LA MAGARÌA

Dai primi di aprile del 1924 la famiglia di Giuseppe Roppo Valente è costretta a letto nella propria casa in contrada Carpinetta di Aiello Calabro perché colpita da broncopolmonite influenzale. A prendersi cura di Giuseppe, di sua moglie Angela e dei due figli con loro conviventi, Carmine e Salvatore, sono essenzialmente due vicini di casa, Rosario Caputo e sua moglie Giuseppina, i quali portano loro verdura fresca e latte appena munto e questo nonostante in passato ci fossero stati dei forti contrasti tra le due famiglie a causa di una controversia per qualche centimetro di terra rubato ora dall’uno, ora dall’altro lungo il confine tra le due proprietà. Qualche volta ci scapparono anche dei cazzotti e delle bastonate, ma poi la controversia fu risolta pacificamente e tra le due famiglie tornò l’amicizia.
Il 12 aprile 1924, purtroppo, le condizioni del diciassettenne Salvatore si aggravano e nel giro di qualche ora il ragazzo muore. Anche il capofamiglia sta malissimo, tanto da non poter vegliare il figlio e, addirittura, devono cambiarlo di camera per lasciare più spazio alle visite di lutto, facendolo salire in una camera del primo piano. Arriva anche Fortunata, sorella di Angela, per dare una mano a Rosario e Giuseppina, che si prodigano nell’aiutare la sventurata famiglia. Giuseppina, addirittura, rischiando il contagio cambia anche le lenzuola dei letti, mentre Rosario somministra, come al solito, un bicchiere di latte fresco al resto della famiglia. Poi cala la sera e la famiglia Roppo Valente resta da sola a vegliare il figlio morto.
– Secondo me c’è qualcosa di strano… – dice Giuseppe con un filo di voce.
– Cosa? – fanno gli altri tre all’unisono.
– Secondo me compà Rosario ha messo qualcosa nel latte e adesso moriremo tutti… da quando stiamo bevendo quel latte stiamo peggiorando…
– Una magarìa? Uhm… forse hai ragione, deve essere per forza il latte a farci stare male…
– Lui fa l’amico ma ha aspettato tutto questo tempo per vendicarsi delle palate…
Così, più Giuseppe, Angela, Carmine e Fortunata fanno riaffiorare i vecchi rancori sopiti, più si convincono che Rosario e Giuseppina hanno fatto qualche magarìa che, inevitabilmente, li porterà tutti nella tomba. Bisognerebbe fare qualcosa e farla in fretta prima che sia troppo tardi.
È l’alba del 14 aprile, le condizioni di Giuseppe si sono aggravate e durante la notte, a stento, è ritornato nel letto del piano terra. È qui che Gennaro Bennardo Ciddio lo trova insieme alla moglie, al figlio Carmine e alla cognata Fortunata quando, prima di andare a zappare, va a fargli visita. Giuseppe, con un filo di voce gli chiede un favore:
– Gennarì… sto male… mi sento morire…
– Vado subito a chiamare il medico – si offre.
– No… vammi a chiamare compà Rosario ché gli devo parlare… fammi questo piacere…
Vedendolo in quelle misere condizioni, Gennaro esegue la volontà, forse l’ultima, di Giuseppe e dopo poco torna con l’amico. Giuseppe adesso è da solo nella stanza.
Compà… sto per morire… per favore vieni qui vicino che ti devo parlare all’orecchio…
Rosario gli si accosta e Giuseppe gli passa un braccio intorno al collo, lo tira verso di sé e gli sussurra all’orecchio:
– Adesso che muoio prenditi cura della mia famiglia, se sei capace…
La detonazione scuote i muri della stanza. Gennaro, terrorizzato, fa un balzo e poi scappa da quella casa,  mentre compà Rosario si accascia a terra senza un lamento.
Gennaro non fa che pochi metri di corsa, poi sente altre tre detonazioni provenire dall’interno della casa. Corre più veloce che può verso Aiello per andare ad avvisare i Carabinieri. Impiegherà più di un’ora e nel frattempo Giuseppina, richiamata dagli spari e dalle urla degli altri vicini, corre a casa Roppo per vedere cosa è successo, ma viene fermata e le viene vivamente consigliato di tornarsene a casa se non vuole che Giuseppe ammazzi anche lei.
Il Vice Brigadiere Francesco Grano e un Carabiniere si precipitano sul posto più in fretta che possono e, appena entrati, trovano Rosario steso bocconi ai piedi del letto, morto, e Giuseppe coricato con una rivoltella in mano. Non fa resistenza quando gliela tolgono. Grano estrae il tamburo e conta cinque cartucce cariche, poi dà un’occhiata al cadavere e conta tre ferite da arma da fuoco alle spalle.
– Che storia è mai questa? Perché avete ricaricato la rivoltella?
Ho ucciso stamani il Caputo Rosario perché sono pienamente convinto che la morte di mio figlio Salvatore e l’infezione grave generatasi nella mia famiglia è stata determinata da magarìe fatte da costui e dalla di lui moglie. Ritengo che le magarìe furono fatte nel latte che costoro mi portarono parecchie volte e siccome anche ieri sera il Caputo mi portò del latte, stamane, sentendomi più male, ritengo che costui abbia fatto pure qualche cosa
– Chi vi ha portato la rivoltella? – gli chiede il Vice Brigadiere, sospettando subito la complicità di qualche familiare o, forse, dello stesso Gennaro Bennardo Ciddio.
La rivoltella non mi fu data da alcuno, la tenevo sotto le coperte e quando entrò Caputo, che avevo pregato Gennaro di chiamarmelo, lo feci avvicinare per parlargli nell’orecchio esplosi un colpo di rivoltella… egli barcollò e cadde ai piedi del letto ed io, credendo che non fosse ancora morto, mi alzai dal letto, mi avvicinai al Caputo e gli esplosi contro altri tre colpi, indi mi rimisi a letto
– Ne sa qualcosa il qui presente Bennardo?
Gennaro, appena io esplosi il primo colpo, è scappato ed io dopo ricaricai la rivoltella perché avevo intenzione di uccidere la moglie del Caputo qualora fosse venuta
– Oltre a Bennardo c’erano altre persone presenti? I vostri familiari dove erano?
Quando commisi il fatto non vi era nessuno della mia famiglia, tutti erano sopra a letto… – poi aggiunge qualcosa che fa rabbrividire i presenti – io sto per morire e sono contento di avere ucciso Rosario, il quale è stata la causa della rovina della mia famiglia che si sta distruggendo per le magarìe fatte da lui. Mi addolora solo di non aver potuto uccidere la moglie perché anche costei ha dovuto farmi delle magarìe
– Bennardo vi ha aiutato? – insiste.
Per coscienza devo dire che Gennaro non aveva alcun sospetto su ciò che io avevo meditato di fare e si recò a chiamare Rosario, il quale era pure suo compare e si stimavano, credendo che io lo volessi realmente per raccomandargli la mia famiglia nel caso che fossi morto
La cosa che ora fa sospettare il Vice Brigadiere su un probabile coinvolgimento dei familiari di Giuseppe è la loro assenza dalla stanza dove Giuseppe è ormai in fin di vita: Angela e sua sorella Fortunata restano tutto il tempo in cucina e Carmine se ne sta tranquillamente coricato in un letto al piano superiore, così decide di lasciarli con il Carabiniere, mentre lui va a sentire cosa ha da dirgli la fresca vedova:
Eravamo in buoni rapporti ed avevamo prestato assistenza ed aiuto non solo a Giuseppe, ma a tutta la famiglia affetta da epidemia influenzale. Circa tre anni or sono mio marito ebbe una lite col Roppo per regolamento di confine ma poi tutto finì pacificamente e i due rimasero amicissimi. La sera del 12 scorso morì per polmonite Salvatore, figlio del Roppo, ed io, che andai più volte in occasione del lutto, sentii la di lui madre che piangendo diceva: “Figlio, io so chi ti ha ammazzato”. Non vi feci caso ma dopo che Giuseppe uccise mio marito pensai che in quella famiglia vi era la fissazione che causa della grave infezione era stato mio marito che aveva fatto delle magarìe, cosa assolutamente insussistente.
– Avete per caso notato se nei giorni precedenti l’omicidio Giuseppe Roppo aveva una rivoltella sotto il cuscino?
Quando morì il figlio di Roppo che stava nel vano soprastante alla stanza ove fu commesso il delitto, l’omicida si trovava nel letto a due piazze esistente in quest’ultima stanza ed io provvedetti ad aggiustare sia il letto esistente al piano superiore e sia quello del pianterreno ed in entrambi non vi erano armi sotto i guanciali – la donna si ferma, riflette qualche istante e poi aggiunge –. Il giorno 13 sera io fui nuovamente in casa del Roppo e notai che costui era passato nel letto del piano superiore e non so spiegarmi quindi la ragione per la quale l’omicida la notte dal 13 al 14 si sia deciso a ritornare nel letto esistente al pianterreno, pur essendo ammalato ed in pericolo di vita. Tale circostanza mi fa pensare che egli meditava il delitto e si decise a cambiare il locale per avere maggiore facilità
– E quindi, secondo voi, come ha fatto Roppo ad armarsi?
La rivoltella certamente gli fu data dai suoi famigliari, ritengo dalla moglie, dal figlio Carmine e dalla cognata Fortunata perché egli, che era in quelle condizioni di salute non poteva certamente alzarsi per armarsi, né l’arma poteva trovarsi sotto i guanciali. La moglie e la cognata, se fossero state in buona fede, dopo che Giuseppe esplose il primo colpo potevano entrare nella stanza, visto che erano nella cucina attigua, ed impedire che esplodesse gli altri tre colpi e invece rimasero passive, non chiamarono nemmeno gente e permisero che costui tenesse ancora impugnata la rivoltella che fu ricaricata, non so da chi di loro. Il delitto è stato concertato in famiglia e specialmente dalla moglie, dalla cognata e dal figlio Carmine.
Interrogati, la moglie, il figlio e la cognata di Giuseppe, negano di saperne qualcosa e negano anche di essersi trovati nella stanza a pianterreno quando, all’alba, entrò Bennardo. Negano anche quando vengono messi a confronto col testimone. Gli stessi asseriscono inoltre che l’omicida era sceso nel piano sottostante verso la mezzanotte del 13 da solo, cosa questa inverosimile perché, date le sue condizioni di salute, non poteva scendere le scale da solo, né i parenti avrebbero potuto permettere simile cosa. Su ciò non è stato possibile interrogare il Roppo siccome aveva perduto la coscienza, tanto che alle ore 5 ½di stamane (15 aprile, nda) cessava di vivere.
L’omicida è morto e molte altre cose non potranno essere chiarite. Per esempio, siccome non è possibile che Roppo si sia provveduto da solo della rivoltella e delle dieci cartucce e ciò pel fatto che, se pure avesse avuto la forza di alzarsi, il suo atto non poteva passare inosservato alle tante persone che continuamente lo assistevano e quindi costoro gli avrebbero impedito di fornirsi di un’arma con la quale, dato lo stato in cui si trovava, poteva anche suicidarsi, è da ritenersi che davvero il delitto fu concertato durante la notte dal 13 al 14 dall’ammalato e dai tre congiunti, tutti fissati che il povero Caputo faceva loro delle magarìe e che questi ultimi abbiano fornito all’ammalato l’arma omicida e quindi furono tutti e tre dichiarati in arresto quali complici. In realtà a finire dietro le sbarre per il momento è solo la cognata Fortunata, mentre la moglie e il figlio restano a casa piantonati per le loro gravi condizioni di salute.
A questo punto i tre cominciano a fare qualche timida ammissione e adesso dicono che è vero quello che Bennardo ha affermato e ammettono anche che Giuseppe era stato accompagnato nel piano sottostante da parenti che non ricordano ed aggiungono che quando il Bennardo si recò a chiamare il Caputo, l’ammalato li invitò di uscir fuori.
Dopo molti giorni dal fatto, quando ormai i due Roppo sono guariti e sono stati rinchiusi nel carcere di Cosenza, dove già si trovava Fortunata, tali Carmine Lepore e Geniale Vocaturo si presentano dai Carabinieri per raccontare dei particolari che aggravano notevolmente la posizione della fresca vedova di Giuseppe Roppo. Racconta Lepore:
La mattina del 14 aprile andai a far visita in casa di Giuseppe Roppo Valente e trovai Rosario Caputo a terra bocconi. Domandai a Giuseppe se il Caputo si sentisse male ed egli mi rispose che invece era morto essendo stato da lui ucciso perché serpente velenoso. Avvicinatomi, a suo invito, al letto, mi mostrò la rivoltella che prese sotto il guanciale. Io volevo ritirargliela per consegnarla alla Legge che ancora non era venuta sul posto. Egli quasi quasi me l’aveva data, ma la moglie, che era presente, si oppose dicendo che le occorreva ancora perché aspettava la moglie del Caputo che doveva pure uccidere
– C’era solo la moglie di Roppo nella stanza?
Era presente anche la figlia Carmela la quale nemmeno fiatò
Poi Vocaturo:
Giuseppe, con la rivoltella alle mani, mi disse di aver ucciso Caputo, suo nemico, senza spiegarmi altro. Il Roppo mi aggiunse di non far entrare nessuno della parte del Caputo, ma non posso spiegare se egli ciò disse per paura o perché voleva evitare di uccidere parenti del Caputo. Al discorso erano presente la moglie Angela, la figlia Carmela e un’altra figlia di cui non so il nome, le quali nulla dissero. Io, stando avanti la porta, mi accorsi che si avvicinava la moglie di Caputo e  impedii che entrasse in casa del Roppo
Ma Carmine Lepore dopo qualche giorno ritratta tutto e dice di avere fatto la precedente dichiarazione dietro incitamento della moglie dell’ucciso la quale, dopo avergli fatto bere del vino in una cantina di Amantea, lo indusse a tradire la sua coscienza. A questo punto è necessario mettere a confronto la vedova Caputo con Lepore davanti al Giudice Istruttore e le sorprese non mancano perché il testimone ritratta ancora spiegando:
Venni accompagnato da Eugenio Roppo Valente con il pretesto che dovevamo visitare i tre detenuti, se non che, giunti in Cosenza, mi pregò di aiutare i medesimi detenuti rendendo deposizione ben diversa da quella che avevo reso in precedenza. Io, francamente, annuii considerando che con gli arrestati mi legano rapporti di parentela, onde avete ben ragione voi, Giuseppina, nell’affermare che io ho mentito. In altri termini non debbo fare altro, in coscienza, che ratificare la mia prima dichiarazione
Le cose per Angela Roppo Valente si fanno serie e si fanno serie anche per sua sorella Fortunata la quale non regge più il peso della detenzione preventiva e tenta di suicidarsi e il suo avvocato, Luigi Vercillo, ne chiede la scarcerazione spiegando come la sua assistita si è trovata invischiata in qualcosa più grande di lei: Il cieco fato, materiato di pregiudizi, istinti, tradizioni, sentimenti affioranti dal fondo cupo di un’epoca oscura e lontana che domina la mente delirante e dolorante e provoca la selvaggia catastrofe che desta insieme terrore e pietà, si traducono nel processo in un miserevole e volgare complotto. Le condizioni disastrose del cognato, il bisogno e le insistenze le impongono di prestarsi all’assistenza e di vegliare la notte. E per questo la si arresta, si trascina per le carceri. Sorda, malandata, timida, rischia di complicare ancora maggiormente la tragedia.
Poi, da una serie di testimonianze, si comincia a capire che Carmine e Fortunata potrebbero davvero essere estranei ai fatti: Carmine, giurano in tanti, non si è mai mosso dal suo letto al primo piano, nemmeno la notte tra il 13 e il 14 aprile e Fortunata era arrivata in casa della sorella proprio il pomeriggio del 13 e aveva vegliato tutta la notte in compagnia di altre due persone; inoltre si accerta che la donna, nel momento in cui Giuseppe Roppo commise l’omicidio, non era in cucina con sua sorella Angela ma fuori di casa dove molti testimoni la videro. Adesso anche i Carabinieri, nei nuovi verbali di indagine, non nominano più i due, concentrandosi solo su Angela.
Dopo due mesi dall’omicidio accade un fatto increscioso: qualcuno spara dei colpi di fucile contro Giuseppina Vercillo, vedova di Rosario Caputo. I Carabinieri sospettano di Eugenio Roppo Valente, uno dei figli dell’assassino, e di suo zio Nicola Roppo Valente, li arrestano con l’accusa di tentato omicidio, ma si procederà solo contro Nicola perché contro Eugenio non ci sono prove.
Si arriva così al 24 settembre 1924 quando il Procuratore Generale formula le richieste alla Sezione d’Accusa: rinvio a giudizio per tutti e tre gli imputati con l’accusa di concorso in omicidio aggravato dalla premeditazione.
Il 30 novembre successivo la Sezione d’Accusa accoglie parzialmente le richieste della Procura e dichiara non doversi procedere nei confronti di Carmine Roppo Valente e di sua zia Fortunata per insufficienza di prove. Ad affrontare il dibattimento davanti alla Corte di Assise di Cosenza sarà la sola Angela con l’accusa di correità in omicidio con premeditazione.
Il 9 dicembre 1925 inizia il dibattimento e c’è subito un colpo di scena: il testimone principale dell’accusa, Carmine Lepore, non è comparso perché risulta trasferitosi in Sicilia, nessuno sa precisamente dove. Nuovi testimoni giurano che Giuseppe, che stava disturbato e dava in smania e pazzia, la notte (tra il 13 e il 14 aprile 1924, nda) scese giù con la mantellina mentre la moglie lo dissuadeva di scendere perché gli faceva male. E queste si che sembrano davvero delle magarìe!
Il giorno dopo, 10 dicembre, la Corte assolve Angela Roppo Valente per non aver commesso il fatto.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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