ZIO GENNARO

È il 29 agosto 1951 e fa caldo. Dall’abitato di Montalto Uffugo, il quarantaseienne Bruno Ricchio sta andando nel fondo di suo suocero Giovanni Sanguillino in contrada Fazzano. Per strada incontra l’anziano Gennaro Caiazzo, un napoletano che, tornato dall’America con qualche dollaro, ha comprato un piccolo appezzamento di terra con una casetta nella stessa contrada stabilendovisi, e di due fanno la strada insieme
– Gennarì che mi dici, tutto a posto? – gli fa Ricchio
– Macché! Pare che non lo sai… è una guerra continua con mio nipote! – attacca Caiazzo col suo accento napoletano – La sai l’ultima che mi ha fatto? Ha raccolto i pomodori e li ha venduti a 15 lire al chilo e a me ha detto di averli venduti a 10 e mi ha fregato 5 lire al chilo! E non solo! Erano 67 chili e lui ha detto che erano di meno perché molti erano marci e mi ha fregato pure sul peso.
Bruno Ricchio si morde il labbro maledicendo il momento in cui ha rivolto la domanda all’amico e non risponde. Nemmeno il vecchio risponde e i due continuano a camminare in silenzio, scambiandosi un cenno di saluto quando, verso mezzogiorno, arrivano a Fazzano e si separano.
Ma chi è il nipote di Gennaro Caiazzo e perché il vecchio è convinto che lo stia fregando?
Abbiamo detto che Gennaro, tornato dall’America, si è stabilito a Montalto dopo aver comprato due tomolate di terra e una casetta agricola. Nel 1949, stanco di stare da solo a badare a se stesso dopo una vita di sacrifici, propone al venticinquenne nipote Giuseppe Caiazzo, figlio di un suo fratello, di trasferirsi a vivere con lui promettendogli terra e casa con l’intesa di prendersi cura di lui. Giuseppe accetta, si trasferisce in Calabria e comincia ad accudire lo zio, il quale mantiene la promessa e il 3 agosto 1949 passa le proprietà al nipote ma, anziché fare un atto di donazione, stranamente i due stipulano un contratto di compravendita dei beni per l’importo di 165.000 lire.
Giuseppe è giovane, è pure un bel ragazzo e si fidanza con la ventiquattrenne Francesca De Cicco. I due decidono di sposarsi ma quando tutto è pronto, Giuseppe molla tutto e se ne torna a Napoli perché ha litigato di brutto con lo zio che lo tiene troppo a freno, che arrivava fino al punto di limitargli l’orario di uscita anche nel caso in cui il nipote doveva recarsi a far visita alla fidanzata: una volta, nel dicembre del 1949, lo chiude fuori di casa costringendolo a dormire nel pagliaio. Zio Gennaro chiede aiuto ad un amico e gli fa scrivere una lettera nella quale promette, se Giuseppe decidesse di tornare con lui, di trattarlo bene, ma il giovane non cede e non cede nemmeno quando va a trovarlo il futuro suocero. Si convince solo quando il miglior amico che ha a Montalto, Armando Perri, gli manda un telegramma nel quale gli racconta la disperazione di Francesca, disonorata con l’abito da sposa già comprato.
Giuseppe torna, sposa Francesca e si stabilisce con lei in una stanza della casa di zio Gennaro, ma le cose non migliorano affatto, anzi! Dopo una decina di giorni dalle nozze, lo zio pretendeva che il nipote andasse a lavorare con solo dei fichi e un po’ di pane e, sotto minaccia di ritorsioni, pretese lire diecimila; in occasione del battesimo del primo nato di Giuseppe, lo zio pretese che i suoceri del nipote non intervenissero ai festeggiamenti.
Eppure molti conoscono Gennaro come un uomo di indole buona e incapace di far del male a chicchessia, al contrario del nipote che il vecchio qualifica come vagabondo.
Il sole picchia forte quando l’anziano Gennaro arriva nel fondo dove c’è suo nipote che sta lavorando. I due, all’inizio, sembrano ignorarsi poi come al solito scocca la scintilla e cominciano a litigare. A una cinquantina di metri da loro la famiglia Sanguillino li sente urlare ma nessuno ci fa caso perché è roba di ogni giorno. Dopo un po’ i due si calmano e continuano a lavorare e lavorano fino alle 16,30 quando nel campo arriva la moglie di Giuseppe, che si mette a raccogliere fichi da un albero a una cinquantina di metri dal pagliaio, dove sono suo marito e lo zio.
Nel campo dei Sanguillino i lavori sono terminati e tutta la famiglia si siede attorno al tavolo della cucina per mandare giù un boccone in santa pace. L’unico della famiglia a non sedersi è Bruno Ricchio che continua a infornare fichi, bestemmiando per il gran calore che viene dalla bocca del forno. All’improvviso delle urla coprono anche il frinire delle cicale
– Di nuovo… non se ne può più con questa storia dei pomodori! – osserva il capofamiglia commentando l’unica parola che riescono a interpretare dallo stretto dialetto napoletano urlato dai loro vicini.
Stormi di uccelli sonnacchiosi si levano in volo dagli alberi alla forte detonazione che fa sobbalzare i Sanguillino mentre mangiano le ultime briciole e fa cadere la pala del forno dalle mani di Bruno Ricchio. Svanito l’eco della detonazione si sente la voce del vecchio Caiazzo che si lamenta e chiede aiuto. I Sanguillino escono sull’aia e lo vedono, ma non si avvicinano. Si avvicina al ferito Bruno Ricchio, lo scruta, nota che la canottiera bianca del vecchio è intrisa di sangue sul lato sinistro, poi rivolge la sua attenzione a Francesca De Cicco che sta accorrendo urlando con le mani tra i capelli
Chi sciuallu! Chi sciuallu!
Ricchio non presta la minima attenzione al ferito che continua a contorcersi e a chiedere aiuto, ma prende per un braccio la donna, che pare stia per svenire, e la porta via
– Vai a chiamare i Carabinieri – ordina Giovanni Sanguillino a suo figlio mentre guarda la donna allontanarsi verso il paese. Poi, come se nulla fosse accaduto, ognuno torna a fare ciò che stava facendo, senza badare alle urla strazianti del ferito.
Di Giuseppe Caiazzo, sul posto, non c’è traccia.
Il Maresciallo Maggiore Stanislao Liguorano e l’Appuntato Vincenzo Gesualdi, accompagnati dal giovane Sanguillino, arrivano sul posto un paio di ore dopo e trovano il vecchio, che ormai rantola, immerso in una pozza di sangue. Accanto a lui c’è una scure e sotto la sua gamba destra una borsa di tela contenente mele e un anello bianco con pietra a forma rettangolare di colore avana, evidentemente di pertinenza del Caiazzo Gennaro
– Chi è stato? – gli chiede l’Appuntanto sollevandogli un po’ la testa per farlo respirare meglio
Mio nipote… mio nipote… – farfuglia il vecchio che poi rovescia gli occhi e non risponde più; dopo qualche minuto muore
La prima cosa che notano i Carabinieri è che nella faccia interna della porta del pagliaio, aperta verso l’esterno, a circa un metro e mezzo di altezza, ci sono una quindicina di piccoli fori con dentro pallini di piombo. Attorno al cadavere non si notano tracce di eventuali colluttazioni, né ci sono armi da fuoco abbandonate.
– È stata sicuramente una fucilata – osserva il Maresciallo – e non credo che sia stata esplosa da vicino.
Il cadavere resta piantonato da una guardia municipale e i militari interrogano i vicini, poi si mettono sulle tracce di Giuseppe Caiazzo, ma senza successo. Perquisiscono la casa che zio e nipote dividevano e, tra le altre cose, sequestrano un fucile automatico a pallottola di piccolo calibro di tipo “Flobert”, consentito dalla legge. Non può essere quella l’arma del delitto.
La mattina successiva arrivano il Pretore di Montalto Uffugo e il medico legale il quale riscontra che la regione antero-laterale superiore sinistra del torace si presenta tatuata da una rosa di pallini d’arma da fuoco; detta rosa, di forma quasi rettangolare, che investe anche la parte sottoascellare, è lunga circa 20 centimetri e larga circa 18. tutti i pallini sono entrati in cavità ad eccezione di cinque o sei che sono rimasti attaccati all’epidermide. La rosa si compone di circa 60 fori tutti del diametro di circa tre millimetri e distanti l’uno dall’altro da uno a tre centimetri.
Mentre gli inquirenti sono impegnati nelle loro misurazioni, arrivano di corsa tre giovanotti che dicono di aver ritrovato, a un centinaio di metri dal luogo del delitto, un fucile che i Carabinieri immediatamente sequestrano. Si tratta di un vecchio fucile ad avancarica con una sola canna che emana il caratteristico odore della polvere da sparo esplosa di recente: è sicuramente l’arma del delitto.
Quello stesso pomeriggio Giuseppe Caiazzo si presenta al Maresciallo Liguorano nella caserma di Montalto Uffugo
– Mi sono trasferito a Montalto nel mese di giugno del 1949 su invito di mio zio Gennaro il quale, stanco di vivere da solo, volle la mia compagnia. Dopo qualche mese dal mio arrivo, con atto di donazione e vendita fatto da mio zio, divenni proprietario di un suo appezzamento di terreno e della casetta di due stanze e cucina sita in via Sotto il Carmine. abbiamo fatto anche una scrittura privata con la quale mi obbligavo a corrispondere a mio zio gli alimenti necessari per il suo sostentamento e di prodigargli l’assistenza dovuta, sua vita durante. Dopo essermi sposato mi sistemai con mia moglie in una delle due stanze della casetta, mentre nell’altra stanza abitava zio Gennaro. Fin dall’epoca del mio matrimonio tra me e mio zio, nonché mia moglie, si venne a creare uno stato di incompatibilità originata dal fatto che zio Gennaro, a suo dire, si vedeva trascurato da me e privato delle spettanze dovutegli. Lo stato di incompatibilità, ben presto, si trasformò in odio e da quel momento, quasi ogni giorno, avvenivano scenate e mio zio profferiva sempre parole di minaccia di morte verso di me, mia moglie e anche mio suocero
– Di quali spettanze parli?
– Dividevamo a metà il ricavato della vendita dei prodotti del fondo, ma mio zio si lamentava sempre che io mi sarei appropriato di più della mia metà e inutilmente ho sempre cercato di spiegargli che si sbagliava
– Cosa è successo ieri?
– Ieri mattina sono andato di buon’ora, come al solito, nel fondo e poi è venuto anche mio zio che ha raccolto delle mele. Poi verso le quattro di pomeriggio, forse anche prima, lo zio cominciò a inveire contro mia moglie, presente nel fondo, accusandola che gli rubava la farina e la offese chiamandola in tutti i modi
– E tu che hai fatto?
Intervenni a sua difesa e mio zio inveì pure contro di me dicendo che mi avrebbe ammazzato; nel contempo si recò nel pagliaio armandosi di un fucile da caccia ad avancarica di sua proprietà. Quando lo zio ricomparve sulla porta del pagliaio mi avvicinai subito a lui e, allo scopo di disarmarlo, afferrai l’arma per l’impugnatura. Durante la colluttazione che ebbe luogo tra noi due, accidentalmente, esplose il colpo e la scarica raggiunse in pieno il mio congiunto che si abbatté al suolo. Dopo il fatto mi allontanai portando con me il fucile che poi abbandonai in prossimità del fosso “Mesca”
– È questo il fucile? – gli chiede il Maresciallo mostrandogli quello rinvenuto proprio nel posto indicato da Giuseppe
– Si, è quello
– Quindi, secondo il tuo racconto, tua moglie era presente al fatto…
– Si, era presente
– Ci sono delle cose che non tornano… per esempio se, come affermi, il colpo fosse stato sparato mentre lottavate, sul cadavere di tuo zio ci sarebbero dovute essere delle bruciature e la rosa dei pallini sarebbe dovuta essere molto più piccola di quella che è stata trovata. E poi, secondo i vicini, tua moglie è stata vista accorrere dal campo verso il pagliaio, quindi nel momento del fatto non era sul posto…
– Potete dire quello che volete, i fatti sono andati come ho detto io!
Purtroppo per Giuseppe, sua moglie lo smentisce
– Sono arrivata nel fondo verso le quattro di pomeriggio e li ho trovati che litigavano per dei pomodori che erano rimasti invenduti perché marci. Zio Gennaro se la prese con me ma io non gli diedi corda e mi allontanai recandomi a una pianta di fico ad una cinquantina di metri di distanza per raccoglierne il frutto. Mio marito e suo zio continuarono a litigare. A un certo momento sentii l’esplosione di un colpo di arma da fuoco. Scesi dall’albero ed accorsi subito verso il pagliaio dove vidi lo zio di mio marito a terra; fui presa subito dal panico e scappai
– Quando eri presente hai visto armi da fuoco?
– No, zio Gennaro aveva in mano la sua accetta e la stava posando per terra. Quando accorsi dopo lo sparo l’accetta era dove zio Gennaro l’aveva posata
– Tuo marito afferma che tu eri presente al momento della tragedia…
Mio marito non dice il vero quando afferma che io rimasi sempre presente vicino a loro dal momento in cui la lite sorse fino a quando ebbe tragicamente termine. Ripeto, io ero lontana e non vidi e non assistetti alla progressione dei fatti e non mi resi conto di come esattamente la tragedia avvenne. Ad essere sincera, viste le continue minacce di morte che zio Gennaro ci faceva, quando ho udito lo sparo pensavo che lui avesse ammazzato mio marito, ma quando accorrevo verso il pagliaio e vidi Giuseppe scappare col fucile in mano, ho capito… quando sono arrivata sul posto non mi sono resa conto se zio Gennaro fosse morto o meno…
– Eppure si contorceva e urlava…
– Eppure è così…
– Hai mai visto questo fucile?
– Mai!
Il Maresciallo Liguorano trova inqualificabile il comportamento di Francesca, dei Sanguillino e di Bruno Ricchio in quanto omisero di soccorrere il ferito e le loro affermazioni rese al riguardo non giustificano affatto l’inumano comportamento tenuto da essi per cui i medesimi sono incorsi nel reato di omissione di soccorso a persona ferita e li denuncia.
Gli inquirenti, partendo dall’assunto che, non risultando registrato nell’archivio delle armi il vecchio fucile usato per uccidere Gennaro Caiazzo, questo non era di proprietà della vittima, la quale invece aveva regolarmente denunciato il possesso del fucile Flobert. Quel vecchio fucile, quindi, deve per forza esserselo procurato in qualche modo Giuseppe, che aveva premeditato di uccidere lo zio.
Stando così le cose, il primo atto dell’avvocato Francesco Vaccaro, difensore di Giuseppe è quello di chiedere una perizia balistica per stabilire sia l’efficienza del vecchio fucile, sia l’esatta distanza da cui partì il colpo fatale. La questione è di importanza vitale per l’imputato perché se si trattasse, come sostiene Giuseppe, di un colpo partito accidentalmente durante una colluttazione sorta per difendersi dall’aggressione dello zio, sarebbe legittima difesa e assoluzione sicura; nel caso contrario si tratterebbe, quanto meno, di omicidio volontario.
La perizia, però, non può essere eseguita per mancanza nella circoscrizione di un perito degno di fiducia, così ci si deve basare soltanto sulla perizia necroscopica affidata al dottor Pietro Guido che non lascia scampo a Giuseppe:
Sicuramente il colpo è stato sparato da lontano per la presenza di una larga rosa di pallini: ciò si verifica quando il colpo è sparato a distanza perché i proiettili tendono a divaricarsi, mentre se sparato da vicino, anzi a bruciapelo, i pallini sono fittamente ravvicinati e fanno palla. Circa la distanza, si può, desumendola dalla nota tabella del Dittrich, affermare che questa sia stata dai dieci ai dodici metri, dato il diametro maggiore alla rosa già descritta (cm 20X18). Ben è vero che altri elementi differenziali per suffragare a questo quesito si sarebbero potuti desumere dalla assenza dei risaputi segni di tatuaggio, affumicatura e di ustione che caratterizzano i colpi sparati a bruciapelo.
Il risultato è che si procede per omicidio volontario ma la testimonianza della fruttivendola Antonietta Turano potrebbe alleggerire di molto la posizione di Giuseppe Caiazzo
Effettivamente De Cicco Francesca ebbe a portarmi due ceste di pomodori perché io li vendessi nel mio esercizio. Detti pomodori non erano di buona qualità né in buono stato di conservazione per cui, passati un po’ di giorni e constatato che i miei clienti non acquistavano tale merce, mandai a chiamare la stessa De Cicco e le riconsegnai tutti i pomodori, alcuni dei quali erano andati a male, per il timore che una qualche verifica da parte dell’Ufficiale sanitario mi mettesse in contravvenzione
– Gliene diceva di tutti i colori: vagabondo, stupido e spesso si serviva di una parola americana che suona testualmente “sciett” che dovrebbe significare scemo – racconta Armando Perri [potrebbe invece trattarsi della parola inglese shit, merda. Nda]
Il Pubblico Ministero non ritiene che questa circostanza sia decisiva per poter derubricare il reato perché la causa prima ed unica del delitto non sarebbe da ricercare nelle liti sulla spartizione dei guadagni, bensì nella volontà di Giuseppe di svincolarsi dagli obblighi assunti per il mantenimento dello zio vita natural durante. Di più resta ferma come un macigno sulle spalle di Giuseppe la sua ricostruzione dei fatti, che è smentita con decisione dagli accertamenti e anche dalla moglie. Stando così le cose, il 10 aprile 1952, viene chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio di Giuseppe Caiazzo per omicidio volontario, mentre la moglie, i due Sanguillino e Bruno Ricchio vengono scagionati dall’accusa di omissione di soccorso.
Durante il dibattimento compaiono tre lettere che potrebbero stravolgere tutto: la prima scritta dalla vittima al padre di Giuseppe in cui rifulge in modo eclatante tutta la sua acredine e l’ostilità verso il nipote se giunge a formulare in modo così aperto minacce di morte a carico dello stesso (se lui non mi tratta bene qualche giorno li sparo una palla in frondolo giurato che se lui non mi tratto lo ammazzo a lui e 100 come a lui e un cretino mai visto come a lui vigliacco io credevo che era un bravo giovani…); le altre due scritte dai figli di Gennaro che esprimono a Giuseppe la loro solidarietà in quanto il loro padre à rovinato tutte le nostre vite qui che stammo tutti malati con i nervi sempre con le sue minaccie.
Ormai è chiaro che Gennaro Caiazzo non era il tipo tranquillo che sembrava essere e che davvero ha sempre offeso e minacciato di morte il nipote, che ora non appare più come il vagabondo descritto dallo zio, ma non si può credere alla legittima difesa perché lo dicono tutte le perizie fatte. La giuria però, ferma restando la volontarietà del gesto di Giuseppe, tiene conto di queste lettere e, il 16 febbraio 1953, riconosce che essendo certo che egli ha agito sotto la spinta di un’emozione, di un turbamento psichico di un malcontenuto impulso in stretta dipendenza del comportamento della vittima, particolarmente ingiusta, illecita in modo obiettivo. Il Caiazzo, che attraverso le notizie processuali, appare buono e paziente, divenne effettivamente la vittima della suscettibilità permalosa dello zio, quanto mai convinto di potere spiegare in pieno la pesante e invadente sua autorità, sotto ogni riguardo, sul giovane nipote sol perché allo stesso ebbe a donare il piccolo podere con un atto simulato di compravendita. Intendeva, a torto, il vecchio Gennaro legare a sé la giovane vita del nipote spingendo il suo intervento, dispotico ed esoso, in tutto il complesso dei rapporti di costui, tormentato ognora dal sospetto e dal dubbio di essere defraudato, ingannato, tradito nei suoi pretesi diritti (…).
Concesse le attenuanti generiche e l’attenuante della provocazione grave, la Corte condanna Giuseppe Caiazzo a 9 anni e 4 mesi di reclusione.
Il ricorso in Appello verrà respinto e la condanna confermata.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

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