È la mattina del 14 marzo 1951. In contrada Princivallo di Mongrassano la quarantaduenne Pasqualina Cagnazzo sta lavorando in campagna, quando sopraggiunge suo marito, il trentottenne Paquale Petruso.
– Vedi come devi fare, ma devi prelevare tutto quello che c’è sul libretto di Marietta – le dice in tono minaccioso.
– E a che ti servono? Te li devi spendere alla cantina?
– Sono cazzi miei, preleva i soldi e dammeli!
– E come no! tremila e cinquecento lire li do a te! Manco se uscissi pazza te li…
Pasqualina non fa in tempo a finire la frase che il primo manrovescio la fa cadere a terra, poi sono calci e pugni che la lasciano stordita nel fango.
– Te l’ho detto, preleva i soldi e dammeli se no ti ammazzo, puttana che non sei altro! – le dice minacciandola coll’indice puntato come un’arma.
Pasqualina piange in silenzio. Non ce la fa più a sopportare il marito che per ogni nonnulla bastona lei e i figli più piccoli che sono rimasti in casa, costretti a lavorare come schiavi per pagare i vizi di Giuseppe. Non ha mai voluto seguire i consigli dei parenti e denunciarlo per maltrattamenti, ma ora sa che deve fare qualcosa per cambiare il suo destino. Torna a casa, raccatta le sue misere cose e quelle dei figli e tutti insieme se ne vanno a Mongrassano dove trovano ospitalità da sua cognata Palmina Coscione. Ci impiega quattro giorni a prendere la decisione che avrebbe dovuto prendere da anni, così va dai Carabinieri, ma non da quelli del paese perché poi si verrebbe a sapere subito ed è vergogna. Va alla caserma di San Marco Argentano, a pochi chilometri da Mongrassano e dichiara di voler denunziare il di lei marito o magari per ora sarebbe un’ottima cosa diffidarlo e specifica:
– I miei vicini di casa per quieto vivere non mi fanno da testimoni e pertanto non indico alcun testimone del trattamento che quotidianamente ho da mio marito.
Tre giorni dopo il Vicebrigadiere Vittorio Ruffo rintraccia Pasquale e lo convoca in caserma.
– Non è vero che io abbia mai percosso mia moglie, né mai l’ho ingiuriata. Piuttosto debbo dire che sia lei che i figli hanno le lingue lunghe e mi seccano e talvolta mi portano veramente sul punto di percuoterli.
– È stata qui in caserma per denunciarvi…
– Non so perché sia venuta in caserma a reclamare; penso che sia un po’ esaltata e che le piaccia fare della pubblicità…
– Ha detto che l’avete picchiata perché non ha voluto prendere alla Posta i soldi di vostra figlia Maria per spenderveli alla cantina.
– Si, le ho chiesto di prelevare i soldi di Maria ma al solo scopo di acquistare i mezzi di vita ed evitare di vendere della carne di maiale salata e si è rifiutata.
– E per questo l’avete picchiata… è piena di lividi dappertutto.
– Non è vero! Le ecchimosi che presenta sono state causate dal crollo della casa in seguito all’alluvione ultima.
Il Vicebrigadiere lo ammonisce severamente e annota che si tratta di un personaggio denunciato altre volte per reati contro il patrimonio e contro la persona e che è un tipo violento e vagabondo.
Pasquale se ne va furibondo. Gliela deve fare pagare amaramente.
È il pomeriggio del 22 marzo 1951 e Pasquale va a cercare sua figlia Nicolina a Cervicati, dove fa la persona di servizio.
– Dammi qualche soldo.
– Papà, non ne ho… ti ho dato cinquecento lire la settimana scorsa…
– E non hai proprio niente?
– No…
– Vabbè… – dice deluso, poi aggiunge – stasera vado a Mongrassano a prelevare tua sorella Maria e tuo fratello Italo per riportarli a casa e se non me li vuole dare…
– Papà, vengo con te e vediamo se fate pace, fammi venire con te… – lo prega, temendo che ci possano scappare altre botte per tutti.
– Tu non sei buona nemmeno a buttarti di un burrone… che pace ci devi far fare? Quella puttana mi ha denunciato e se non ritira la denuncia gliela faccio passare brutta!– e se ne va.
È già buio quando in casa di Palmina Coscione, lei, Pasqualina Cagnazzo e i suoi figli sono seduti davanti al fuoco mangiando qualcosa. All’improvviso la porta di casa si spalanca e, come una furia, entra Pasquale Petruso che li squadra uno per uno con aria minacciosa, poi si dirige verso suo figlio Carlo e, strattonandolo per la giacca gli dice:
– Buono appititto! Vieni fuori che ti devo perquisire! Dove ce l’hai la rivoltella?
– Lascialo stare! – urla Pasqualina lanciandosi addosso al marito per proteggere suo figlio.
– Vattene da casa mia se no vado a chiamare i Carabinieri! – urla Palmina la quale, vedendo che l’intruso insiste, subito si precipita fuori di casa per chiedere aiuto ai militari.
Marito e moglie si strattonano a vicenda per contendersi il figlio e finiscono sulla strada. Poi nelle mani di Pasquale appare un piccolo coltello e con questo vibra un colpo alla moglie, ferendola al braccio sinistro. Pasqualina cade a terra in balia del marito che le è sopra, pronto a colpirla di nuovo davanti ai figli immobilizzati dal terrore. Proprio in questo momento arrivano sul posto Raffaele Cagnazzo, fratello di Pasqualina, e sua figlia Caterina.
– Fermo! Che fai? – gli urla Raffaele afferrandolo per il petto ed evitando altri colpi alla sorella. Ma non ha fatto bene i conti con la furia cieca di suo cognato che lo ferisce col coltello al viso. Raffaele molla la presa per tamponare il sangue che sgorga dalla ferita e viene colpito nuovamente all’addome, proprio mentre sua figlia Caterina coraggiosamente si lancia su Pasquale. Adesso le attenzioni dell’aggressore sono concentrate sulla nipote che cerca di disarmarlo ed è un gioco da ragazzi per lui affondare la lama nella spalla della ragazza.
Sembra che sulla strada, per un attimo, tutti siano diventati delle statue: Pasquale col suo coltello in mano; Pasqualina a terra in un lago di sangue; Raffaele in ginocchio con una mano sul viso e l’altra sulla pancia; Caterina appoggiata a un muro; i tre ragazzini che si abbracciano per farsi coraggio nell’attesa che il padre se la prenda con loro. Poi un rumore di passi affrettati e la voce di Palmina Coscione che incita i Carabinieri a far presto; Pasquale si scuote dal momentaneo torpore e sparisce nel buio della notte.
Raffaele e sua figlia Caterina hanno solo ferite superficiali e non destano preoccupazioni al medico condotto Domenico Mangia. I timori sono tutti per Pasqualina dal cui braccio il sangue esce a fiotti e non si riesce a far niente per tamponare la ferita.
– Bisogna portarla in ospedale non c’è tempo da perdere, vado a prendere la mia macchina – dice il medico.
Ma non arrivano nemmeno a imboccare la Nazionale, che la donna perde conoscenza e così si decide di tornare a casa per farla morire sul suo letto ed evitare lungaggini burocratiche e spese aggiuntive. Pasqualina il suo letto non lo vedrà perché muore prima di arrivare a casa per l’emorragia causata dalla recisione dell’arteria omerale.
Omicidio aggravato ipotizza il Pretore di San Marco Argentano, il quale ascolta numerosi testimoni che raccontano di un uomo violento, quotidianamente violento.
Poi si presenta spontaneamente la madre di Pasquale, la sessantottenne Nicoletta Ribatti, che non si fa scrupolo di accusare suo figlio:
– Sono qui per deporre a carico di mio figlio e dichiaro che sin dalla sua infanzia è stato sempre un pessimo soggetto, poco amante del lavoro e snaturato anche verso i genitori. Mio figlio mi ha più volte picchiato, trascinandomi come un cane per le campagne di Furraro. Anche mio marito, ora deceduto, ha dovuto subire delle percosse e delle ingiurie. È un individuo dedito al vino, ozioso e vagabondo, un assiduo frequentatore di cantine ed in conseguenza di ciò, quando si ritirava a casa, per futili motivi percuoteva la moglie, che ora ha ucciso. Voglio augurarmi che la giustizia saprà dare la punizione che mio figlio merita per il delitto consumato.
Pasquale Petruso si costituisce nel carcere di Cosenza dopo 5 giorni, il 27 marzo, preceduto da una lettera del suo avvocato di fiducia Raffaele Baffa, con la quale si chiede che vengano urgentemente effettuati, se non si è già provveduto, accertamenti tecnici perché le cose non sarebbero andate come ricostruite dai testimoni. Non tanto per la difesa dell’imputato, ma soprattutto per il trionfo della verità e quindi della Giustizia.
E infatti Pasquale racconta tutta un’altra storia:
– Non è vero che io fossi dedito a maltrattare mia moglie. Con la stessa qualche volta abbiamo avuto qualche piccola discussione per futili ragioni, tanto che ella se ne andava di casa presso la cognata e poi spontaneamente ritornava sotto il tetto coniugale. Il fatto che ha dato luogo all’omicidio avvenne per circostanze del tutto banali. Siccome mio figlio Carlo da alcuni giorni non si era ritirato a casa e io temevo che egli, il quale era in possesso di una rivoltella, potesse fare male a qualcuno, la sera del 22 marzo, dopo averlo inutilmente cercato in paese, mi recai nella casa di mia cognata Coscione Palmina, dove sapevo che da alcuni giorni si trovava ospite mia moglie con i figli Carlo, Maria ed Italo. Infatti, appena giunsi in detta casa, trovai mia moglie, i miei figli e la cognata accanto al fuoco a consumare la cena. Salutai e mi diressi verso il Carlo allo scopo di vedere s’egli avesse in tasca l’arma per togliergliela. Lo afferrai per la giacca dal di dietro e lo frugai in tasca, ma il ragazzo mi sfuggì dalle mani correndo nell’altra stanza; frattanto mia moglie, mia figlia Maria ed Italo mi saltarono addosso: mia moglie mi afferrò pei capelli, mia cognata si mise a gridare dicendo di uscir fuori perché avevo portato lo scompiglio in casa, mio figlio Carlo, fermo sulla soglia dell’altra stanza, mi puntò contro la rivoltella facendo scattare quattro o cinque volte il grilletto senza che si verificasse, per fortuna, alcuna esplosione di colpi. Vedendo ciò dissi: “Calma, calma che non è successo nulla! Vai a chiamare tuo fratello che con lui potremo ragionare meglio!”. Dissi così perché nell’entrare in casa di mia cognata avevo visto entrare Cagnazzo Angelo nella casa di un vicino. Per ragioni di prudenza uscii fuori dalla casa di mia cognata la quale chiamò il Cagnazzo Angelo che sopraggiunse subito, seguito dalla figlia Caterina. Angelo, non appena si avvicinò a me incominciò ad assestarmi degli schiaffi e contemporaneamente tutti gli altri – ad eccezione di Palmina Coscione che alle grida di mia moglie: “Chiamate i carabinieri, chiamate i carabinieri!” si allontanò per far ciò –, mi furono addosso. Io fui costretto, per difendermi, ad inginocchiarmi per terra e quando mi vidi, come si suol dire in dialetto, “accappottato”, estrassi dalla tasca un piccolo temperino e cominciai ad agitare il braccio destro per divincolarmi e non so chi colpii.
– Ma se le cose sono andate così, come mai non avete riportato nemmeno un graffio? – gli contesta il Pretore.
– Io non riportai lesioni perché nessuno degli aggressori era armato, tranne mio figlio Carlo che aveva sempre la pistola in mano e faceva tentativi per farla esplodere senza però riuscirci. Poi, appena
potetti, me la diedi a gambe…
potetti, me la diedi a gambe…
– Non si ferisce solo con le armi… – osserva il Pretore, che continua – e poi i risultati dei rilievi, i testimoni e anche i vostri figli dicono cose molto diverse da quello che raccontate…
– I miei familiari sono tutti contro di me e han dato una versione del tutto differente dai fatti.
Una versione dei fatti che sembra davvero inverosimile ma che comincia a girare in paese, tanto da indurre il Brigadiere Giacomo Incorvaia, comandante la stazione di Mongrassano, a indagare per smentire tutto e taglia corto:
Si tratta di una voce messa in giro da persone del luogo, che evidentemente hanno interesse di prospettare fatti diversi da quelli che sono in realtà al fine di attenuare la responsabilità dell’omicida.
Anche il possesso di una rivoltella da parte di Carlo Petruso e la sua presunta frequentazione con ambienti malfamati, come sostenuto dal padre, viene smentita. Carlo è un bravo ragazzo, educato e rispettoso:
– Carlo Petruso si può dire che sia cresciuto a casa mia – afferma don Ferdinando Puzzo, proprietario terriero, presso il quale il ragazzo lavorava – e lo conosco per un bravo ragazzo. Egli dimostrava attaccamento al lavoro, al dovere, educato verso tutti e non mi ha mai dato delle seccature.
Chiacchiere e bugie. Pasquale Petruso è un bugiardo.
Intanto il Pubblico Ministero si costituisce parte civile nel procedimento penale nell’interesse dei figli minori della povera Pasqualina Cagnazzo e dello scellerato Pasquale Petruso e procede a fare la sua richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell’imputato per i reati di Maltrattamenti in famiglia, Omicidio aggravato, Lesioni aggravate continuate, Porto abusivo di coltello di genere vietato.
Il Giudice Istruttore, però, non è del tutto d’accordo con l’impostazione del Pubblico Ministero e scrive:
Che il Petruso la sera del 22 marzo si fosse recato presso la Coscione con propositi aggressivi, come era suo costume, non par lecito dubitare, ma le modalità del fatto non autorizzano però a far ritenere che egli avesse in animo di sopprimere la moglie o qualcuno dei figli. A rendere inattendibile una siffatta ipotesi sarebbe sufficiente considerare la natura dell’arma adoperata, un coltello di piccole dimensioni. Egli estrasse il coltello e vibrò il colpo al braccio della moglie quando questa, temendo il peggio, si interpose in difesa del figlio che il Petruso cercava di trascinare fuori; con le stesse modalità colpì la Cagnazzo Angelo e figlia di costui mentre entrambi cercavano di trattenerlo per impedire che inveisse ulteriormente contro la moglie che, colpita, si era accasciata al suolo. Le considerazioni sopra cennate rendono per lo meno poco verosimile l’ipotesi che il colpo che attinse la Cagnazzo al braccio fosse diretto al torace o all’addome.
La Cagnazzo Pasqualina decedette per anemia acuta in seguito ad emorragia e pertanto l’evento morte – involontariamente cagionato – va posto a carico del prevenuto come omicidio preterintenzionale.
È il 13 luglio 1951.
Il dibattimento inizia il 3 dicembre dello stesso anno e dopo due giorni di udienze la Corte dichiara Pasquale Petruso colpevole dei reati di Maltrattamenti, Omicidio preterintenzionale aggravato per il rapporto di parentela e di Lesioni volontarie semplici in pregiudizio di Cagnazzo Angelo. La Corte esclude l’aggravante dell’arma per i reati di omicidio preterintenzionale e lesioni e concede le attenuanti generiche per questi due delitti, ma addebita le aggravanti per gli altri reati perché l’imputato è recidivo. La Corte ritiene anche di non doversi procedere contro l’imputato per le lesioni causate a Caterina Cagnazzo per mancanza di querela e lo assolve dalla contravvenzione di porto abusivo di coltello per insufficienza di prove.
Fatti i dovuti calcoli, la pena è fissata in 17 anni di reclusione, più le pene accessorie e il risarcimento dei danni alle parti civili.
Angelo Cagnazzo viene nominato tutore dei nipoti, tutti minorenni.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
N.B. I nomi dei protagonisti sono stati cambiati
N.B. I nomi dei protagonisti sono stati cambiati
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