RUA DE BARBOSA 50 – RIO DE JANEIRO

Nel cortile – forse sarebbe meglio chiamarlo stallaggio, come ci raccontano alcune persone che ci hanno vissuto – di Rua de Barbosa N. 50 a Rio de Janeiro, nel 1891 ci abitano una quarantina di famiglie, alcune brasiliane, il resto di immigrati e tra queste alcune di cosentini. Di Torano Castello per essere più precisi. Ma qualunque sia l’origine degli abitanti del cortile, tutti hanno una cosa in comune: sono tra gli ultimi, sono dei morti di fame.
Il quarantaseienne bracciante toranese Antonio Feudo arriva a Rio nel mese di marzo del 1891 e trova alloggio in quel cortile con la moglie, Giuditta Serpa, e il figlio Andrea. Ci trova i compaesani Luigi De Paola, che fa il sarto, e Michele Sabato, bracciante come Antonio.
Luigi De Paola sa perfettamente che Giuditta è una donna pienamente libera che in paese ha già avuto molti amanti, cosa di cui il marito è consapevole nonostante qualche anno prima se ne fosse andato da casa per 5 anni, stizzito dalle voci dei paesani, e poi fosse tornato dietro la minaccia della moglie di intentargli una causa di separazione per ottenere gli alimenti.
Così, dopo un breve corteggiamento, Luigi e Giuditta iniziano una relazione illecita.
Nei primi giorni di giugno del 1891, dopo essere stato oggetto del dileggio di qualche abitante del cortile, Antonio intima a Giuditta di cessare la relazione con Luigi, ma lei rifiuta di ubbidire e lui la gonfia di botte. Non passa nemmeno una settimana che Antonio, tornato dal duro lavoro nei campi insieme al figlio, non trova più in casa sua moglie.
– Se ne è andata a casa di Luigino – gli dicono i vicini.
È troppo! Corre alla baracca del rivale e intima alla moglie di tornare con lui.
– Né mò e né mai!
Allora Antonio se la prende con Luigi.
– Disgraziato! Merda! Mi hai disonorato!
Ho già fatto i miei comodi con tua moglie e continuerò a farli e se parli ancora ti somministro una buona dose di bastonate – gli risponde, offendendolo ancora di più.
Antonio teme il rivale più giovane, più forte e anche possessore di una rivoltella, così se ne torna a casa con la coda tra le gambe, tenendosi l’offesa delle ultime corna, ma certamente più preoccupato per non avere più chi badi a fargli da mangiare e rammendargli i panni. Poi accade qualcosa che spariglia le carte.
La mattina del 13 giugno il figlio Andrea, rimasto col padre, cerca la sua camicia buona ma non la trova, come non trova più nessuno dei suoi pochi panni: tutto era stato sottratto dalla madre e dal De Paola. Infuriato, va dalla madre perché gli avesse dato quello che si apparteneva a lui, ma Luigi lo manda via in malo modo, chiamandolo anche figlio di cornuto mentre lo insegue col revolver in mano.
Andrea racconta tutto al padre che va su tutte le furie: passino le corna, ma rubare i vestiti del figlio per vestire Luigino è davvero una cosa sulla quale non si può passare sopra!
Per sicurezza si mette in tasca un coltello e si avvia sbuffando come un toro verso la baracca di Luigi. Lo vede, è all’ombra sotto una specie di veranda davanti alla porta. Anche Luigi vede lui e lo anticipa.
– Antò, non aprire proprio la bocca se no te la chiudo a calci.
– Mò mi hai rotto i coglioni e non ti temo più! – gli risponde con gli occhi iniettati di sangue – vieni fuori se hai coraggio!
Luigi, sicuro del fatto suo, non se lo fa ripetere due volte e i due sono uno di fronte all’altro nella polvere. Antonio mette la mano in tasca e tira fuori il coltello. Lo scatto della lama fa sorridere Luigi che fa per tirare uno schiaffo al rivale, ma Antonio è più veloce e gli infilza la mano protesa. Luigi è sorpreso, sgrana gli occhi e guarda il sangue che gocciola sulla terra, poi si lancia di nuovo all’assalto. Antonio sbuffa e quando l’avversario gli è addosso mette avanti la mano armata e la lama entra senza sforzo nel costato di Luigi, che ha appena il tempo di emettere un gemito prima di stramazzare  al suolo, morto.
– Ho visto tutto, non preoccuparti – gli sussurra Michele Sabato, che abita proprio lì accanto, mentre gli toglie il coltello dalle mani.
La Polizia arriva poco dopo e arresta Antonio. Gli danno un avvocato d’ufficio e dopo sei mesi di carcere preventivo arriva il processo: v’era lo Chef (capo) della Polizia, un presidente, due giudici, un pubblico ministero e i giurati. Il Pubblico Ministero chiese 20 anni di pena, i giurati lo assolsero. Antonio viene liberato seduta stante, ma deve tornare al carcere a prendere le sue poche cose e firmare il registro. Però il carcere è lontano e lui non ha, ovviamente, soldi addosso. Come fare? Per sua fortuna, ad assistere al dibattimento ci sono tutti i suoi compaesani che gli regalano qualcosa per prendere il tram e così Antonio torna a vedere il sole.
Pochi mesi dopo la moglie fedifraga Giuditta e il figlio Andrea muoiono e Antonio si risposa (è la terza volta) continuando a vivere a Rio. Viene arrestato di nuovo con l’accusa di tentato omicidio nei confronti di un figlio del vecchio e defunto rivale Luigi, ma è subito chiaro che si tratta di un’accusa falsa, fatta nel tentativo di fargli fare un po’ di carcere per vendetta.
A Torano Antonio ritorna nel mese di aprile del 1902, undici anni dopo l’omicidio di Luigi De Paola, quando ha 57 anni suonati. In Brasile non ha fatto fortuna ed è sempre il morto di fame che era, ma adesso è a casa e qualche giornata di zappa per dare da mangiare ai due figlioletti e a sua moglie riuscirà a farla.
Antonio però non ha fatto i conti con i parenti di Luigi, i quali vanno dai Carabinieri a denunciarlo per l’omicidio.
Il Brigadiere Giuseppe Guastadisegni scrive al Pretore ricostruendo per sommi capi la vicenda. Pur specificando che ha trovato alcuni testimoni che all’epoca dei fatti vivevano a Rio i quali, conoscendo tutti i fatti, giurano che Antonio Feudo è stato processato e assolto, lo denuncia per l’omicidio e rincara la dose sostenendo che bisogna procedere all’arresto dell’assassino perché si ritiene sicuro che se egli viene a conoscenza che è stato denunziato per l’omicidio commesso a Rio Janeiro emigrerebbe nuovamente. Con quali soldi riesce difficile da capire.
Il Pretore non perde tempo ed emette un mandato di cattura nei confronti di Antonio e i Carabinieri lo arrestano. Non nega niente: racconta tutto per filo e per segno e fa i nomi delle persone che hanno testimoniato e assistito al processo e sanno che è stato assolto.
Gli atti vengono trasmessi per competenza alla Procura del re di Cosenza e il Pubblico Ministero chiede subito la scarcerazione di Antonio perché, esistendo il fondato dubbio che in effetti l’imputato sia già stato giudicato da un legittimo Tribunale di uno Stato sovrano, non può essere arrestato per quello stesso reato. La Camera di Consiglio accoglie la richiesta e mette in libertà provvisoria l’imputato.
È ovvio che per avere la certezza dell’uno o dell’altro caso è necessario chiedere gli atti al Brasile e il Procuratore del re di Cosenza chiede, per via gerarchica, che sia espletata una Rogatoria all’Estero per richiedere questi benedetti documenti. È il 3 luglio 1902.
Poi sembra che tutti si dimentichino di questa faccenda e i mesi e gli anni passano. Precisamente passano 3 anni e 7 mesi fino a che, l’8 febbraio 1906, il Giudice Istruttore si decida a sollecitare la Corte d’Appello di Catanzaro affinché chieda al Ministero che fine abbia fatto la rogatoria. Pare che le cose stiano per sbloccarsi, rispondono da Catanzaro un mese dopo, citando la risposta dell’Onorevole Ministro: Per la sollecita esecuzione della rogatoria relativa al processo contro Feudo Antonio, imputato di omicidio, si sono rivolte nuove premure al Ministro degli Affari Esteri.
Le premure non vanno a buon fine e passano altri due anni prima di sollecitare ancora la pratica, ma la risposta è più o meno uguale alla precedente. Vedremo…
A furia di aspettare, molti testimoni sono passati a miglior vita e Antonio ha ormai 70 anni quando il 12 agosto 1915 riceve l’ennesimo mandato di comparizione per subire l’ennesimo interrogatorio, ma delle carte brasiliane non c’è ancora l’ombra.
Il fascicolo brasiliano, cosa ormai da considerarsi un vero e proprio miracolo, arriva alla Procura del re di Cosenza nei primi del 1917, quindici anni dopo la prima richiesta, ventisei anni dopo l’omicidio, dopo che l’Italia ha vissuto momenti eccezionali come la nascita del Partito Socialista, la sconfitta di Adua, l’omicidio di Umberto I°, il terremoto di Reggio e Messina, la guerra di Libia e quasi tre anni di Guerra Mondiale.

Ma adesso che le carte sono arrivate il processo si può finalmente tenere. Macché! La delusione è enorme quando si scopre che sono serviti tutti questi anni per arrivare alla conclusione che il processo a carico di Antonio Feudo non esiste negli archivi del Tribunale di Rio de Janeiro. Come mai? Boh!?

La Procura crede fermamente che le testimonianze siano state tutte sincere e credibili sul fatto che un processo contro Antonio Feudo si sia tenuto in Brasile e riconoscono che anche il fratello della vittima sa che il processo c’è stato e l’imputato fu assolto, limitandosi a dichiarare che i giudici americani erano caduti in errore perché ignoravano che la moglie dell’uccisore era una donna libera e che se ciò avessero saputo non avrebbero certamente assoluto.
Si, ma che fare? Il Procuratore non ha più dubbi e, il 21 giugno 1917, relaziona al Giudice Istruttore: Sommessamente ritengo che non sia il caso d’insistere con altra rogatoria per ulteriori ricerche, magari nei registri carcerai di Rio Janeiro – il Feudo pare indubbio sia stato arrestato, dato il lungo tempo occorso per conoscere l’esito della precedente rogatoria ed essendo imminente ad ogni modo la prescrizione dell’azione penale per il massimo decorso di tempo – trenta anni –.
 E infatti nessuno ha più voglia d’insistere davanti allo sfacelo della Guerra. La Sezione d’Accusa presso la Corte d’Appello di Catanzaro che deve pronunciarsi in merito, dichiara estinta l’azione penale contro Feudo Antonio per verificatasi prescrizione. È il 23 luglio 1917, ma per la prescrizione mancano ancora poco meno di quattro anni…[1]

 


[1] ASCS, Processi Penali.

Lascia il primo commento

Lascia un commento