Sistema Czaresco d’un Ministro d’Iddio dell’istituto di Capocelato [Capecelatro. Nda]
Siamo ritornati al Medeo Evo. Tempi di Barbarie, sotto governi di Pretunzoli, amministratore della roba altrui. Sistema l’Istituto Capocelato. Governatore il poco padre amorevole Luca Saviano dei Bigi [La Congregazione dei frati della carità, detti anche Bigi dal colore dell’abito, fu fondata nel 1859 da LUDOVICO da Casoria (al secolo Arcangelo Palmentieri). I primi bigi erano fratelli laici cui in seguito si aggiunsero alcuni sacerdoti, tutti professanti la regola del Terzo Ordine francescano con particolare cura per l’istruzione dei giovani popolani in condizioni disagiate e l’assistenza agli infermi. Da http://www.treccani.it/enciclopedia/ludovico-da-casoria_(Dizionario-Biografico)/] il quale, Bigio nero, alcune sere fa ordina all’alunno Ernesto Castriota di mettersi in ginocchi per terra, colpevole di niente – perché lo ponno provare con testimoni – e siccome il Castriota non volle ubbidire ad una punizione ingiusta, allora, Apriti Cieli Bigi, piovvero sul povero alunno pugni e legnate da portare a casa sua ferite e segni per parecchi giorni, come può attestare un certificato medico. E non contento di ciò, il pretunzolo più nero del nerofumo, lo fece legare e spogliare col concorso del suo degno compare, il prefetto Cosentino Igino, e poi come i tempi dell’Inquisizione di Spagna, lo presero e lo portarono in mezzo agli alunni i quali, spaventati, assistettero a ciò che io non trovo parole adatte a stigmatizzare. Assessore Magliari, venga oggi a visitare l’alunno Castriota che la sua famiglia fu costretta a levarlo dall’Istituto e che lei il giorno del fatto, chiamato dal suo Compare Bigio disse che non aveva niente! E vedrà che per favorire il suo poco degno compare à Mentito!
Quando questi degni Ministri della roba e persone altrui saranno scacciati, Sistema Francese?
Speranzoso di questa mia pubblicazione, mi creda, Signor Direttore, con i dovuti ringraziamenti, suo dev.mo
Giuseppe Verni
Roberto Mirabello, trentatreenne avvocato e direttore del giornale “la Parola Repubblicana” riceve questa lettera il 17 novembre 1908 nel suo studio di Cosenza. Il nome di Giuseppe Verni non gli dice niente, non è un cognome della città. Certo, i fatti che vi sono denunciati sono musica per le sue orecchie e decide di indagare per cercare di saperne di più su quello che succede nell’Istituto Capecelatro, diretto dal napoletano Gennaro Saviano, in religione padre Luca. Due giorni dopo Mirabello è in Corte d’Assise per impegni professionali, quando gli si avvicina un uomo che gli dice di essere Giuseppe Verni, barbiere in Via Rivocati.
– Pubblicherete la mia lettera?
– La pubblicherò volentieri quando mi accerterete della veridicità del contenuto – gli risponde prudentemente.
– Vi dimostrerò che è tutto vero!
Quello stesso pomeriggio il presunto Verni, con un ragazzo che dice di essere Ernesto Castriota, si presenta nella tipografia dove si stampa il giornale di Mirabello, il quale non è lì in quel momento. C’è il signor Federico Adami, amministratore del giornale, ed è a lui che Castriota conferma parola per parola il contenuto della lettera e, per rafforzare il suo racconto, appone la sua firma sulla lettera.
Adesso Mirabello non ha più dubbi e ritiene inutile ogni altra indagine, così, nel numero 46 del 20 novembre 1908, fa pubblicare in seconda pagina la noticina di cronaca relativa al fatto. Ma Mirabello non si ferma qui. Il 6 dicembre successivo scrive un lungo e duro articolo contro Padre Luca e i suoi metodi, intitolato “I confetti di Padre Luca”, ma anche contro le altre istituzioni benefiche cittadine:
“Tutti gli uomini dovrebbero amare profondamente i bambini, tutti gli uomini dovrebbero desiderare che le piccole creature fossero felici. I bambini sono sempre belli perché niente più attrae della sincerità e della ingenuità. (…) La civiltà, il progresso della società viene misurato dalla più o meno protezione accordata ai fanciulli e l’umanità potrà solamente dirsi redenta quando non vi saranno più bambini nudi, macilenti, pitoccanti per le vie l’elemosina o travaglianti i fragili corpi con il lavoro faticoso. Per questo nostro affetto per le creaturine deboli, per questo grande amore per i bimbi noi non osammo protestare e gridare contro l’impomatato canonico Vallega [Eugenio Vallega vescovo campano. Nda], quando in nome di un sentimento nobilissimo chiedeva l’aiuto dei buoni per fondare in Cosenza un istituto per i bimbi poveri.
Non ci illudevamo, l’istituto doveva essere la fucina dalla quale doveva uscire la gran schiera dei clericali, marciante alla conquista della Calabria, ma noi mazziniani tacemmo, ma noi repubblicani non schiamazzammo perché non volevamo con le nostre grida ostacolare un’opera che avrebbe contribuito in un modo qualsiasi a dar ai poveri bambini nudi e derelitti una casa, un pane. Forse peccammo (…) intanto dalle camerate bianche giunge a noi la eco dolorante, i poveri bimbi sono maltrattati, sono battuti crudelmente, ferocemente, selvaggiamente. La figura allampanata, magra, brutta del padre Luca che, armata la mano della frusta, colpisce ferocemente le spalle nude del povero bambino, colpevole solo di essersi ribellato ad una imposizione balorda e sciocca, ci fa orrore, ci fa sentire tutta intera la crudeltà umana. Colpiva ferocemente il crudele, godeva forse per una malattia dell’anima sua, per le grida strazianti della vittima, sorrideva per le lagrime e forse dalle pareti della stanza dove si svolgeva la scena di dolore, pendeva l’immagine dolcissima di Gesù, l’immagine di Cristo che, sotto le palme fiorite della sua galilea amava con i bambini parlare. Raccogliemmo il grido di dolore dei poveri vecchi torturati nell’istituto di carità, raccogliemmo il grido di strazio dei poveri malati perseguitati nell’ospedale, senza preoccuparci della fede dei carnefici e delle vittime; raccogliamo ancora il grido angoscioso dei poveri bambini, non in odio al padre feroce, ma per ubbidire alla nostra religione, per compiere il nostro dovere.
Domenica nella nostra Villa illuminata dal sole, nella nostra Villa popolata sfilavano i bambini infagottati nei loro costumini neri filettati di rosso, sfilavano i poveri innocenti innanzi al carnefice per ricevere il dono di pochi confetti.
Ricevevano il dono, ma invano si sforzavano per sorridere, erano tristi e la tristezza nei bambini è la morte, è l’angoscia. Ricevevano il dono ma invano si sforzavano per sorridere; le vittime ancora sentivano tutto il dolore, avevano nell’anima la paura per avere assistito alla crudele punizione del loro compagno.
Padre Luca solo, dalla faccia enorme, rideva, padre Luca solo era contento, padre Luca solo godeva. Perché il feroce vedeva tremare i poveri derelitti, il feroce sentiva fremere i poveri deboli. Ma perché tanta e così brutale ferocia? (…) Padre Luca ha la coscienza magagnata, padre Luca è un grande ammalato, ed in noi è così profondo, è così intenso il sentimento di compassione che non riusciamo ad incrudelire contro questo disgraziato uomo che non può sentire la gran gioia dell’amore e della bontà. Ma un disgraziato, ma uno sciagurato che, aiutato da un suo compagno, si diverte a denudare un bambino ed a colpirlo per deliziarsi e per godere delle sofferenze e delle lagrime della vittima, non può rimanere ancora al posto di direttore. Contro questa belva hanno il dovere d’insorgere tutti i buoni, hanno il dovere di gridargli sul viso la bestemmia tutti coloro che hanno l’anima aperta ai sentimenti di generosità e di pietà.
Lasciateli sulla strada, lasciateli nelle case umide, lasciateli nella miseria e nel dolore i poveri figli della misera gente ma non torturateli, non maltrattateli.
Mentre i bambini tristi e malinconici sfilavano per ricevere i confetti dalle mani del carnefice, un bambino dai vestitini laceri guardava e rideva. Il piccolo scugnizzo era lieto, il piccolo scugnizzo era felice perché era libero, perché era il padrone dei sentieri e delle viuzze della villa e della campagna nostra.
Padre Luca non è un prete, padre Luca non è un uomo, è solamente un criminale. Guai se i due termini nella coscienza popolare si confondono o s’integrano.”
Il giornale è ancora in edicola quando, l’11 dicembre, si presenta in Questura Ernesto Castriota
– Mio padre mi ha tolto dall’Istituto circa quindici giorni fa per il seguente motivo: io era il più grande degli alunni ch’erano nella mia camerata e, perché tale, mi era stato dato l’incarico di chiudere ogni sera le finestre della stanza ove dormivamo io, il Direttore suddetto e 25 alunni. Il 19 novembre, verso le sei di pomeriggio chiusi, come al solito, le finestre e poscia mi recai nella camera da studio ove erano gli altri miei compagni. Il prefetto, a nome Igino Cosentino come mi vide disse: “perché sei venuto così tardi?” e senza voler sentire alcuna giustificazione ne informò immediatamente il direttore. Costui allora mi ordinò, come punizione, di mettermi in ginocchio, al che io mi rifiutai dicendo essere tale punizione ingiusta perché il ritardo era stato causato dall’incarico datomi dal direttore medesimo. Al mio rifiuto il direttore mi impose di uscire fuori dal convitto e mentre stavo per andarmene chiuse le porte e incominciò a schiaffeggiarmi, poscia da di piglio ad uno spolverino da mobili e col manico di osso mi percosse, sempre insistendo di farmi inginocchiare. In seguito mi legò le braccia al di dietro e mi fece spogliare dal prefetto Cosentino Igino e continuò a percuotermi. Due giorni dopo, andatomene dall’Istituto, mio padre mi ha fatto visitare dal dottor Francesco De Fazio che mi ha trovato numerose lesioni – racconta presentando il certificato medico che parla di contusioni di primo e secondo grado in varie parti del corpo, un occhio nero e vari bozzi in testa.
– Vuoi sporgere querela contro padre Luca?
– No, non voglio.
Mentre la Questura si accinge ad interrogare padre Luca, si presenta una tedesca, Elisa Franken, che fa la cuoca presso i signori Cardamone, per denunciare i maltrattamenti subiti nell’Istituto Capecelatro dal suo bambino di otto anni:
– Ho fatto rinchiudere mio figlio nell’istituto circa un mese e mezzo fa, pagando la retta di £ 15 mensili, perché la mia padrona mi aveva posto come condizione per lavorare che io non dovessi tenerlo in casa. Pochi giorni fa sono andata a trovarlo ed avendo constatato che lo stesso era affetto da geloni alle mani e ai piedi e anche un po’ sciupato in salute, ho creduto conveniente ritirarlo a casa per farlo curare. Arturo mi ha raccontato che padre Luca lo maltrattava e per piccole mancanze lo percuoteva con schiaffi sulla testa e qualche volta sulle mani con una riga larga di ferro. Oltre di ciò faceva stare continuamente a pane e acqua il mio suddetto figliuolo. Guardate qui – continua nel suo italiano incerto mentre scopre una gamba ad Arturo – la contusione gli fu procurata da padre Luca con un calcio…
– Volete sporgere denuncia? – le chiede il delegato Pasquale Caroselli.
– No, non voglio.
E padre Luca cosa ha da dire a sua discolpa? Intanto bisogna premettere che si tratta di un uomo intelligente, previdente e che gode dell’amicizia della nobiltà e dell’alta borghesia cittadine che, bontà loro, sovvenzionano l’Istituto Capecelatro.
– Respingo le accuse con ogni forza – esordisce padre Luca –. Quanto al Sikens posso dire che ne ebbi le maggiori cure durante la sua permanenza nel Convitto. Quel bambino vi era ammesso gratuitamente per raccomandazioni fatte dalla signora Raffaella Cardamone – la madre del bambino invece ha dichiarato di pagare una retta mensile di 15 lire –. Era gracilino e linfatico e gli erano uscite delle pustole sulle mani così lo feci visitare e non omisi di fargli eseguire le cure previste. Quello che ha detto il bambino è tutto falso e quando la madre lo stava portando via gli ho chiesto, davanti a testimoni, se davvero l’avessi battuto ed egli rispose di no. Gli chiesi il perché della sua bugia e mi rispose che era stato istigato da Ernesto Castriota. Per questo motivo ho chiesto alla madre di sottoscrivere una smentita e lei, in casa Cardamone, rilasciò una doppia identica dichiarazione in cui smentiva quanto il figlio aveva dichiarato a Vostra Signoria contro di me. Preciso che le due copie sono state inviate ai giornali “Cronache di Calabria” e “La Parola Repubblicana”. Quanto poi al Castriota, io fui troppo condiscendente nell’ammetterlo nel convitto pur avendo oltrepassato gli anni 12 d’età. La sera del fatto, essendosi coll’altro alunno De Rose recato durante la ricreazione nella sala di musica contro il mio divieto, ordinai ad entrambi di stare in ginocchio per punizione – come abbiamo visto, il racconto di Ernesto è completamente diverso –. Il De Rose obbedì, non così il Castriota. Cercai di costringerlo ad inginocchiarsi usando la forza. Può darsi che gli abbia tirato qualche ceffone ma egli, lungi dal ridursi all’obbedienza, mi dette un calcio al ventre che mi costrinse, pel vivo dolore, a buttarmi sul letto. A quella vista accorsero gli alunni Tenuta e Cosentini, che essendo più grandi hanno le funzioni di prefetti, e percossero il Castriota di santa ragione, producendogli delle ecchimosi sul viso. Mandai a chiamare il padre che rimproverò il figlio, esortandolo a chiedermi scusa ed a venire a baciarmi la mano. Mi chiese anche di non cacciarlo dal convitto ma lui cominciò a smaniare per andarsene e, rimasti soli, minacciò di volere usare violenza contro se stesso e per evitare ciò pensai di farlo legare e dopo poco si calmò e promise di inginocchiarsi, così lo feci slegare e poi divisi la mia cena con lui. Dopo due giorni il padre venne a prenderselo e io lo feci osservare dal dottore Magliari prima di consegnarglielo – termina consegnando i due certificati medici relativi ad Arturo, nel quale si attesta che ci sono delle pustole sulle mani ma non geloni, e ad Ernesto, nel quale si parla solo di un lieve graffio sul viso.
Comincia la lunga teoria di interrogatori: nega tutto Cosentini, nega tutto Tenuta, nega tutto De Rose, negano tutti gli altri alunni e professori i quali dichiarano di non aver mai visto padre Luca picchiare i ragazzi, eccetto qualche scappellotto per correzione.
Viene interrogata di nuovo Elisa Franken la quale chiarisce la circostanza della smentita:
– In effetti davanti a padre Luca mio figlio disse che non lo aveva picchiato lui ma Pietro Tenuta. Padre Luca insistette nel volere una smentita e così, sotto dettatura dell’avvocato Carlo Cardamone, scrissi una lettera al direttore de La Parola Repubblicana, smentendo le pubblicazioni precedenti. Però, rimasti soli, Arturo mi disse che aveva avuto paura del frate e aveva detto una bugia. Non avrei scritto quella lettera se mio figlio me lo avesse detto prima e la verità è quella che ho detto nel primo interrogatorio.
La Questura, nonostante tutte le testimonianze acquisite agli atti siano favorevoli a padre Luca, va avanti e convince anche i magistrati della Procura del re circa la fondatezza delle accuse nei confronti del religioso e nei confronti dei due prefetti, i sedicenni Igino Cosentini e Pietro Tenuta e ne chiedono il rinvio a giudizio. Il Giudice Istruttore, però, non è completamente dello stesso avviso e rinvia i tre imputati solo per i maltrattamenti inferti al piccolo Arturo Sikens.
Il 15 giugno 1909 si apre il dibattimento. Non c’è niente di nuovo: i testimoni continuano a giurare di non aver mai visto padre Luca o i due prefetti picchiare il piccolo Arturo, né di avere sentito il bambino lamentarsi per i maltrattamenti o le botte ricevute.
Non luogo a procedimento penale per inesistenza di reato per quanto riguarda l’imputazione di abuso dei mezzi di correzione e assoluzione per non provata reità riguardo all’accusa di lesione volontaria.
Padre Luca può continuare la sua opera di educatore. A pagare per questa vicenda è solo Elisa Franken che viene licenziata in tronco dalla signora Cardamone.
Però, gira che ti rigira, padre Luca incappa in nuove disavventure dopo nemmeno un anno dall’assoluzione. A denunciare le sue presunte malefatte è un altro giornale, Lotta Civile, con un altro direttore, l’avvocato Pasquale Campagna. È il 26 maggio 1910 quando a Cosenza non si parla d’altro
DOV’E’ PADRE LUCA?
L’ex direttore dell’ospizio Capecelatro si è dunque dileguato! E dove ha piantato il suo nuovo quartier generale per completare le nobili gesta iniziate nell’istituto che fino all’altro giorno è rimasto affidato alle sue cure?
Pare che non ne abbian notizia, né colui che ha dovuto accettare la triste successione dell’indegno sacerdote, né lo stesso padre generale dell’ordine dei Bigi, una cui lettera, cosa nota ai ragazzi dell’ospizio, parla già abbastanza chiaro. E v’è chi dice ch’egli sia scappato in America, v’è chi afferma sia stato relegato in una comunità a far penitenza dei suoi peccati. I suoi peccati?! Oh si, e gravi affè di Dio! Onde a ragione, preoccupati per quanto da un certo tempo si va dicendo sul suo conto, noi abbiamo gettato il primo grido d’allarme per dar modo al magistrato d’indagare e di agire.
E certo padre Luca, nel tumulto della sua turbata coscienza, ha dovuto prevedere la sorte che gli è riserbata, se qualche tempo prima del suo allontanamento ha tentato di crearsi un alibi, che ora precipita dinanzi ai fatti concreti risultanti dalla nostra inchiesta.
Ma cosa avrebbe combinato questa volta padre Luca? Secondo le prime indagini della Questura, basate sulle informazioni ricevute dall’avvocato Campagna, parrebbe trattarsi di possibili atti di libidine in persona degli alunni. Ma potrebbe esserci anche dell’altro secondo Campagna, che racconta al Pretore di Cosenza:
– Venni a conoscenza di dissidi sorti tra il [vescovo Eugenio] Vallega e padre Luca e si diceva che dissidi dipendevano da un dissesto finanziario provocato da quest’ultimo nell’Ospizio Capecelatro – debiti e pedofilia, un miscuglio altamente esplosivo –. Più tardi però io e il professor Pasquale Leporace venimmo a conoscere che padre Luca erasi improvvisamente allontanato da Cosenza perché sulla sua condotta cominciavano già ad esser noti dei fatti di una certa importanza. Il ragazzo Domenico Felicetti mi disse di essere stato vittima di un tentativo di congiunzione carnale da parte di padre Luca, tentativo che il Felicetti dice di aver respinto, ma che con i giovanetti Ragusa, Bria, Blasi ed altri ci era riuscito. Addirittura, in seguito a ciò, Blasi si era dovuto allontanare dall’istituto. Un tale Ardes, convittore dell’istituto, parlandomi del Felicetti me lo descrisse come persona che abbia subito la congiunzione. Ardes aggiunse anche che gli scolari, attraverso un foro praticato in una porta che comunicava con la stanza di padre Luca, potevano osservare tutto ciò che egli commetteva. Il padre Luca era, si può dire, lo schiavo di tale Igino Cosentini – toh! Chi si rivede! – il quale, consapevole o complice dei fatti commessi da padre Luca, frequentemente si allontanava dall’istituto e mandava a fare richieste di denaro a quest’ultimo, il quale premurosamente gli forniva diverse somme – poi cala il carico da undici –. So pure che l’avvocato Luigi Amato l’anno passato ebbe un abboccamento con padre Luca per manifestargli che il Vallega, in seguito al ricorso di un giovinetto di Puglia, tal Del Corno, era nauseato dal contegno di esso padre Luca, che riteneva non più meritevole di dirigere l’ospizio e perciò lo stesso avvocato Amato esortavalo ad abbandonare l’istituto ad evitare possibili scandali.
L’avvocato Amato, interrogato, conferma tutto e aggiunge dei particolari interessanti:
– Monsignor Eugenio Vallega, mio amico e cliente, mi aggiungeva, perché lo riferissi a padre Luca, che egli, se non fosse andato via volontariamente evitando così che lo scandalo si facesse pubblico e grave, ne avrebbe riferito al generale dei Bigi e da parte sua avrebbe tolto qualunque sussidio ed aiuto all’Istituto che era stato creato e si manteneva in grandissima parte per mezzo suo. Padre Luca protestò energicamente contro le accuse che gli venivano mosse e quanto al denaro mi profferse tutti i libri, i conti e la corrispondenza tra lui e il Vallega, donandomi anche un resoconto generale che io non esaminai neanche e mandai integralmente al Vallega. Intanto, poiché il Padre generale aveva avuto delle denunzie, mandò qui appositamente un certo frate Angelo col quale io mi abboccai parecchie volte, ma costui si mise dalla parte di padre Luca, almeno per quello che risultava a me del suo contegno, e contro Vallega, al quale riferii esattamente ogni cosa. Per questa ragione ritengo che il Vallega si sia seccato del Padre generale, dell’Istituto e di tutto il resto ed abbandonò l’opera alla quale aveva sacrificato non solo il suo denaro ma il suo ingegno ed il suo lavoro.
– Padre Luca? È in congedo a Napoli per visitare il padre vecchio ricoverato in un ospizio. Non saprei dire quando egli ritorni, né conosco il suo indirizzo. Nulla so delle accuse turpi che gli si fanno… – riferisce, imbarazzato, padre Agostino Costanzo, il sostituto di padre Luca.
Che nell’Istituto Capecelatro siano accadute delle cose strane è fuori di dubbio per la Questura e la Procura del re. Pensano che la prova più evidente di ciò sia il progressivo allontanamento volontario di quasi tutti gli studenti che vengono rintracciati e interrogati ma negano tutti di avere personalmente subito le attenzioni particolari di padre Luca, indicando ognuno altri studenti come vittime. Perché hanno lasciato l’Istituto? “ C’è stato qualche caso di scabbia”; “Non ero contento dell’istruzione che s’impartiva a mio figlio”. Da una situazione del genere non c’è via d’uscita: o qualcuno ammette e denuncia o amen.
Nega tutto, e come pensare diversamente, anche Igino Cosentini.
Poi nel muro di omertà si apre una crepa: il quindicenne Giuseppe Blasi, dopo vari tentativi andati a vuoto, ammette:
– In un giorno che non so precisare, all’ora della ricreazione, e cioè verso le 11, il rettore padre Luca Saviano mi invitò nella sua stanza, ove giunto lo trovai a letto e m’invitò di chiudere la porta. Fattomi avvicinare al letto, incominciò a baciarmi e accarezzarmi, facendomi nel contempo proposte oscene. Ad un certo punto mi disse se avevo piacere che io gl’introducessi il mio membro virile nel suo ano ed avutane risposta affermativa, alzò un lembo delle coltri del letto scoprendosi; poscia si abbassò le mutande e messosi in ginocchio sul letto e bassata la testa, m’invitò a salire sul letto e sfogai la mia libidine come lui desiderava. dopo di ciò mi ordinò che gli dimenassi il suo membro virile, operazione che eseguii per ben due volte consecutive fino al momento che gli veniva fuori lo sperma che m’imbrattava tutte le mani. Soddisfatto in quel modo mi disse di andarmene, non senza prima raccomandarmi di don far parola con chicchessia di quanto era passato fra noi.
Querela? Nemmeno a parlarne.
– Conosco padre Luca Saviano ed ho avuto occasione di visitare due volte, dal Febbraio al Giugno scorsi, l’istituto Capecelatro di Cosenza, constatando come egli avesse subiti colà due procedimenti penali per abuso di mezzi di correzione, rimanendone però assolto – racconta padre Tommaso Perniciaro, superiore dei frati bigi, al Delegato di Polizia nella Questura di Roma –. Sul suo conto ebbi ottime informazioni da parte del Sindaco di Cosenza, signor Cundari, giusta sua lettera 11 febbraio 1910, con cui il Sindaco lo definiva addirittura “degno di ogni elogio perché persona correttissima, modello ed esemplare, sia come sacerdote che come capo dell’Istituto”. Sul posto ebbi pure eccellenti informazioni di lui dal Segretario Comunale, da Consiglieri e da altre tante rispettabili persone…
Possono bastare le denunce di un giornale e le dichiarazioni di due ragazzini contro le smentite di quasi tutte le altre probabili vittime, contro le assicurazioni del superiore dei frati bigi e, soprattutto, sulle assicurazioni del Sindaco della città per mandare a processo il latitante Gennaro Saviano, in religione padre Luca?
Secondo il Pubblico Ministero ed il Giudice Istruttore, no.
I giovanetti sui quali dette turpitudini sarebbero state consumate, non hanno creduto doversi querelare e i fatti attribuiti al Saviano sono stati sufficientemente smentiti.
Non farsi luogo a procedimento penale per difetto di istanza di punizione.
È il 20 ottobre 1910 e padre Luca può uscire dal suo nascondiglio.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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