MULO!

Francesco Aiazzo e Concetta Esposito Lamberti si sposano a Scigliano il 17 luglio 1896. Lui ha 19 anni e lei 17. Vivevano in pieno accordo e dimostravano di volersi bene, ma nei primi del 1904 sorsero quistioni fra i due per futili affari domestici e Francesco, adiratosi, fece qualche minaccia alla moglie, la quale se ne andò in casa dei suoi parenti, che la sera stessa ricondussero Concetta nella casa coniugale dove abitano con il padre di lui, anzi le rimproverarono che per una cosa da nulla non doveva uscire, essendo ordinario che fra marito e moglie si abbiano sempre delle parole. Rientrata, ritornò completamente la pace fra i coniugi i quali si baciarono. Ma poco tempo dopo accade che Concetta stringe amicizia con due vicine di casa, Pasqualina e sua figlia Eduarda, ritenute donne di malo affare e ricominciano le discussioni perché Francesco non vuole che Concetta frequenti quelle due, anche perché si dice che Eduarda sia affetta da qualche male venereo, e le intima di non riceverle in casa. Concetta, però, approfittando delle assenze per lavoro di suo marito, continua come se niente fosse e non servono le raccomandazioni del vecchio suocero Abele. Così sembra che stiano le cose tra Francesco e Concetta, ma c’è dell’altro: lui comincia a nutrire dei sospetti sulla condotta di sua moglie, forse ha un amante!
Francesco si sforza per trovare una prova che gli dia la certezza del tradimento, ma prove non ce ne sono. Allora comincia a sospettare che l’amicizia con le due vicine serva solo a coprire la tresca: è in quella amicizia che sicuramente si nasconde la prova, pensa. Ma se, volendo proprio essere più sospettosi di Francesco, è lecito avere dei dubbi, nasce un piccolo problema: chi è o potrebbe essere l’amante di Concetta?
Francesco sa che Eduarda ha delle relazioni illecite con un tal Alaggia Vincenzo, un muratore di Lauria in provincia di Potenza che da anni si è stabilito nella frazione Calvisi di Scigliano, e non gli ci vuole molto per sospettare che i due – pretesi – amanti si servano di Eduarda e della madre come mezzane: ufficialmente Alaggia se la fa con la donnaccia, ma sotto sotto se la fa con sua moglie. Tutto quadra. Comincia a far caso a cose apparentemente senza importanza e così un giorno di luglio, mentre sta zappando nel suo orto presso il convento dei cappuccini, vede passare Alaggia il quale prima si ferma presso la casa di un tal Gallo, attaccata alla sua, e poi continua a camminare e incontrata tal Sacco Franceschina si ferma a parlare. Dopo poco Alaggia se ne va ma la Sacco lo chiama ad alta voce “mastro Vincenzo!” ed egli ritorna indietro. Francesco dall’orto vede distintamente la porta di casa sua e nota che sua moglie, sentito quel “mastro Vincenzo!”, esce sul pianerottolo della scala, guarda verso Alaggia e, prima che questi si allontani, fa una mossa che a lui proprio non piace. Se non è una prova, poco ci manca, per lui. E che dire del fatto che da questo momento Alaggia comincia a dimostrargli indifferenza? E che dire, ancora, di quanto accade la sera del 30 dicembre 1904 quando, inaspettato, rientra al tramonto dal lavoro che sta facendo in un paese vicino? Accade che, invece di entrare in casa, si ferma sul pianerottolo per quasi tre quarti d’ora per accertarsi se sua moglie lo tradisce. Appena suona la campana dei cappuccini che segna un’ora della notte, sente sua moglie che sale nella stanza superiore e mette a letto la bambina più piccola, appena 4 mesi, mentre di solito la tiene in cucina fino a che non va a letto. Proprio in questo momento, a una certa distanza, sente cantare una canzone ed immediatamente dopo un lungo fischio che gli pare un segnale convenuto, tanto più che era un fischio di ritirata. Ma ormai è buio e Francesco, stando ancora sul pianerottolo, vede un individuo avvolto in un mantello che, pian piano, si avvicina, si ferma sotto la finestra di casa, proprio accanto a dove si è nascosto, sta fermo quattro o cinque minuti e poi si allontana, proprio mentre Eduarda e sua madre si affacciano sulla porta della loro casa con un lume in mano e Francesco, in quel debole bagliore, crede di riconoscere, dalla statura e complessione dell’individuo, proprio Vincenzo Alaggia! Può bastare. Rientra a casa e non dice nulla, né nulla fa capire alla moglie, tanto più che con lei ha rotto ogni relazione fin dal mese di luglio.
Sono cose evidentemente risibili, ma pare proprio che facciano salire la sua gelosia al livello di guardia. La goccia che fa traboccare il vaso, ciò che gli sembra la prova provata della tresca tra Concetta e Vincenzo, accade il primo marzo 1905 quando, rientrato dal lavoro, trova sul tavolo una busta indirizzata a lui e spedita da Scigliano stesso il giorno prima. Tirati fuori i due foglietti che vi sono contenuti legge:
Caro signore
Questo te lo mitti alla parte che sai, così potrai meglio natichiare quando camini.
Hai capito? Mulo hai capito?
Ed è un colpo. Ma è nel secondo foglio l’offesa peggiore, la spiegazione dell’aggettivo “questo”: un membro maschile in erezione, ecco a cosa si riferiva la frase del biglietto!
Basta! Adesso è troppo! Chi, se non Vincenzo Alaggia, può avere avuto l’ardire di chiamarlo Mulo, cornuto? Come mai sua moglie passa da una stanza all’altra mostrandosi furiosa e dicendo “Adesso dovrà finire”? Francesco capisce che deve agire subito per lavare l’onta del disonore.
La notte la passa in piedi ad elaborare un piano per uccidere tutti e due gli adulteri, poi la mattina torna, come se niente fosse, al lavoro e sta fuori casa un paio di giorni. Ritorna a casa la sera di sabato 4 marzo e si comporta normalmente.
La domenica mattina esce di casa e va davanti la chiesa di San Giuseppe. Si siede su un muretto e pensa a tutta la situazione mentre intorno a lui capannelli di uomini discutono del più e del meno. Davanti alla chiesa arriva anche Vincenzo Alaggia che lo saluta e si siede, anche lui pensieroso, sullo stesso muretto, poi, dopo un po’, si alza e si avvia verso la frazione Calvisi in compagnia di altre persone.
Francesco si sente ribollire il sangue, si alza e segue l’avversario. Poco oltre l’abitato il gruppo di persone si ferma, Francesco nota sul ciglio della strada un contadino che ha in mano un’accetta e gliela chiede in prestito. L’altro, ignaro di tutto, gliela porge pensando che gli serva per tagliare un arbusto e farne un bastone. Francesco, con l’accetta in mano, si avvicina al gruppo di persone, afferra Vincenzo per il bavero della giacca e gli dice a muso duro:
Quando mi hai conosciuto che io sono mulo? Me li hai messi tu i ferri?
Io, caro mio, non so nemmeno come ti chiami, portami avanti chi te lo ha detto! – gli risponde altrettanto duramente Vincenzo.
Francesco, senza ribattere, alza il braccio armato e vibra un potente colpo a Vincenzo, ma fortuna vuole che uno dei presenti riesca a deviare il colpo e Vincenzo rimane illeso. Tutti si lanciano addosso a Francesco e lo disarmano, evitando altri guai. Ma ormai il lume della ragione gli si è spento e, liberatosi dalla stretta, caccia dalla tasca un coltello a serramanico e si lancia contro l’avversario. Anche questa volta, però, riescono a fermarlo e lui, furioso, si incammina verso il paese.
In questo frattempo, da una finestra della caserma dei Carabinieri, i militari Bonaventura Anzoino e Ilario Pinto notano il trambusto e immediatamente accorrono sul posto e Vincenzo Alaggia racconta loro l’accaduto.
– Accompagnateci a Diano e indicateci questo Aiazzo Vincenzo – i due Carabinieri e qualcun altro tornano indietro e si dirigono verso la casa di Aiazzo. Arrivati davanti alla chiesa di San Giuseppe – in tutto sarà passata circa mezz’ora – vedono scendere da una stradina laterale Francesco con una doppietta in mano.
– È lui! – urla Vincenzo.
Francesco, da parte sua, appena scorge il suo nemico che sta camminando un paio di passi dietro ai Carabinieri, spiana il fucile e fa partire un colpo che, fortunatamente, va a vuoto
Fermo! Fermo! – gli intima il Carabiniere Anzoino il quale, insieme all’altro Carabiniere, fatti tre o quattro salti gli sono addosso. Anzoino lo disarma e Pinto gli applica i ferri, evitando così che il malintenzionato esploda il secondo colpo.
Quando ormai è al sicuro in caserma e i Carabinieri stanno cominciando a interrogarlo, si avverte un vocìo sempre più forte intorno alla caserma. Il Carabiniere Anzoino esce sulla strada e la gente gli dice di andare subito a casa dell’arrestato perché l’anziana zia dei coniugi Aiazzo sta urlando da una finestra che sua nipote è morta!
Concetta è riversa a terra in un lago di sangue. I Carabinieri non possono non notare che, siccome è domenica, si era vestita a festa, indossando un abito di seta color crema, un paio di stivaline senza calze e una sottogonna di lanettina di cotone color caffè. Ha un piccolo taglio sotto il mento e un’altra ferita nella zona sopraclavicolare destra, dalla quale ancora fuoriesce del sangue. È quella la ferita mortale: la lama, sfiorandole il mento, è penetrata al di sopra della clavicola in senso leggermente obliquo scendendo fino alla prima costola di destra e recidendole di netto l’arteria succlavia e intaccandole il grosso tronco arterioso brachiocefalico. Lo stesso tipo di colpo che si dà ai maiali per ammazzarli e che provoca una morte praticamente istantanea.
La motivazione che Francesco offre per spiegare come è arrivato a combinare tutto ciò è racchiusa nella parole contenute nella lettera anonima, anzi, in una sola di quelle parole: Mulo!
Poi spiega le modalità del barbaro omicidio:
Ritornai in casa; appena arrivai alla prima stanza incontrai mia moglie e senza parole l’afferrai, estrassi un coltello che tenevo in tasca e glielo immersi nella gola… cadde rimanendo cadavere
Come si fa con i maiali, appunto.
Vincenzo Alaggia nega di avere mai avuto rapporti con la povera Concetta, né intimi, né di amicizia:
Io nemmeno conosco di vista la moglie di Aiazzo e non ho fatto nemmeno caso a lei se qualche volta, passando davanti a quella casa per andare da Eduarda, la quale è notorio che concede dei favori sessuali, si sia affacciata sulla finestra o sulla scala esterna.
– Vi è mai capitato di andare a cantare canzoni a Eduarda vicino alla casa di Aiazzo?
Io di notte non sono mai uscito per cantare canzoni per le vie, tanto meno poi a Diano che è una frazione diversa da quella dove io abito, che è Calvisi e di notte non mi sono mai fermato sotto casa di Aiazzo.
– Avete scritto voi questa lettera?
Io non ho mai scritto delle lettere anonime all’indirizzo di Aiazzo, né avevo ragione di farlo, potete confrontare il mio carattere con quello della lettera. Certo io sono una persona per bene che debbo lavorare e non mi diverto a fare simili scherzi!
– Cosa intendete fare per le aggressioni di stamattina?
Per il mancato omicidio commesso dall’Aiazzo contro di me espongo formale querela, anche per giustificare presso di lui e del pubblico se io lontanamente abbia commesso qualche mancanza verso l’Aiazzo per la quale si sia deciso di attentare alla mia vita.
A Diano sono furibondi contro Francesco Aiazzo perché tutti sanno che sua moglie era una donna incapace di tradire, che badava solo a crescere i figli nel miglior modo possibile e lui non avrebbe mai dovuto minimamente sospettare di Concetta.
Sul fatto che non si tratta di delitto d’onore dubbi non ne esistono e, in attesa di chiudere l’istruttoria formalizzando le accuse, Francesco viene trasferito nel carcere di Cosenza. Qui comincia un’altra storia: Francesco sembra essere impazzito.
Cosenza, addì 11 Ottobre 1905
Direzione delle Carceri Giudiziarie
Ufficio del Medico-Chirurgo
Porto a conoscenza di V.S. che il detenuto Aiazzo Francesco, affetto da mania con delirio di persecuzione, è in tale stato sovraeccitazione da doverlo tenere sempre con il cinto di sicurezza, onde evitare possibili pericoli.
L’invio dell’Aiazzo in Manicomio sarebbe l’unico rimedio consigliabile.
Lo stesso tipo di lettera si ripete il 15 dicembre successivo e solo adesso il Presidente della Corte d’Assise dispone il ricovero di Francesco nel manicomio di Girifalco perché sia sottoposto a perizia psichiatrica ed, eventualmente, curato. Ad occuparsi di lui sarà il direttore del manicomio, dottor Romano Pellegrini. È il 29 gennaio 1906.
Abbiamo tentato tutte le vie per scrutarne i più profondi segreti, lo abbiamo tenuto solo e l’abbiamo messo a vivere con gli altri compagni di sventura, non lo abbiamo perduto di vista né di giorno né di notte, lo abbiamo sottoposto a lunghi e ripetuti interrogatorii, a minuziosi e pazienti esami, gli abbiamo permesso di scrivere liberamente ai parenti, abbiamo cercato di accontentarlo in tutto ciò che domandava e che i regolamenti ci consentivano di concedere. Oggi siamo al caso di giudicarlo e di dare il nostro parere, secondo scienza e coscienza. Così il dottor Pellegrini esordisce nella parte della perizia dedicata all’esame psichico di Francesco Aiazzo.
Poi continua
Il contegno dell’Aiazzo durante la sua dimora nel Manicomio si può dividere in due periodi.
Nel primo, che fu della durata di circa tre mesi, egli si presentava a noi come malato e, per parlare con maggiore proprietà di linguaggio, cercava di dar ad intendere a noi di essere malato. Sicché lo vedevi sempre solitario, chiuso in sé stesso, meditabondo e cupo; fuggiva la conversazione, rispondeva a stento alle domande e lo si vedeva quasi abitualmente in un atteggiamento di corruccio, di sdegno e di sorda minaccia. Bastava che un compagno di sventura gli si avvicinasse e lo toccasse perché egli reagisse e per ben due volte dovette accorrere il personale di custodia. Con i superiori il suo contegno fu sempre rispettoso ed umile, mai davanti a loro un atto men che corretto, mai una parola men che propria. Si lamentava spesso d’insonnia benchè i suoi compagni di camerata e gl’infermieri di guardia accertassero che egli riposava saporitamente tutta la notte. Accusava dolori di testa, disturbi interni, come se uno spillone attraversasse il suo cavallo e domandava medicine per trovare un po’ di refrigerio, un po’ di quiete al suo spirito sconvolto e travagliato.
Non si mostrava, però, nell’esaminando né affievolimento dell’attenzione, né rallentamento nell’esposizione delle idee che, anzi, il giudicabile stava molto attento alle nostre interrogazioni e rispondeva coerentemente. Non si osservavano in lui i fenomeni fisici che si osservano sempre nei melanconici, quale egli forse cercava di farsi credere a noi.
Questo contrasto fra lo stato fisico dell’Aiazzo ed i fenomeni subbiettivi che accusava, ci fecero sorgere il sospetto che egli fosse un individuo normale e cercasse d’ingannarci per essere salvato dalla galera.
Il secondo periodo. Da un po’ di mesi dice di sentirsi meglio: le cure avute (pillole di mollica di pane) hanno contribuito alla sua guarigione. Desidera che si faccia presto la causa e si raccomanda al Perito per essere presto sbrigato. Non può più vedersi in mezzo ai pazzi, soffre troppo vivendo in loro compagnia. È rassegnato a tutto ciò che può avvenire, certo che se egli ha ucciso la moglie, lo fece senza comprendere ciò che operava. Anche nel secondo periodo mostrasi poco socievole; non ha acquistato confidenza con alcuno e non è entrato nella intimità nemmeno del personale di vigilanza e di custodia; di poche parole, non cerca la conversazione, preferisce passeggiare a solo, tollera le eventuali molestie dei compagni di sciagura, è ubbidiente, sempre rispettoso e senza soverchie pretese. Cura la pulizia della persona e dell’abito, si uniforma alla disciplina ed ai regolamenti dell’Istituto, mostrasi sempre composto negli atti e corretto nei discorsi. Con questa scarsa sintomatologia per il dottor Pellegrini è difficile diagnosticare una qualsiasi forma di malattia mentale.
Una nevrosi classica? Certamente no perché non ci sono segni di stati crepuscolari della coscienza appartenenti a questa forma morbosa.
Un caso di epilessia? Nemmeno: in nessun atto noi troviamo nello svolgimento del reato che ci porti con la mente a supposizione di raptus impulsivo esplicatisi con scariche motorie ripetute ed automatiche, come spesso si verifica nel determinarsi dell’impulso in un epilettico invaso da morboso furore.
Che l’imputato fosse stato sorpreso da una di quelle forme psicopatiche tanto comuni a verificarsi nei detenuti e che gli autori hanno descritto sotto il titolo di delirio dei carcerati? No. Anche ad ammettere questa ipotesi, la patologia si sarebbe manifestata dopo il delitto e non nell’atto di commetterlo e, d’altro canto, non si sono nemmeno manifestati i segni caratteristici di questa forma di delirio come l’idea persecutoria che campeggia fenomeni allucinatorii a contenuto ostile impersonati in guardie carcerarie, poliziotti, ecc.
Pellegrini non prende nemmeno in considerazione la paranoia in quanto che tale malattia avrebbe continuato e si sarebbe aggravata nel tempo.
E se niente di tutto ciò è presente nella mente di Francesco Aiazzo non resta che una sola via da percorrere: dimostrare che la pazzia dell’Aiazzo è una pura simulazione.
Pellegrini snocciola una serie di questioni per suffragare la sua tesi: In carcere simulò la pazzia, la forma più volgare, l’eccitamento, per essere mandato in Manicomio. Qui, sapendo di avere a che fare con persone più pratiche delle malattie mentali, lasciò l’agitazione e cercò di simulare una forma depressiva, melanconica. Ma per ciò si è scoperto che la sintomatologia manifestata da Aiazzo è esattamente l’opposto di quella che dovrebbe essere in un depresso: andò ogni giorno migliorando in colorito e nutrizione, conservò sempre ottimo appetito ed ebbe sonno placido e regolare. Accenno di volo alla guarigione ottenuta mercé le pillole di mollica di pane.
E quindi conclude: Per noi l’Aiazzo Francesco non è nell’attualità, né fu mai, alienato: egli uccise la moglie e tentò di ammazzare l’Alaggia per vendicare il suo onore, a suo giudizio, calpestato ed offeso; nel momento di commettere il reato era in pieno possesso delle sue facoltà mentali.
Con questa diagnosi le porte del manicomio di Girifalco si aprono per Francesco Aiazzo e quelle della galera rischiano, per lui, di chiudersi alle sue spalle per il resto della vita.
L’11 giugno 1908 il dibattimento presso la Corte d’Assise di Cosenza si apre con la convocazione, chiesta dal Pubblico Ministero, del dottor Pellegrini e dei dottori Felice Migliori e Francesco Valentini, chiamati a confermare la penale responsabilità dell’imputato. La difesa, coordinata dall’avvocato Pietro Mancini, cita i dottori Samuele Gabriele e Francesco Sicoli per confutarla. Il Presidente della Corte ne aggiunge altri due per conto suo, Angelo Cosco e Cesare Elia. Una specie di super perizia da tenersi direttamente in aula. Ma salta tutto per ben due volte in quanto il dottor Pellegrini invia dei certificati medici e non si presenta. Va meglio al terzo tentativo, ma siamo ormai al 2 dicembre. Dopo mezz’ora di discussione i periti raggiungono un accordo e Pellegrini si incarica di riferirne il risultato: Aiazzo non è attualmente, né fu mai, malato di mente: egli però sortì da natura e temperamento cretistico, iperstesico, impulsivo, orgoglioso; la gelosia, in un soggetto come l’Aiazzo, agendo come passione morbosa ed indebolendo i suoi poteri critici lo ha trascinato al delitto. Forse quel gerundio, indebolendo, sarà la sua salvezza dall’ergastolo.
Il 7 dicembre è il giorno della sentenza. La giuria nega che ci sia stata premeditazione e ritiene che Aiazzo, nel momento in cui scannò sua moglie, non commise il fatto nell’impeto d’ira o di intenso dolore determinato da una ingiusta provocazione, ma versava in istato di infermità di mente per cui la coscienza o la libertà dei propri atti era tale da farne scemare grandemente l’imputabilità, senza escluderla. Per quanto riguarda il secondo capo d’imputazione, il tentato omicidio di Vincenzo Alaggia, la giuria ritiene, anche in questo caso, che non ci fu premeditazione e che agì nelle identiche, scemate capacità mentali. Tradotto in cifre fanno 16 anni di reclusione tondi tondi.
La Suprema Corte di Cassazione, il 6 maggio 1909, rigetta il ricorso di Francesco Aiazzo e la pena diventa definitiva.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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