È il 1686, il tempo della semina del grano. Muzio Cerrigone e Giuseppe Preite, in quell’anno mastrogiurato di San Giorgio Albanese, sono convocati nel Palazzo Abbaziale dove risiede il Padre Primierano Agente Generale del Casale di S. Georgio Albanese.
– Dovete fare una cosa per me – dice loro, mentre i due si guardano con gli occhi sgranati.
– Co… comandate…
– Dovete andare a carcerare li bovi di Giovanni e Costantino Chinigò e li dovete portare a Corigliano – il tono è perentorio.
– Padre… non è che non vogliamo andarci… ma abbiamo paura delle scopettate che ci tireranno… magari ci andiamo di notte…
– E voi forse non le sapete tirare le scopettate? Forse voi alle scopette ci mettete palle di cera? – e mille altre parole.
Alla fine Cerrigone e Preite sottostanno al volere dell’abate e, insieme ad altri cinque Giurati di detto Casale, vanno dove i Chinigò stanno facendo lavorare gli animali, li sequestrano e si dirigono alla volta di Corigliano ma, quando fussero gionti nel Cozzo della guardia uscirono avanti Giovanni, Costantino Chinigò e Marzio Chinigò e volevano pigliarsi li bovi che havevano Carcerati. Subito l’una e l’altra parte si posero le scopette in mani et in quella Zuffa vi rimasero uccisi detti Costantino e Martio Chinigò.
Mentre gli uomini mandati dall’abate sono ancora impegnati con gli animali, Giovanni, l’unico Chinigò superstite, non perde tempo e se ne andò assieme con altri compagni in detto Casale e per dirittura si portarno alla Casa di detto Giuseppe testificante et l’uccisero quattro figli al medesimo testificante.
Giuseppe Preite non vuole continuare la scia di sangue e non si vendica, ma non passa tempo che l’abate manda di nuovo a chiamare lui e Cerrigone.
– Dovete uccidere Pietro Antonio Varibobba.
– Ma… perché?
– Sono fatti miei, dovete ucciderlo, questo è il mio ordine.
Questa volta tutto fila liscio e il poveretto ci lascia le penne senza altre conseguenze.
Passano un paio di anni e per Giuseppe Preite e Muzio Cerrigone i guai non sono ancora finiti: il duca di Corigliano fa sequestrare loro tutto ciò che possiedono come indennizzo per gli omicidi dei Chinigò e questa volta sono loro ad andare dall’abate per chiedere aiuto.
– Padre… il Signor Duca di Corigliano ci ha fatto sequestrare le robbe per causa delle scupettate, et homicidij commessi in persona di Costantino e Mutio Chinigò seguita de ordine vostro… vi preghiamo, aiutateci a liberarci da detta persequtione…
– Voi mai starete quieti in questo Casale, se non levarete la vita al Clerico Jacovo Minisci, e se l’ammazzate sono per voi dui cento scudi!
Ancora sangue? I due si guardano esterrefatti e alli quali promesse e parole dettili da detto Padre Abbate li risposero volerlo fare per tenerlo benevole, ma perché si temevano la Conscienza di non voler permettere simil homicidio hanno dato tempo al tempo conoscendo che detto Padre Abbate lo faceva per capriccio di voler far uccidere detto Clerico Jacovo.
Questa volta scelgono di non uccidere. Questa volta, è il 31 maggio 1690, vanno dal notaio Marco Antonio Leto di Rossano insieme a Tommaso Curto, a Emanuele Ferraro, al reverendo Giuseppe Nigro, a Fabio Romano e al clerico Onofrio Rogani e denunciano tutte le malefatte dell’abate.
Saprà la giustizia feudale del duca di Corigliano punire il mandante di questi omicidi?[1]
[1] ASCS, Atti notarili. Grazie alla dottoressa Maria Paola Borsetta che mi ha segnalato e trascritto l’atto originale, io non sono più capace, ho perso l’allenamento alla grafia del ‘600 e ‘700.
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