L’ONORE DELLA FAMIGLIA

Quando nel 1885 Domenicantonio Caruso e Maria Gabriele si sposano, a Tortora la voce pubblica già racconta che la sposa è incinta, ma il padre del nascituro non è lo sposo. Subito dopo il parto, Maria da alla luce una bella bambina, il marito emigra in America e, mese dopo mese, si dimentica di loro. Le voci sulla cattiva condotta morale di Maria continuano e nel corso degli anni successivi le vengono attribuiti parecchi amanti. Maria non se ne cura e vive la sua vita crescendo nel miglior modo possibile la figlia. Senza l’aiuto di Domenicantonio.
Nemmeno i fratelli di questo, Vincenzo e Biagio, sembrano dar retta alle malelingue e pensano solo a lavorare anche perché quando il fratello si sposò erano ancora bambini o poco più. Ma col passare degli anni qualche fastidio sembrano cominciare a provarlo perché le voci sulla cattiva condotta morale della cognata si fanno sempre più insistenti e la gente si chiede come mai i Caruso non intervengano per porre fine alla vergogna.
Quando, però, nel 1891, si sparge la voce che Maria se la fa col signor Luigi Lauria, esattore comunale e figlio di don Zaccaria – uno degli uomini più ricchi e in vista del circondario – per il quale svolgono parecchi lavori nei campi, le cose cominciano a complicarsi e i fratelli Caruso, ormai quasi uomini, cominciano a tenere d’occhio la cognata, ma non riescono ad avere la certezza del tradimento perché la Gabriele faceva le cose sue con molto riserbo. Ai primi del 1892 in paese gira, incontrollata, la voce che Maria ha avuto un figlio da don Luigi e che, su suggerimento dell’amante, lo ha esposto a Maratea. Questo cambia tutto non perché ci siano prove del fatto, ma perché Vincenzo e Biagio cominciano a diventare il bersaglio delle battute allusive dei paesani. Se è cornuto Domenicantonio, sono cornuti anche loro e tutta la famiglia Caruso.
A Maria tutte queste parole non interessano e, come se lo facesse apposta per alimentare i pettegolezzi, comincia a frequentare quotidianamente il palazzo di don Zaccaria dove vivono anche i figli Luigi, il presunto amante, e Rosina.
Che cosa ci andrà a fare tutti i giorni in casa Lauria? A fare le porcherie con don Luigi, ovvio! Per la voce pubblica questo è l’unico motivo, non ne possono esistere altri. Il cambio di atteggiamento di Maria convince anche i suoi cognati della esistenza di una tresca amorosa e il risentimento nei confronti di Maria cresce ogni giorno di più e ogni sguardo, ogni parola ascoltata per strada fa salire loro il sangue alla testa. Si convincono anche che ogni volta che don Luigi rivolge loro la parola è solo per sbeffeggiarli.
– Ci stai facendo disonore, siamo lo zimbello del paese per colpa tua! Non devi più andare in casa di don Luigi! – le dicono Vincenzo e Biagio
– Io non faccio niente di male in casa Lauria e ci vado quando voglio perché non devo dare conto al paese ma alla mia coscienza!
– Devi dare conto all’onore della nostra famiglia!
– Ve l’ho detto, devo dare conto all’onore della mia coscienza…
Vincenzo e Biagio cominciano seriamente a controllare la cognata per sorprenderla in fallo e agire di conseguenza, ma Maria, alla luce del sole, entra ed esce dalla casa dei Lauria come se niente fosse e i cognati sono in imbarazzo per questo. Se da un lato questo comportamento può essere la prova lampante, come sostiene la voce pubblica, del tradimento, dall’altro c’è l’autorità dell’anziano don Zaccaria, che è una garanzia di moralità, a certificare tacitamente la regolarità delle visite di Maria in casa sua.
I giorni passano, siamo verso la fine di aprile del 1892, e i fratelli Caruso sono ormai sopraffatti dalla sensazione che tutti ridano della loro incapacità a porre fine allo scandalo, così cominciano a pensare seriamente al da farsi.
Il 14 maggio, è pomeriggio, Vincenzo e Biagio vedono Maria con un fascio di fieno sulla testa che dalla terra dei Lauria va verso il paese. In fretta e furia raccolgono gli attrezzi agricoli e si avviano anche loro verso l’abitato trascinando anche un aratro. Conservano tutto a casa ed escono.
– Io vado a parlare con don Zaccaria e vedo se quella è con loro, tu aspetta fuori – ordina Vincenzo, ormai diciannovenne a Biagio, che ha tre anni di meno, poi varca il portone del palazzo. È ormai buio e Biagio si ferma nella piazza Pié della Torre, vicina a casa Lauria.
Maria sta sfaccendando insieme a donna Rosina quando Vincenzo viene ammesso alla presenza di don Zaccaria e le due donne ne sentono le voci:
– Vincenzino bello! Che piacere rivederti, saranno tre mesi che non vieni a parlare con me! – lo saluta il patriarca.
– Per questo sono venuto – risponde tormentando tra le mani il berretto – dobbiamo fare i conti della campagna…
– E che problema c’è? Siediti e dimmi tutto.
Vincenzo fa per sedersi ma con la coda dell’occhio vede, dalla porta aperta, passare sua cognata che tiene per mano la figlia
– Forse… forse è meglio che i conti li facciamo quando ci sarà mio fratello Biagio… vi saluto don Zaccarì… – taglia corto Vincenzo che con un inchino se ne va, lasciando di stucco l’anziano.
Una volta fuori, Vincenzo viene visto da donna Rosina prendere la via del basso, mentre la casa dei Caruso è dalla via di sopra.
– Che strano… tuo cognato non sta andando verso casa sua ma verso casa tua… stai attenta adesso che te ne vai – la mette in guardia donna Rosina
– Si che sto attenta, quello vuole farmi la pelle… prestatemi una lanterna per illuminare la strada così potrò vedere se mi sta aspettando. In ogni caso ci sono anche mia madre e mia figlia… non credo che davanti alla creatura…
– Marì, guardati… – le consiglia porgendole una lanterna.
Fuori dal palazzo Vincenzo fa un fischio al fratello e i due confabulano decidendo il da farsi.
– La puttana è sopra con la figlia e la madre. Facciamo così: io mi nascondo dietro il battente del portone e tu stai sulla strada per controllare se passa qualcuno così mi avvisi. Quando passa quella l’ammazzo!
– E la figlia? E la madre?
– Loro non c’entrano…
– Va bene.
La madre di Maria scende per prima le scale fino all’androne con la lanterna accesa; a qualche passo di distanza c’è la bambina, ancora più indietro Maria. Vincenzo stringe nella mano uno scannaturu e aspetta pazientemente che passino le prime due, poi quando Maria gli passa davanti con un balzo le è sopra e la colpisce con due coltellate alla gola.
Madonna salvami, sono morta, mi ha ammazzato mio cognato Vincenzo! – urla Maria mentre cerca di tamponare le due ferite dalle quali il sangue zampilla inondando il portico. Vincenzo, senza dire una parola, sparisce nel buio.
La madre e la figlia urlano al soccorso e subito dalle case vicine accorre gente. Accorre anche donna Rosina che aiuta Maria a rimettersi in piedi e a salire le scale per ripararsi in casa. Qualcuno va a chiamare il medico ma non lo trova e la poveretta, con la carotide e la giugulare squarciate, muore dissanguata nel giro di pochi minuti.
I Carabinieri di Praia d’Aieta arrivano sul posto poco dopo mezzanotte e si mettono subito alla ricerca di Vincenzo Caruso, ma non lo trovano. Ad aiutarli nelle ricerche c’è una pattuglia di Guardie Forestali di stanza a Tortora Marina che trovano Biagio e, scambiandolo per il fratello, lo portano in caserma per interrogarlo. Ovviamente dice di non essere l’autore del delitto ma il Brigadiere Domenico Delle Vedove con incalzanti interrogazioni ottiene una particolareggiata ricostruzione dei fatti:
– Da anni mia cognata frequentava la casa Lauria mantenendosi in continua relazione con i componenti la famiglia ed in concubinaggio con il figlio del Zaccaria di nome Luigi; difatti cinque mesi fa circa, la nostra cognata suddetta diede alla luce una bambina, frutto delle loro illecite relazioni, essendo il nostro fratello Domenicantonio, emigrato in America da circa sei anni, marito della Gabriele Maria e nulla sapeva di ciò se non qualche sentore a mezzo di lettere famigliari della nostra casa. In questi ultimi tempi le relazioni illecite tra la nostra cognata e Lauria Luigi, causa la loro spudoratezza, si rese palese ad ognuno nel pubblico e perfino additati e beffeggiati e vittuperati non solo noi due fratelli, ma ben anco l’intiera nostra famiglia dallo stesso Lauria Luigi. A tali estremi e dopo alcune sconvenienti parole pronunziate dal Lauria Luigi, noi fratelli Caruso Biagio e Vincenzo, di comune accordo, ci siamo usciti dalla casa del Lauria, e ciò alle ore 8 ½ pomeridiane di ieri 14 andante, lasciando dentro la famiglia Lauria nonché la nostra surripetuta cognata. Poscia ci siamo messi in agguato vicino il prossimo ed unico portone attendendo che la nostra cognata fosse uscita, col deliberato proposito di ucciderla, onde dar riparo al disdoro da essa arrecato alla nostra onesta famiglia. Il mio fratello si collocò dietro un battente del portone con un coltello alla mano ed io un poco più dietro spiando se veniva qualcheduno, e ciò tutto per mandare ad effetto il nostro premeditato crimine. Giunta sul limite della soglia, il mio fratello Vincenzo, senza proferire verbo, gli vibrò due mortali coltellate al collo; poscia ciò fatto ci siamo dati alla fuga senza curarci qual fosse succeduto della nostra cognata.
Omicidio aggravato dalla premeditazione.
Vincenzo non si trova e passano tre settimane di vane ricerche, finché arriva la soffiata che potrebbe essere quella giusta. L’assassino è stato visto nascondersi in un suo fondo agricolo in località Plastina. I Carabinieri organizzano un servizio di appiattamento sul posto e nel pomeriggio del 9 giugno lo sorprendono e lo arrestano.
Era da Pasqua che non avea fatto i conti con don Zaccaria Lauria. Vi andai la sera del 14 maggio e colà trovai Maria Gabriele la quale, a mio scherno, passava e ripassava nella stanza, tanto che io pregai don Zaccaria di andare in un’altra camera perché mal soffrivo quegli scherzi sfacciati della Gabriele. È noto, d’altronde, come la Gabriele fosse una donna corrotta che ha disonorato mio fratello Domenicantonio che trovasi in America e ciò fece dopo il matrimonio, procreando tre figli illegittimi, cioè uno in Settembre ultimo con don Luigi Lauria e due prima con Giovanni Ponzi, e tutti nascosti. Arrivò perfino a sposare gravida, tanto che la ragazza che ora figura col cognome di mio fratello la partorì dopo otto mesi, avendo avuto relazioni in precedenza con tale Giuseppe Caselli. In ogni modo, io dato termine ai miei conti con Lauria andai via, accompagnato fino al portone da don Zaccaria che andò a governare la giumenta. Era circa mezz’ora di notte. Sono andato a casa di mia sorella Domenica ed incontrai per via Luigi Patitucci, poi rientrai a casa e mi coricai. La mattina cacciai i buoi ed andai a Pizzinni da mio padre. La sera dell’avvenimento intesi che avevano arrestato mio fratello e poiché io non l’avevo visto che dalle ore pomeridiane in nostra casa, non mi curai andare ad informarmi perché mi si disse che lo trattenevano a motivo di una causa nella quale non voleva presentarsi in Pretura e perché io mi trovavo stanco.
– E perché ti sei allontanato dal paese?
Mi allontanai dal paese perché dimoriamo a Pizzinni e là nel mio fondo mi sono trattenuto e ho sfuggito i Carabinieri perché Giuseppe De Paola mi avvertì che era stata uccisa mia cognata e che mio fratello Biagio aveva incolpato me dell’omicidio
– L’accusa di tuo fratello è precisa e circostanziata.
Mio fratello può dire che sono innocente; se lo nega egli mentisce
– Ti sei appostato dietro al portone e quando tua cognata è uscita l’hai ammazzata, questa è la verità!
Maria Gabriele uscì prima di me da casa Lauria e con lei la figlia. Dopo poco uscii io e non le vidi.
– Chiedilo a tua nipote. Lei dice che tu sei uscito prima di loro…
Mi correggo: la ragazza Caruso mi precedè colla madre come ho detto e non le rimasi in casa Lauria
Biagio e Vincenzo vengono messi a confronto e Biagio, tra le lacrime, ritratta la confessione accusando i Carabinieri di avergliela estorta. Ma le testimonianze che inchiodano Vincenzo sono precise, specialmente quella della nipotina:
Scendevo con mia madre dalla casa dalla casa Lauria, quando nell’uscire dal portone mia madre fu assalita da zio Vincenzo Caruso che uscì da dietro un battente e le vibrò tre colpi vicino alla gola con un lungo coltello, scannatore di porco. Io mi trovai di mezzo e mia madre gridando verso donna Rosina Lauria che era rimasta in casa disse: “Corri donna Rosina che mi hanno ammazzato” e fuggì nell’interno del portone. Non intesi profferire parola da mio zio il quale, dopo il ferimento, immediatamente fuggì.
Anche don Zaccaria smentisce la ricostruzione di Vincenzo
La sera dell’avvenimento venne da me Vincenzo Caruso mentre io non l’aspettava giacché da due mesi non si era fatto vedere. Questo fatto mi impressionò e manifestai a lui la mia sorpresa. In mia casa si trovava anche Maria Gabriele; il Vincenzo mentre avea detto esser venuto a farsi i conti, poi in fatti si rifiutò adducendo in scusa che mancava suo fratello Biagio ed andò via. dopo cinque o sei minuti io feci accendere la lanterna e scesi con mio nipote Arturo Lauria alla stalla. In questo mentre Maria Gabriele, che poco prima era andata da mia figlia Rosina, intesi che gridava dal portone “Ajuto mi ha ammazzato Vincenzo Caruso”. Fu un grande all’arme ed accorrere; io vidi allora fuggire dal mio portone un uomo che dall’altezza e dalle altre forme del corpo riconobbi per Vincenzo Caruso.
– Che voi sappiate – gli chiede il Pretore – Maria aveva altri nemici?
Maria Gabriele non aveva altri nemici senonché la famiglia ed i fratelli Caruso, stante la sua leggerezza di costumi
Questa è la costante nei racconti dei testimoni: la leggerezza di costumi di Maria, ma nessuno è in grado di dare una prova certa dei suoi supposti tradimenti. Avrebbe forse potuto farlo don Luigi Lauria ma gli inquirenti si guardano bene dal convocarlo per interrogarlo. Poi ci sarebbe da chiedersi come mai un uomo integerrimo come don Zaccaria abbia accolto in casa la donna – che lui stesso definisce leggera di costumi – accusata dalla voce pubblica di essere la concubina del figlio. Avrebbero potuto chiederglielo ma non lo hanno ritenuto, forse, opportuno.
Il 29 luglio 1892 la Sezione d’Accusa decide il rinvio a giudizio di Vincenzo Caruso per omicidio premeditato e di Biagio Caruso per concorso in omicidio premeditato.
La Corte d’Assise di Cosenza, il 23 novembre 1892, esclude l’aggravante della premeditazione e condanna Vincenzo a 11 anni, 1 mese e 10 giorni di reclusione e Biagio a 2 anni e 6 mesi.
Sembra essere una pena tutto sommato mite ma il Giudice motiva, riferendosi a Vincenzo, i criteri adottati per la determinazione della pena stessa: il reato di cui deve egli rispondere è punibile colla reclusione da diciotto a ventuno anni e la Corte crede dover partire da anni venti, che per la lieve provocazione la pena scende di un terzo e quindi ad anni tredici e mesi quattro, che per trovarsi egli all’epoca del reato maggiore dei diciotto anni e minore dei ventuno, la pena scende di un sesto e quindi si riduce ad anni undici, mesi uno e giorni dieci.
Per quanto riguarda la pena inflitta a Biagio, scrive il Giudice: la pena poteva essere metà di quella che si poteva infliggere all’autore del reato, così si applica per anni dieci, che per la provocazione lieve tale pena va ridotta di un terzo e quindi scende ad anni sei e mesi otto; che per essersi egli trovato all’epoca del reato maggiore degli anni quattordici e minore dei diciotto la pena, oltrepassando i sei anni ma non i dodici come nella specie, si applica nella durata da tre a sei anni e la Corte crede doversi fermare al minimo, che per le attenuanti, dovendosi ancora discendere di un sesto, la pena si riduce ad anni due e mesi sei.
Il 6 febbraio 1893 la Suprema Corte di Cassazione rigetta i ricorsi dei fratelli Caruso i quali, tuttavia, beneficiano dell’amnistia del 22 aprile 1893, vedendosi condonare 3 mesi ciascuno.[1]

 

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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