FA LA PUTTANA CU LU SEGGIARU

Castrovillari 27 maggio 1916
Carissimo zio e madre
Vi fo sapere che la mia salute sta bene e così spero di voi e della famiglia vostra e dei miei affettuosi figli.
Vi fo sapere che ieri ricevetti una lettera cieca dove mi dice che mia moglie, quella sciagurata, fa la puttana con il seggiaro. Figuratevi come mi trovo con tutto il mio più terribile dolore, io non costo più, temo di uscire matto o suicidarmi per il dispiacere, non posso venire in licenza e vi prego caro zio di dirmi subito subito appena vi giunge la presente chi cosa è la verità perché io la voglio sapere e voi mi la dovete dire perché io non tenco a nessuno che solo che a voi e mi raccomando di scrivermi subito e dirmi la verità perché se è vero io di questa donna non ni voglio sentire più parlare ne vedere ne perdonare mai più e prima la voglio domandare che male ci ho fatto io se li ho fatto mancare il pane che ho sempre lavorato onoratamente per il pane della moglie e dei figli.
Trattate a vi informare con bella maniera dalli vicini e di ogni persona di quello che essa dice e che cosa vuole fare, che io l’oscritta e non mi risponde più perciò son sicuro che questo fatto è vero per la sua mala condotta che ha sempre avuto ed io non la voglio più vedere ne perdonare. Ditemi la verità e non mi scherzate.
Non altro, con il cuore addolorato le invio i più affettuosi saluti chiedendovi la S.B. [Santa Benedizione, nda] baciandovi la mano unito a mamma. Saluto pure a Natalina ed Assuntino e loro figli.
Segnandomi tuo affezion.
Luigi Tommaso
Mi fate pure sapere come stanno i miei affettuosi figli
 Luigi Tommaso, trentacinquenne macellaio di Rota Greca, è stato richiamato alle armi per la mobilitazione generale della Grande Guerra, assegnato all’11^ Compagnia Sanità di Bari e successivamente aggregato all’Infermeria Presidiaria di Castrovillari quale soldato di sanità. La lettera anonima che dice di avere ricevuto lo ha sconvolto, ha sconvolto un uomo che non ha mai fatto mancare il pane alla moglie e ai figli lavorando sempre onoratamente. Che diamine, non può tollerare che la moglie lo tradisca durante la sua assenza con il seggiaro, deve cacciarla via prima che diventi matto o si suicidi!
Ma siamo sicuri che il soldato Luigi Tommaso, si sia davvero comportato da padre e marito premuroso come dice nella lettera? Forse no.
Pessimo pregiudicato, immorale, da molti anni ha maltrattato sempre la moglie perché si vuole che questa, circa otto anni addietro, lo avesse tradito con un certo Chimenti Giulio. Da quell’epoca freddezze e continui litigi fra marito e moglie. Si, ma la moglie pare davvero una donna di facili costumi se già circa otto anni fa ha dato adito a dicerie sul proprio onore, verrebbe da dire, ma la cosa non era affatto vera. La sua asserzione d’aver avuto intime relazioni col Sig. Chimenti Giulio fu un semplice malinteso da parte del Tommaso, scrive il Vice Brigadiere Livio Dazzi, comandante la stazione di Rota Greca.
Semplicemente troppo geloso, per questo si comporta così. Forse.
Il Tommaso – e qui casca l’asino – però non dava alla moglie esempio di costanza e fede perché donnaiolo e il 4 dicembre 1914 rapì la giovane nubile Mari Carmela d’anni 18 da qui, per quale reato ancora pende giudizio; l’anno scorso poi venne ferito gravemente di notte tempo a sospetta opera del padre della rapita ed altri, dice di lui il Maresciallo Antonino Miraglietta, comandante la stazione di San Martino di Finita.
Comunque, Luigi fa di tutto per ottenere una breve licenza e nella tarda mattinata del 5 giugno 1916 scende dalla corriera postale allo scalo ferroviario di Torano-Lattarico. Ha indosso la divisa completa di mantellina, tascapane e sciabola-baionetta. Ad aspettarlo con la carrozza del servizio postale locale c’è il suo patrigno, quello che nella lettera chiama zio, che lo accompagna vicino casa.
– Luigi! Luigi! – lo chiama il patrigno – hai dimenticato la mantellina e il tascapane!
– Me li vengo a prendere più tardi – lo rassicura, avviandosi verso casa con passo svelto.
Via Cittadella 105, si è casa sua. La porta è chiusa. Chiede ai vicini che lo salutano calorosamente e gli dicono che la moglie e i figli sono a casa del suocero. Una bambina corre a chiamare Giulia, sua moglie, che tutta contenta per l’arrivo di suo marito corre a casa. Giuntavi, apre la porta e vi entra con lo sposo. Dentro ci rimangono una decina di minuti, poi Giulia esce con in mano delle uova e del salame, recandosi novellamente all’abitazione del padre per preparare la cena al marito.
Luigi resta in casa da solo qualche altro minuto, rovistando dappertutto per cercare qualcosa. Trova dei soldi che si mette in tasca e ritrova anche la sua vecchia rivoltella carica e anche questa finisce nella tasca della giacca. Poi esce. Sulla porta ci sono due dei suoi tre figli, li bacia e percorre la quarantina di metri che lo separano dalla casa del suocero.
Quando entra nemmeno saluta e va dritto verso Giulia che sta friggendo le uova mentre tiene in braccio il loro bambino più piccolo, due anni appena.
Il suo sguardo è vuoto, inespressivo. Prende il bambino dalle braccia di Giulia e lo posa per terra, poi mette la mano in tasca e tira fuori la rivoltella puntandola contro la moglie. Due colpi a bruciapelo lasciano esterrefatta Giulia che si guarda per capire dove sia stata colpita, poi si accorge della colluttazione fra Luigi, la sua matrigna e una sua zia le quali avendo intuito le intenzioni dell’uomo gli si sono lanciate addosso riuscendo a deviare i colpi, salvandole così la vita.
Giulia urla e scappa, scappa verso casa per chiudersi dentro perché in fondo sono solo quaranta metri, basta girare l’angolo di via Cittadella per essere salva. Ma Luigi è forte e si libera delle due donne in un attimo e in un attimo si mette a correre dietro alla moglie, in fondo basta girare l’angolo per riprenderla.
La porta è chiusa e la distanza che la separa dal marito è troppo breve. Lo guarda negli occhi senza parlare e alza le mani in segno di resa mentre Luigi tende il braccio armato.
– No! Papà, no! Ti prego, no! – urla Innocenza, la figlia maggiore, piangendo e cercando di abbassargli il braccio.
 Non c’è pietà né amore negli occhi di Luigi, che fa fuoco una sola volta. La pallottola penetra sotto l’ascella sinistra di Giulia, recide completamente l’aorta e si ferma nell’ascella destra.
In via Cittadella si sente solo il riecheggiare della detonazione, mentre Giulia si accascia a terra senza un lamento, praticamente già morta. Luigi scappa correndo a perdifiato verso la casa del patrigno, gli confessa l’omicidio, lo bacia, poi bacia sua madre, riprende la mantellina ma non il tascapane e sparisce.
Sono da poco passate le tre di pomeriggio e fa caldo.
Per i Carabinieri e il Pretore di Cerzeto il lavoro è relativamente semplice, bisogna solo accertare se si tratti di omicidio d’onore  o, più probabilmente, di omicidio premeditato.
Passano due giorni senza che di Luigi si abbiano notizie, eppure dovrebbe essere semplice rintracciare un soldato in divisa che vaga per le campagne. Poi arriva da Cosenza un telegramma con il quale la Prefettura avvisa il Pretore che il soldato Tommaso Luigi si è costituito nel carcere di Cosenza e il Giudice Istruttore lo sta già interrogando
Pensavo di essere ricercato dalla Giustizia per avere forse ucciso mia moglie, per questo stamattina presto mi sono costituito – esordisce davanti allo stupefatto Giudice Istruttore.
– Ma cosa dite!
Dico forse perché non rammento con precisione il momento nel quale contro di lei dovetti esplodere, non so io stesso dire quanti, colpi di rivoltella
– Va bene, per adesso supponiamo che sia così. Ora raccontatemi perché avete sparato.
Sposai la Gentile nel maggio 1904 e per verità essa, subito dopo un anno, fece sparlare di sé perché nel pubblico si affermava che già mi avesse tradito avendo avuto intimi rapporti con tale Chimenti Giulio. Da me rimproverata, essa ammise di avermi tradito dicendo che era caduta in fallo incoscientemente ed io le perdonai e mai ci separammo. Si condusse così innanzi la vita in buon accordo e con affetto e la Gentile procreò meco cinque figli, mentre io esercitavo il mestiere di macellaio. Mai più si sparlò in paese sulla condotta di mia moglie. Poi fui richiamato alle armi nell’agosto del 1915 e fui mandato a Bari. Con mia moglie ci scrivevamo regolarmente con forma sempre affettuosa. Ebbi tre giorni di licenza nel mese di febbraio di quest’anno e, arrivato a casa, notai una tal quale freddezza in mia moglie con la quale, s’intende, ebbi a congiungermi. Le chiesi il motivo di quella freddezza ma lei non mi dette alcuna spiegazione e io ripartii molto amareggiato.
– In quella circostanza in paese vi dissero qualcosa sul suo conto?
Non appresi in paese niuna diceria sul conto dell’onestà di mia moglie in quei sei mesi di forzata assenza.
– Bene, continuate a raccontare – lo esorta il Giudice mentre annota qualcosa su un foglio.
Nel marzo scorso mi scrisse a Bari informandomi che aveva deciso di partire per l’America senza accennarmi la ragione. Le risposi chiedendole il motivo di quella decisione e lei mi rispose senza spiegarmi niente, ma confermando il suo proposito e che sarebbe partita appena possibile. Io, allora, per non sembrare sottomesso a lei, le scrissi che facesse pure il comodo suo e che partisse quando meglio le sarebbe piaciuto. Quella fu l’ultima lettera che ci scambiammo. Passò aprile e il 2 maggio fui trasferito a Castrovillari. Mi resi conto che non potevo andare avanti con la paga di soli 95 centesimi al giorno e, sperando che mia moglie non fosse partita desistendo dalla determinazione presa e fosse sempre affettuosa come un tempo meco, le scrissi dicendole che delle sessantacinque lire al mese che aveva di sussidio dal Governo, bene avrebbe potuto mandarne quindici mensilmente a me, giacché ella avrebbe potuto tirare innanzi con i cinque figli con le residuali lire cinquanta. Non ebbi risposta e mi rivolsi al mio patrigno per informarlo e lui mi rispose scrivendomi di avere parlato con Giulia, che gli aveva detto di non potermi accontentare perché col sussidio mensile mia moglie dichiarava di approntare il corredo per recarsi in America e sostentava sé ed i figliuoli. Poi mi arrivò una lettera anonima nella quale c’era scritto che ero ormai disonorato giacché si era sparsa la voce che mia moglie mi aveva tradito con il giovane sediaro, tale Vito, di cui non so il cognome, che era mio amico e che abitava di rimpetto a casa mia. L’anonimo specificava che la madre del giovane Vito aveva scoverto il figlio in casa mia con mia moglie e lo aveva rimproverato di quanto aveva commesso, tradendo me, suo amico, tanto che per la pubblicità fatta dell’accaduto, il Vito aveva tentato di tagliarsi la gola. Addolorato, scrissi al mio patrigno per sapere se quelle brutte cose fossero vere e lui, pur non parlandomi con precisione del fatto del sediaro, mi rispose in modo tale da farmi capire che la condotta di mia moglie era riprovevole. Ho chiesto subito una licenza di cinque giorni e sono partito la mattina del 5 per accertarmi di persona se fosse vero quello che mi scrisse l’anonimo. Lungo il tragitto ho parlato con alcune persone e mi è sembrato che, essendo a conoscenza del fatto, mi prendessero in giro e la mia ira aumentava di ora in ora. Con la mente sconvolta arrivai a casa e la trovai chiusa. Sulla porta della loro casa c’erano Vito, che senza nemmeno salutarmi è entrato frettolosamente in casa, e sua madre, che mi ha salutato a stento. Di sfuggita ho visto una ferita al collo di Vito. Pensando che mia moglie fosse a casa del padre ho mandato una bambina a chiamarla. Quando è venuta era sola e freddamente aprì la porta di casa e vi entrammo lasciando aperta la porta. Ad un tratto le dissi: Che cosa hai fatto cu lu seggiaru? Lei mi rispose: Mi hanno voluto male e hanno pubblicato questa voce. Ed io di rimando: Ma tu mi hai scritto che te ne andavi in America, dunque parti cu lu seggiaru… E lei: Parto con chi mi piace a me! E io: Cu lu seggiaru? E lei: Si, cu lu seggiaru
– L’avete aggredita?
– No, ma ero accecato dall’ira. Mi sono ricordato che in una cassa tenevo riposta la mia rivoltella, mi slanciai, aprii la cassa e presi quell’arma ma nel frattempo mia moglie fuggì di casa recandosi in quella di suo padre dove io immediatamente la raggiunsi dopo aver messo l’arma in saccoccia. Trovai mia moglie con la sua madrigna ed altre donne e tornai a dirle: “Dunque tu te ne vai in America cu lu seggiaru…”. Essa, forse vedendomi minaccioso, ebbe a ripiegare dicendomi: “Me ne vado con zio Francesco”. Io non pensai più a quel che facevo. Non ricordo più che commisi, dovetti esplodere dei colpi contro mia moglie che non posso proprio precisare, anzi non ricordo nemmeno di aver sentito rumore di sparo, ed uscii fuori fuggendo, allontanandomi per la campagna
– E la rivoltella?
– Ero ancora in paese, lo ricordo bene, quando ebbi a gettare la rivoltella che rammento avevo tra le mani… ricordo anche che appena uscito dalla casa di mio suocero mi era venuto in mente di suicidarmi
– Perché non l’avete fatto?
– Non lo so…
– Come siete arrivato a Cosenza?
Dormii la notte in agro di San Martino e poscia, il giorno sei, a piedi feci la strada provinciale. Qui giunsi la sera. Pensai che a quell’ora non mi si sarebbe ricevuto al carcere e mi recai all’albergo De Felice… stamattina mi sono costituito…
– Ma se non ricordavate bene se avevate o no sparato a vostra moglie, perché vi siete costituito?
Pensavo che qualche cosa di grave avevo dovuto commettere perché nella notte mi ero trovato, così, errando in campagna
– Spiegatemi una cosa… come fate a biasimare vostra moglie senza avere la certezza che vi abbia tradito, quando siete stato voi a disonorarla rapendo una minorenne a scopo di libidine? – gli contesta leggendo il certificato penale di Luigi.
Non nego, come V.S. mi ricorda, che io nel 1914 ebbi disgraziatamente a deflorare Mari Carmela, ma col suo consenso. Come ho detto avevo perdonato a mia moglie nel 1905 e non credevo mai che ella fosse tornata a disonorarmi.
– Quello che avete fatto alla minorenne lo stabilirà la Giustizia! Portatelo via! – ordina alle guardie, poi lo richiama e gli fa un’ultima domanda – Potete esibire le lettere di vostra moglie e la lettera anonima?
Di tutta la corrispondenza esistita tra me e mia moglie non vi ha più traccia, né conservai la lettera anonima perché il tutto ebbi a lacerare nei momenti di irritazione ed anche perché non si scoprisse il disonore al quale la moglie mia mi aveva esposto. Ho conservato soltanto, per mero caso, la lettera del mio padrigno e la bozza di un’altra che avevo scritto a mia figlia Innocenza. Queste due lettere me le ha sequestrate il capoguardia quando mi sono costituito.
Ci sono troppe incongruenze nel suo racconto. Che davvero non ricordi? Difficile. Piuttosto, pensano gli inquirenti, sta fingendo per cercare di alleggerire la sua posizione. Sicuramente mente sul ratto della minorenne perché abusando della fiducia accordatagli dal parente Mari Michele, ebbe a sedurre l’unica sua figliuola in tenera età e cugina della moglie uccisa. E non si contentò a continuarla a possedere occultatamente parecchi mesi, obbligando la fanciulla a non parlare, ma volle pubblicamente rendere il disonore ad una onesta fanciulla stando insieme con lei a Funalio per circa due mesi; non solo, ebbe il coraggio di lasciare la disgraziata ragazza e tornarsene a Rota Greca fintantoché il padre di essa, mosso a pietà, suo malgrado andò a rilevarsi la figlia disonorata. E il Tommaso, indisturbato, passeggiava per le vie del paese nell’ozio, scrive il Vicebrigadiere Dazzi. E potremmo continuare per un bel pezzo a raccontare le malefatte di Luigi, ma preferiamo risparmiarvele.
È bene, però, che si sappia ciò che il Vicebrigadiere Dazzi scrive di Giulia dopo aver riempito un paio di fogli per descrivere l’assassino: E dopo ciò in altra prosa si presenta alla Giustizia sulla onestà della moglie perché essa ancora avrebbe avuto il diritto di non mantenersi a lui fedele durante i due mesi che ebbe a condividere lontano dai suoi figliuoli colla Mari Carmelina, e la moglie niente fece perché niente si è saputo. Lo ha di nuovo accettato in casa propria procacciandogli lei da mangiare in uno ai suoi figli, coi mezzi che le venivano dalla casa paterna fino a che fu richiamato sotto le armi, dove perché dedito al vino non gli bastavano la paga del Governo ed un sussidio mensile che gli mandava la moglie e quindi, abituato a mantenere la famiglia sulle spalle del suocero, pretendeva che la moglie gli inviasse mensilmente tutto il sussidio giornaliero che ella percepiva da questo municipio. E la moglie forse avrebbe aderito anche a ciò, se colla morte della propria madre e col susseguente secondo matrimonio del padre non le fosse venuto meno il mantenimento che per tanti anni ebbe dai suoi genitori, pur avendo il marito.
L’alacre indagare di Dazzi produce altri frutti: Il Tommaso asserisce che venne ad uccidere la moglie per avere avuto notizie che la stessa avesse intime relazioni con tal Parise Bruno [il Vito di cui parla Luigi, nda], mentre ciò è insussistente. Ha trovato questa scusa per sapere il Parise vicino di casa alla moglie e ciò lo giurano quattro testimoni. C’è di più: Se effettivamente fosse stato questo sentimento di gelosia la vera causa dell’omicidio, allora il Tommaso, appena giunto il giorno 5 corrente, non avrebbe salutato cordialmente il nominato Parise Bruno che ebbe a vederlo prima della moglie e precisamente davanti a casa sua. Un’altra prova dell’onestà della moglie la si trova in un altro fatto risultato a carico del Tommaso, per cui esiste querela, e precisamente per aver sedotta, prima della Mari, un’altra giovanetta di qui a nome Calabria Filomena all’età di 14 anni, continuando a possederla per molto tempo, rendendola anche madre, fino a che, seccato nelle sue voglie, ebbe ad abbandonarla nella miseria e nel disonore, senza poter tornare neppure ai propri genitori, ed anche dopo tanto, l’infelice moglie, chiusa nel suo dolore, si mantenne fedele a lui.
A questo punto Dazzi pensa di avere individuato il movente dell’omicidio: In conclusione, il fatto è che il Tommaso, venutogli meno il sostentamento da parte del suocero ed intravveduta la probabilità di dover partire pel fronte giacché ne partivano giornalmente, e proprio due giorni prima del delitto ne partirono N° 183 dell’11^ Compagnia di Sanità, alla quale egli faceva parte, colse il momento ed il pretesto di una lettera contro la moglie per esimersi da una possibile partenza per la guerra e per sbarazzarsi della moglie, e la uccise, la uccise sperando di trovare come sua scusa la questione d’onore, pur tenendo in non cale, all’atto dello sparo, le disperate preghiere della prima figliuola che colla sua mano cercava di non toglierle l’infelice affetto materno. E lui, duro, uccise perché aveva premeditato di uccidere.
Una mente davvero perversa.
I risultati delle indagini condotte dal Vicebrigadiere Dazzi sono condivise da tutti i magistrati che si occupano del caso e la Sezione d’Accusa, il 9 febbraio 1917, rinvia l’imputato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per il reato di omicidio aggravato dalla premeditazione.
Il dibattimento è fissato per il 13 maggio 1918, mentre la guerra ancora infuria producendo sempre più morti e distruzione. Luigi invece è al sicuro, a mille chilometri dal fronte, nella sua cella del carcere di Cosenza: al momento i suoi obiettivi sono stati raggiunti, non resta che aspettare di conoscere ciò che ne penserà la Corte. Ma ci sarà da aspettare quasi un altro anno perché alla data fissata per il dibattimento molti testimoni sono nelle trincee o sono morti.
A questo punto il lavoro di Dazzi rischia di essere vanificato dalla mancanza dei testimoni chiave e infatti, durante il dibattimento, il Pubblico Ministero annuncia che sosterrà l’accusa di omicidio semplice e non premeditato, mentre la difesa chiede addirittura l’assoluzione per vizio totale di mente.
La Giuria si barcamena tra le due tesi e condanna l’imputato a 8 anni e 4 mesi di reclusione, concedendogli l’attenuante di avere agito in tale stato di infermità di mente per cui la coscienza o la libertà dei propri atti era tale da scemare grandemente l’imputabilità penale.[1]
Boh!?

 

[1] ASCS, Processi Penali.

 

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