un diverbio e, poiché i rapporti tra i due erano continuamente tesi, il defunto con il bastone che era sempre solito tenere in mano perché zoppo, tirò un colpo alla testa di mio figlio e nella colluttazione io riportai un colpo di bastone all’avambraccio sinistro, tanto che caddi a terra tramortita e quando mi alzai da terra osservai che mio marito era morto. L’arma adoperata è stata la scure ma le modalità del fatto non posso raccontarle perché io caddi a terra.
– Vostro marito impugnò la rivoltella?
Nego recisamente che mio marito abbia estratto la rivoltella.
Come faccia Santa ad essere certa che il marito non mise mano alla rivoltella è un mistero, visto che ha giurato di essere caduta a terra tramortita. Ma non per i giudici che le credono.
Continuando le indagini, prende corpo l’ipotesi che il movente del delitto non sia dovuto ai continui maltrattamenti subiti da Salvatore da parte di suo padre, ma che sia dovuto ai contrasti sorti in seguito alla scoperta della relazione illecita tra Salvatore e Pasqualina Belsito. Il testimone Francesco Petrone pare molto bene informato in merito:
Fu Biagio Caputo che durante il mese di gennaio mi disse che aveva saputo della tresca tra Salvatore e Pasqualina, che è sposata. Anche io spesse volte vidi Salvatore entrare in casa della donna anche di notte.
– E il marito?
Il marito tutto sapeva ma egli vedeva la convenienza di tale tresca perché Pasqualina riceveva parecchie regalie dal suo drudo e pertanto taceva e sopportava tutto, così mi raccontò Biagio, il quale aggiunse che il figlio gli aveva rubato un tomolo e mezzo di grano portandolo all’amante e che per questo motivo non poteva vedere più Salvatore
Pasqualina, interrogata, nega di avere avuto una relazione illecita con Salvatore e nega di avere ricevuto in dono oggetti alimentari od altro.
Ma ormai è tutto pronto per ritenere chiuse le indagini e decidere la sorte di Salvatore:
Da qualche tempo Salvatore Caputo aveva abbandonato la casa paterna per una grave tensione di rapporti che erasi venuta man mano formando tra lui ed il proprio genitore, il quale non tollerava che il figlio, poco dedito al lavoro, mantenesse una relazione illecita con una donna coniugata, cui faceva frequenti donativi di generi di prima necessità sottraendoli alla famiglia. Attesoché, se non può contestarsi che Biagio Caputo abbia inveito pel primo contro il proprio figliuolo, non può d’altronde attenersi alle dichiarazioni di quest’ultimo, il quale, conscio di aver calpestato quei doveri che gl’imponevano rispetto al proprio genitore, quand’anche costui fosse stato eccessivo.
Il 30 novembre 1921 la Sezione d’Accusa rinvia Salvatore Caputo al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per il reato di omicidio volontario.
Il dibattimento inizia il 12 aprile del 1923 e la difesa gioca subito una carta a sorpresa: la richiesta di perizia psichiatrica, basata sui motivi che indussero la Commissione Medica Militare a esonerare Salvatore dal servizio militare per ottusità della mente. Fin dall’infanzia si mostrò di facoltà mentali limitatissime; la sua intelligenza è rudimentale, ignora i principi elementari di etica e di religione.
La Corte ne prende atto e dispone la perizia. Salvatore viene trasferito nella Sezione Manicomiale del carcere di Napoli per essere osservato dai dottori Alfredo D’Urso e Rinaldo Lombardo. È il 30 giugno 1923.
I periti notano subito che non presenta due dei principali segni fisici di alterazione: non ha il tubercolo di Darwin e l’apertura delle braccia è minore dell’altezza del corpo. Ma soffre di frequenti cefalee, stanchezza, sonnolenza e sostiene di avere di tanto in tanto degli accessi convulsivi con perdita di coscienza che durano anche delle ore. Tutte le funzioni corporali sono perfette.
All’esame psichico, l’atteggiamento di Salvatore a prima vista riproduce all’ingrosso quello di un deficiente. Ma i periti sospettano che stia fingendo: mostra un’aria distratta ed indifferente ch’è tradita di tanto in tanto da un’espressione attentiva molto intensa o da un silenzio vigile e circospetto. Schiva abilmente lo sguardo dell’interlocutore e, come intontito, il suo occhio vaga spesso nel vuoto.
L’orientamento al luogo deve considerarsi perfetto per quanto egli dia risposte vaghe ed imprecise, così pure mostra di non orientarsi con esattezza sul tempo, scambiando giorni, mesi, stagioni, giustificandosi col dire di non saper leggere. Il processo percettivo si esplica con una relativa prontezza; a prima vista si ha l’impressione di un grave disturbo nella percezione per una ostentata lentezza e per lunghe pause nelle risposte, che spesso sono inconcludenti e paradossali.
Procedendo dalle nozioni elementari ai prodotti più complessi della mente è dato di rilevare stupide e grossolane incoerenze, facilmente dimostrate intenzionali.
Ma, d’altra parte, i periti riconoscono come Salvatore sia privo di ogni cultura, lontano dal consorzio umano e dalla sua stessa famiglia, menando una vita primordiale, dormendo su di un giaciglio in un pagliaio, il lato sentimentale della sua mente non ha avuto modo di svilupparsi, né sotto l’influenza dell’ambiente e dall’esempio, né sotto l’influenza dell’istruzione. Egli ha menato sempre una vita istintiva e primitiva, seguendo unicamente gl’impulsi della sua natura e senza freni della coscienza che rendono possibile la convivenza nella società.
Per ciò che riflette il carattere egli può considerarsi un individuo eccitabile, violento, impulsivo; piccolo, era litigioso e manesco con i compagni; sotto le armi, durante il suo breve servizio, ebbe la prigione per un contrasto violento con un altro soldato; in seguito, da borghese, fu condannato per lesioni, violenza carnale e rapina e nell’attuale sua reclusione nel Manicomio criminale è stato varie volte punito severamente per infrazioni disciplinari, percosse fra compagni, sottrazione di generi, maltrattamenti.
Ma forse, secondo i periti, non poteva che essere così per Salvatore, figlio di alcolista violento e amorale e di madre con parenti epilettici.
D’Urso e Lombardo cercano anche di provocargli artificialmente una delle convulsioni di cui Salvatore ha raccontato e per questo gli somministrano giornalmente una discreta dose di vino, senza tuttavia ottenere i risultati sperati.
Quindi, concludono i periti, Salvatore Caputo rientra nella categoria degli immorali costituzionali e propriamente in quella che il Penta chiamò dei Primitivi, i cui caratteri si avvicinano molto a quelli dei criminali nati. Essi appartengono a strati sociali bassi, che non hanno avuto favorevoli condizioni di sviluppo del sentimento morale e si ripetono immodificati nelle campagne attraverso generazioni e generazioni con gli stessi caratteri antropologici e psicologici.
Nel caso di Salvatore Caputo si assiste alla lotta fra due individui brutali e primitivi, in cui i reciproci sentimenti di padre e di figlio originariamente fiacchi per successive liti, se pure non si sono trasformati, certo sono del tutto annullati.
Qui ci troviamo dinanzi a un padre che accusa il figlio di fratricidio, che la Giustizia non riesce a provare; di un padre egoista, violento e manesco, ch’è indicato dalla moglie come causa della rovina della famiglia, che costringe il figliuolo a dormire in pagliaia e che, per parere non concorde di vari testimoni, è giudicato un individuo inumano; e d’altra pare di un figliuolo originariamente eccitabile ed impulsivo che per sua natura è insofferente ed inadattabile, senza educazione morale e senza conforto affettivo che, maltrattato e ferito per una richiesta che appare giusta, reagisce violentemente uccidendo con la prima arma che gli capita sotto la mano, senza orrore e senza pentimento.
Considerato in tal modo il delitto, al lume dello studio degli attori, perde ogni carattere di morbosità e rientra nella classe dei comuni reati di sangue, il cui movente è l’istinto brutale di malvagità.
E con quest’ultima affermazione i periti non possono che ritenere Salvatore Caputo sano di mente, mai andato soggetto a disordini delle funzioni intellettive, volitive e sentimentali. Un primitivo. Per queste ragioni egli è pienamente imputabile del reato ascrittogli. È il 20 ottobre del 1923 e il processo può riprendere. Dopo aver studiato a fondo la perizia psichiatrica, il Pubblico Ministero fa richiesta di modificare il capo d’imputazione da omicidio volontario a quello di lesione personale seguita da morte, attenuata dalla provocazione lieve. La difesa si associa, ma chiede la provocazione sia giudicata grave e, raggiunto l’accordo tra le parti, si procede in tal senso.
Il 19 gennaio 1924 la Corte dichiara Salvatore Caputo colpevole di aver provocato al proprio genitore una lesione tale da causarne la morte, dopo essere stato gravemente provocato e lo condanna a 10 anni di reclusione.
L’annunciato ricorso per Cassazione non ha esito per la mancata presentazione dei motivi del ricorso entro i termini di legge e il 16 febbraio 1924 la condanna diventa definitiva.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

 

Lascia il primo commento

Lascia un commento