MEMORIE DI UN MORFINOMANE

Domenico
Tancioni nacque a Roma nel 1863 da una famiglia dell’alta borghesia. Suo padre,
Luigi, era agronomo e amministrava tenute di campagna presso ricche famiglie
romane; fu perciò amministratore, per esempio, del marchese Seniore Ricci
Parracciani e dei Canonici Regolari Lateranensi presso S. Pietro in Vincoli.
Uno zio paterno era prete, un altro medico, un altro ancora professore di
Chirurgia all’Università di Roma. Sua madre era Carlotta Di Mauro.

Arrestato per
l’omicidio del suo superiore diretto, Ingegnere Francesco Giunta, commesso il 23
maggio 1911 nella sede delle Ferrovie dello Stato di Cosenza, fu sottoposto a
perizia psichiatrica per determinarne la capacità di intendere e volere, essendo soggetto dedito al consumo di morfina.
(Leggi la storia dell’omicidio) Durante il periodo di osservazione scrisse
alcune pagine di appunti che consegnò agli specialisti, nelle quali ripercorre
le tappe della sua tossicodipendenza.
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La storia del
mio morfinismo è storia lunga, pietosa, che data dalla morte della mia
genitrice ed anche prima, a causa dei miei attacchi nervosi che mi producevano
emicrania di lunga durata, vomiti per intere notti. Non posso ricordare tante
fasi succedutemi di epoca inveterata. Mi veniva ricordato spesso da mia sorella
che le prime iniezioni mi furono praticate dal Dr. Oliviero Olivieri di Roma,
perché di tanti rimedi somministratimi nessuno era riuscito a calmarmi. Lo zio
Prof. Gaetano Tancioni, cui io ricorreva, mi aveva prognosticato che mai mi
sarei guarito, essendo la mia malattia ingenita ed un principio sui generis non
ancora definito scientificamente. Non ricordo le espressioni da lui enunciate
scientificamente, e che posteriormente mi venivano ricordate in parole
ordinarie dai miei cari. Certo ricordo che io ho sempre sofferto molto di
questo male, che mi obbligava a lasciare il lavoro e gli studi, specialmente in
seguito ad emozioni, a disagi di mia professione etc. dovevo andare molto cauto
nel mangiare, bere, nell’affrontare le giornate di cattivo tempo. I miei
superiori di Castrovillari mi compativano, da S. Fili a Cosenza fui trasferito
per motivi di salute. Sapevano forse che io ero morfinista eccessivo? Mia madre
era morta ed io profittavo di ricette, e poi senza ricetta, per procurarmi il
farmaco che mi era divenuto necessario. A Cagliari, esauriti i farmacisti, ricorsi
ad empori e me ne fornivano in grandi quantità, specie dopo la morte della B.
M. di mia prima moglie (Maria Manca di
Nissa e Villahermosa, nobile decaduta, nda
), morte che mi cagionò immenso
dolore. Non ricordo se io abbia dati segni allora di morfinismo, perché io ho
sempre cercato di nascondere l’uso della morfina, ma forse mia suocera Caterina
Sangiusti di Teulada, vedova Manca di Nissa, lo avrà saputo perché una
operazione di ascesso, ricordatomi sempre dalla cicatrice, ivi sopportai. Non
ricordo, non so se il mio superiore immediato Bulgarini della Direzione
Generale delle Carceri conoscesse il mio segreto. Da allora la morfina divenne
per me una necessità tale che sarei ricorso a qualunque mezzo per procurarmene.
Tornato in
Roma, dove rimasi fino a che non venni in Calabria, l’abuso continuò sempre.
Alla domanda “quanto ne prendeva?” non saprei rispondere. Ne spediva 10, 15
grammi per volta e mi bastavano pochi giorni; rammento di avere sofferto
parecchie operazioni di ascessi profondi ed estesi. Dormivo a lungo, anche
intere giornate; non badavo a procurarmi lavoro. ciò è quello che mi resta in
mente. Dovei ricorrere ad un concorso al Ministero dei Lavori Pubblici per
avere un posto e venni nominato tra i primi e assegnato al Genio Civile a Cosenza.
qua io mi facevo spedire la morfina da Roma; 
ma talora non venendo a tempo il pacco io dovea ricorrere ai farmacisti
e anzi il Dr. Domenico Serra, che mi curava, fu da me segretamente messo a
parte del mio male e cercò, tentò distogliermene. Mi sembra che me ne avesse
spedito qualche piccola quantità, ma non rammento bene. certo è che io
nuovamente ricevuto il pacco da Roma non ricorsi a lui perché quelle dosi mi
erano insufficienti ed io invece avevo bisogno di molte punture quotidiane e
notturne a dose alta per procurarmi un po’ di sonno e tranquillizzare le
irrequietezza che mi produceva la tardanza delle iniezioni. Dimenticavo dire
che durante la malattia lunga e dolorosa di povera mia Madre, i medici curanti
mi avevano imparato a praticarle continue iniezioni di morfina, di giorno, di
notte ed io spedivo e conservavo ricette di dose sempre crescente.
Ora che sento
la mente più limpida dopo il riposo ricordo che anche a San Benedetto Ullano
fui costretto a ricorrere al Dr. Comunale, signor Rossi, che osservato il mio
stato mi fornì più volte la morfina ed in quantità. Egli mi voleva bene ed
aveva di me grande stima. In Calabria ho sempre dovuto seguire l’abuso di
morfina.
Parecchie
iniezioni prima di coricarmi mi procuravano tranquillità e sonno ristoratore;
il mattino altre iniezioni mi assicuravano un vigore, non saprei come, per
andare al lavoro; ma nella giornata, prima di pranzo, prima di tornare al mio
ufficio nuove punture. Portavo sempre con me una boccetta e una siringa. Quando
dovevo assentarmi per giorni da Cosenza, e da altre sedi, portavo larga
provvista del mio medicinale; e d’inverno spesso mi è avvenuto di trovare la
soluzione satura e conglobata e di doverla scaldare per introdurla nell’ago. Se
per un accidente mi veniva a mancare ero costretto, soffrendo terribili accessi
nervosi, a tornare a casa. il mio carattere doveva divenire impulsivo; ma chi
ricorda che segni io offrissi del mio tormento?
Ricordo, come
un sogno, che il povero Giunta, dopo tornato dalla casa di salute, mi dicesse,
presso a poco, che egli si accorgeva dal mio stesso modo di discutere questioni
tecniche che io dovevo soffrire per mancanza di morfina. In Cosenza fui
operato, non ricordo in quale epoca, ma certo negli ultimi tempi prima di
andare in casa di cura, di un nuovo ascesso. Come al solito, io dovei tenere
celata la cagione della mia assenza dall’ufficio. Alla casa di salute dovei
tacere il lunghissimo periodo di abuso della morfina perché temevo che mi
ricoverassero. Interrogato, dissi che ero arrivato, se bene mi ricordo, ad 1
grammo e ½ al giorno, ma di tale interrogatorio molte cose mi sfuggono dalla
memoria.
Ora mi
sovviene un particolare. Uscito dalla casa di salute non mi congedai dal capo
Servizio temendo di fare cattiva impressione.
Lavorando a
Cosenza, messomi sotto la cura del Dr. Scola, io soffriva di insonnia al punto
da passare notti e notti senza prendere sonno. Di insonnia ne pativo anche
prima del morfinismo. Nonostante il Veronal che lo Scola mi spediva, la
nevrastenia cresceva; mi divisi dal letto coniugale… (Tancioni sposò a Castrovillari, in seconde nozze, Rosina Cozza di
Cosenza nda
.) All’ufficio non potevo tornare e rimasi non so quanto tempo
in casa.
Ripensando,
al Direttore della Casa di salute io tacqui il mio stato e l’inveterato abuso della
morfina, temendo che mi prendesse in cura. Il povero Giunta, che conosceva il
mio morfinismo, mi disse di curarmi senza preoccupazioni e per tutto il tempo
necessario. Egli (seppi in casa di salute stessa) aveva avuto un fratello
afflitto dalla stessa malattia e che fu obbligato a rimanere in casa di salute
mi sembra per 5 o 6 mesi. Ciò era notorio a tutto l’Ufficio. Io mi risolsi a
chiudermi in casa di salute solo dopo avere economizzato qualche migliaio di
lire e perché avevo promesso a mia moglie che avrei voluto guarire.
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Mi sono
potuto ricordare la via in Roma dell’allora farmacista che per molto tempo mi
ha fornito l’idroclorato di morfina. È la via Gioacchino Belli e allora era
l’unica farmacia di quella strada.
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Mi sono
sovvenuti (se potessi ricordarli tutti!) di qualche eccesso da me commesso
sotto l’influsso di questo veleno. In Roma, verso l’anno 1897 o 98 (?) senza
pensarci nemmeno due volte, veduti due rubini dal gioielliere Gravanzola
Domenico al Corso, entrai e li comprai, se bene ricordo, per 700 lire, mentre
io non disponevo allora che appena di un migliaio di lire. Le due pietre
preziose le feci incastonare insieme ad un brillante, che io avevo, in un prezioso
anello. Qualche volta mi è avvenuto di sbagliare casa; una volta per
combinazione invece di salire al mio piano, aprii la porta del Cav. Lombardo ed
entrai. Il signor Lombardo non aveva data la 2^ girata alla serratura inglese,
sicchè io penetrai fino alla camera da letto. All’oscuro intesi il moto di una
pendola ed allora mi accorsi che quella non era casa mia ed uscii inosservato
perché la famiglia Lombardo era immersa nel sonno.
L’impressione
che io riceveva, e tuttavia conservo, ad ogni più piccolo incidente che potesse
ferire il mio decoro, il mio onore, la mia suscettibilità, ed in specie la mia
dignità di professionista e di funzionario dello stato, era iperbolica. A
Mormanno detti in furia perché all’alba fu suonata una tromba presso la mia
camera. Di ciò potrebbe far fede il personale che in allora era alloggiato
nello stesso ex convento di Mormanno. Ricordo che c’era il disegnatore Bolondi,
i canneggiatori fratelli Salvaggio, tutti delle Ferrovie dello Stato. Al suono
della tromba io già ero pronto ad uscire in campagna, poi seppi o almeno mi fu
detto per tranquillizzarmi che era stata fatta suonare per destare gli altri ma
non per me. Io ne rimasi dolente perché lavoravo molto e non meritavo di essere
trattato come un soldato in caserma.
A Castrovillari
mi toccò un mattino di rampognare l’inserviente d’ufficio perché non aveva
voluto scendere le cassette cogli strumenti geometrici dall’Ufficio alla
carrozza che mi attendeva. Fui costretto a farle scendere da impiegati, e
partito con questi ultimi, scorsi l’inserviente Antonio che era sulla soglia di
un liquorista dentro Castrovillari. Così lo ripresi e credetti mio dovere farne
rapporto all’Ispettore Capo Giuseppe Galli, che era a Mormanno. Seppe dopo che
Antonio si era scusato col dire che era andato alla Posta, ma la Posta a quell’ora mattutina
era chiusa. All’infuori di questo caso non ricordo di avere mai fatti rapporti
contro il personale di ufficio, il quale mi rispettava e ritengo avesse una
particolare predilezione pel modo con cui lo trattavo. L’Ufficio di
Castrovillari potrebbe dare chiarimenti su questo incidente perché io rammento
chi stesse con me in quella circostanza.
L’Ispettore
Capo in S. Fili Cav. Pastore mi ha molto stimato, ma si rese conto dei miei
forti dolori alla testa. Egli, come mi disse dopo essere uscito dalla casa di
salute, sapeva del mio morfinismo.
Un effetto
che io risentiva, e aggiungo mi metteva spesso in imbarazzo presso subalterni e
superiori, si era la difficoltà di scendere e salire erte e pendii; io cercavo
di nascondere i capogiri cui andavo soggetto, ma ero obbligato a farmi
accomodare talora l’ascesa e più ancora la discesa con gradini e ripiani, a
raccomandarmi all’appoggio dei miei uomini (canneggiatori, portatori). In
automobile non mi era possibile andare perché oltre a venirmi meno la vista mi
sentivo come una soffocazione nel cuore. Anche in vettura a cavalli, se essa
partiva veloce pativo di turbamenti alla testa e chiudevo gli occhi. Di questi
effetti ne soffriva mia Madre.[1]


[1] ASCS, Processi Penali.

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