Giovanni Maione nasce il 28 febbraio 1920 ad Amantea ed è subito sfortunato: ha un padre ma non si sa (ufficialmente) chi sia la madre. Di Francesco e di madre ignota, recita il suo atto di nascita. Ma l’arcano è presto spiegato: Francesco Maione, suo padre, è rimasto vedovo con un figlio, Alfonso, quando inizia una relazione – di cui non si deve sapere nulla perché ancora non è passato il tempo del lutto – con Maria Rosaria Feraco, che gli darà altri tre figli. A 18 anni ad Antonio capita la sua seconda sfortuna, ancora peggiore della prima: in seguito a una deformazione della colonna vertebrale diventa gobbo.
Giovanni, siamo nei primi anni ’50, abita con la famiglia a Terrati, una frazione del comune di Lago, quando la sua sorella minore Giuseppina viene data in moglie a tale Antonio Buffone. Per il matrimonio Giuseppina riceve in regalo da sua madre un appezzamento di terreno, su parte del quale la donna si riserva i diritti di usufrutto. I suoceri della ragazza, però, non si dimostrano particolarmente entusiasti di questa soluzione e insistono affinché il pezzo di terra sia cointestato agli sposi. Giuseppina non cede e cominciano i guai in famiglia.
– I miei suoceri non volevano che mia madre andasse nel fondo perché dicevano che essi l’avevano lavorato e che quindi ne erano diventati padroni – racconta Giuseppina – e mio suocero si manifestò violento nei miei rapporti e incitava il figlio che qualche volta mi usò violenza.
Arriviamo, con questo stato di cose, all’estate del 1953 e Giovanni non è affatto contento di quanto accade alla sorella.
Il 27 luglio Giuseppina e suo marito vanno nel fondo di contrada Fiascone, dove già si trovano i suoceri, per lavorare. Dopo la pausa per mettere qualcosa sotto i denti, Giuseppina torna a lavorare di zappa e nota che suo suocero e suo marito si allontanano di qualche metro e si mettono a parlottare sottovoce, poi suo marito, visibilmente infastidito, le si avvicina.
– Patrima mi ha detto che ieri c’è stata mammata a raccogliere dei pomodori…
– Ebbè? Lo sai che ha l’usufrutto, non c’è niente di strano… sempre con questa storia!
Antonio non gradisce la risposta della moglie e la picchia. Giuseppina, pesta, si mette a piangere mentre i suoceri le si avvicinano minacciosi.
– Mammata non è più padrona qui, lo hai capito o no? – le urla in faccia la suocera, mentre il suocero fa il gesto di schiaffeggiarla, ma è fermato da Antonio, il quale frattanto si era calmato.
Giuseppina, tutta sconvolta e piangente, prende il suo bambino e torna in paese. Sono quasi le cinque e fa molto caldo. È scoraggiata quando si ferma da sua madre per bere un bicchiere di acqua fresca e raccontarle l’ennesima discussione terminata, come sempre, con le botte. Poi torna a casa sua. È ormai ora di cena.
Giovanni Maione sta passeggiando con alcuni amici lungo la via principale del paese e si ferma vicino al Tabacchino che si trova ad un capo della piazzetta del paese, proprio dove inizia la strada che porta ad Amantea. Il quel momento, dalla strada provinciale che viene da Cosenza, sbuca sulla piazzetta Giuseppina con il bambino: la sua casa è proprio all’angolo tra la piazzetta e la Provinciale, quasi di fronte al Tabacchino. Giovanni la vede, ha i capelli tutti scarmigliati e gli occhi lucidi e gonfi. Le si avvicina e la sorella gli racconta l’accaduto.
– Ben ti sta, l’hai voluto ed ora tieniti anche l’amaro! – la rimprovera. Ma poi, davanti alla descrizione più particolareggiata dei fatti e alle lacrime della sorella che scendono sempre più abbondanti, sbotta – Ah! Caspita, questi non la vogliono finire… debbo fare venire il Maresciallo per questo disgraziato! – Tutti si girano verso di lui. Giuseppina gli sussurra qualcosa, apre la porta di casa ed entra con il figlio. Gli amici si avvicinano e Giovanni racconta loro, per sommi capi, ciò che la sorella gli ha riferito. Questa sera debbo fare quello che debbo fare, lo sentono borbottare. In questo preciso momento sbuca dalla Provinciale Antonio Buffone. Giovanni lo vede, si fa largo tra i presenti e affronta il cognato con fare minaccioso:
– Perché hai menato mia sorella? Già altre due
volte l’hai menata.
volte l’hai menata.
– E tu che cazzo vuoi? – gli risponde Antonio mentre gli dà uno spintone e lo allontana. Giovanni si fa sotto di nuovo ma il cognato gli sferra un calcio nelle parti basse facendolo cadere per terra. Giovanni si rialza e mette una mano nella tasca di dietro dei pantaloni e quando la toglie, la lama del coltello prima si tinge del rosso del sole ormai quasi del tutto tramontato, poi si tinge del rosso del sangue di Antonio, colpito da due coltellate: una che sembra piuttosto profonda all’addome e un’altra dietro la scapola sinistra.
– Ah! Mi hai ammazzato! – urla Antonio che si mette a correre verso la casa del medico.
Tutti i presenti si mettono a gridare e attirano la gente che è in casa. Anche Giuseppina esce sulla strada e, resasi conto di ciò che è successo, urla lanciandosi verso il fratello che non le dà retta e si allontana dal posto.
– Ntonuzzu miu, sono stata io la causa!
Il dottor Venturino Magliocchi non ritiene che le ferite siano particolarmente gravi e giudica che Antonio guarirà entro una decina di giorni, ma dopo qualche ora le sue condizioni si aggravano e il medico ordina che sia portato in tutta fretta all’ospedale di Cosenza, dove, prima di essere sottoposto a un delicato intervento chirurgico, risponde alle domande degli Agenti di Polizia:
– Ieri sera, verso le ore 20, mentre facevo ritorno dal lavoro, giunto a pochi passi dalla porta di casa mia, venivo avvicinato da mio cognato che mi rivolgeva le seguenti parole: “Sei un mascalzone” ed estratto dalla tasca destra del pantalone un coltello a serramanico, si avventava contro di me vibrandomi due coltellate, dandosela subito a gambe…
– Perché vi ha accoltellato?
– Circa due mesi fa si presentava in casa mia mio cognato che, senza alcun motivo, incominciava ad offendermi con delle parole ma io, constatato che era ubriaco, per evitare delle discussioni lo cacciavo fuori di casa e così da quella sera non ci siamo più parlati… non ci sono altri motivi all’infuori di questo…
È l’alba del 28 luglio quando l’autoambulanza che si è fermata nella piazzetta di Terrati spegne la sirena e il lampeggiante. Due portantini prendono la lettiga con Antonio Buffone, ormai in coma, e lo portano in casa. Purtroppo le ferite, contrariamente a quando aveva diagnosticato il medico condotto, sono più gravi del previsto e l’intervento chirurgico non ha risolto i problemi dovuti alle numerose perforazioni dell’intestino. Antonio muore verso il tramonto.
Di Giovanni Maione non si hanno altre notizie se non che dopo essere scappato si è fatto medicare un leggero taglio al braccio sinistro dal dottor Florindo Longo di Aiello Calabro. Poi la confidenza di un paesano avvisa il Maresciallo Olinto Bonciani, comandante la stazione di Lago, che il ricercato si aggira nelle campagne intorno a Terrati e che ha fatto sapere ad amici di volersi costituire nella carceri mandamentali di Amantea od in quelle giudiziarie di Cosenza. Comincia una trattativa a distanza tra il Tenente Filiberto Lancione, comandante la Tenenza di Paola, che ha assunto la direzione delle indagini, e gli amici di Maione. Alla fine il ricercato fa sapere al Tenente che intendeva costituirsi direttamente a lui, purché lo traducesse direttamente a Paola o nelle carceri di Amantea. Lancioni accetta e Maione gli fa sapere che si sarebbe portato subito in S. Pietro in Amantea e che lì avrebbe atteso i Carabinieri. Lancioni, con il Maresciallo Bonciani e il Maresciallo Antonino Siscari, parte a tutta velocità in macchina verso il luogo dell’appuntamento ma, giunto sul posto gli dicono che il latitante si era costituito a quella guardia municipale e che questa aveva già provveduto – a mezzo autocorriera – ad accompagnarlo in Amantea. I tre Carabinieri si lanciano all’inseguimento del pullman a velocità folle e riescono a raggiungerlo ben prima di entrare nella cittadina, prendono in consegna Maione e lo portano nella caserma di Amantea.
– La sera del 27 luglio verso le ore 19, lungo la strada ho incontrato mia sorella la quale piangeva e mi riferiva ch’era stata picchiata dal marito nonché dai suoceri. Tale fatto non era la prima volta che si verificava. Dopo un po’ è passato mio cognato, io mi trovavo con alcune persone. Ho fatto presente a mio cognato che avrebbe dovuto finire di maltrattare mia sorella e questi, per tutta risposta, mi diede uno spintone facendomi cadere a terra. mi sono alzato e mio cognato mi ha tirato un calcio, tanto che poi sono rimasto accovacciato. Mentre ero accovacciato, mio cognato si è avvicinato tirandomi colpi sulle spalle. Fu allora che estrassi il coltello ed infersi due colpi a mio cognato ma la mia intenzione non era quella di uccidere.
Ma questa ricostruzione non coincide con quelle, univoche, fornite dai testimoni oculari i quali sostengono che la vittima non ha reiterato le percosse quando Maione era a terra e quindi non ci sarebbe stata la necessità di colpirlo col coltello.
– Se vi è qualcuno che afferma contrariamente a quanto da me dichiarato, dice il falso. Io ho tirato fuori il coltello dopo essere stato malmenato da mio cognato.
– Come mai giravi armato?
– Io quel giorno non avevo addosso coltelli… cioè… quel giorno mi sono recato in campagna in contrada Messati vestito con un pantalone da lavoro ed ero sprovvisto di coltello; quando ritornai dalla campagna passai da casa per cambiarmi i pantaloni dove in una tasca avevo due coltelli ed è così che mi sono trovato in possesso dei ripetuti coltelli.
– Due coltelli? E dove sono adesso? – gli chiede il Tenente e Giovanni indica il punto preciso nelle vicinanze di Terrati dove ha buttato le armi. Dice la verità perché i Carabinieri li trovano esattamente dove ha detto, in località Ceraso all’angolo di un muro.
I coltelli, entrambi a serramanico, sono abbastanza diversi tra di loro: uno è vecchio e mancante di una delle guance di osso dell’impugnatura, con la lama lunga cm 6,5, a punta semiacuminata e con manico lungo cm. 9 circa; l’altro, quasi nuovo, con manico di osso e fascetta di ottone lungo cm. 10,50 circa e con la lama molto acuminata e lunga cm. 8. È questa l’arma del delitto.
Che Giovanni non avesse coltelli durante le ore di lavoro è confermato da alcuni testimoni che erano in sua compagnia, i quali affermano che non gli fu possibile tagliare della ginestra perché sia lui che il compagno erano sprovvisti di coltello.
Questa circostanza potrebbe far escludere la premeditazione ma spuntano altri testimoni che riferiscono particolari che potrebbero inguaiare lui e sua sorella:
– Verso le ore 18-18,30 del 27 corrente – racconta Alberto Bruni – mentre ero intento a falciare dell’erba per l’asino nel mio fondicciuolo sito nella località Fiascone, limitrofo ai terreni di Buffone, sentii la Maione Giuseppina che discuteva accaloratamente con il proprio marito e con i suoceri. Ad un certo punto vidi la Maione che si allontanava con un bambino in braccio e sentii che la stessa diceva: “Dentro la mia proprietà non voglio vedere nessuno… questa sera ve la faccio pagare!”
Che sia stata Giuseppina a istigare il fratello? Se così fosse, le cose cambierebbero radicalmente. Partendo da questa possibilità, gli inquirenti riesaminano tutte le dichiarazioni e trovano, a loro dire, delle incongruenze:
se avesse avuto solo intenzione di chiedere al cognato spiegazioni in merito a quanto gli aveva riferito la sorella, non avrebbe certamente apostrofato lo stesso con parole ingiuriose e con tono minaccioso, tanto da provocare un risentimento immediato da parte di quello; se non avesse avuto intenzione di ferire o uccidere il cognato, se vero quanto ha dichiarato la teste Guzzo Nellina, non avrebbe detto poco prima del fatto: “questa sera farò quello che debbo fare”; né, infine, se avesse avuto intenzioni pacifiche, si sarebbe dovuto trovare, al momento del fatto, in possesso di coltelli dato che un’ora o mezz’ora prima ne era sprovvisto.
La difesa di Giovanni Maione viene assunta da Luigi Gullo e sulle circostanze che hanno determinato la morte di Antonio Buffone giudicherà la Corte di Assise di Cosenza, visto che l’imputato viene rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario. È il 15 febbraio 1954 e l’inizio del dibattimento è fissato per il 9 giugno successivo.
Durante il dibattimento alcuni testimoni modificano le proprie dichiarazione e adesso affermano di aver visto la vittima chinarsi su Giovanni Maione e afferrarlo per la gola o per le spalle. Solo in questo momento furono vibrate le due coltellate. D’altra parte non potrebbe spiegarsi altrimenti la ferita alla scapola sinistra data la differenza di statura tra Buffone, alto 175 centimetri e Maione che viene definito un povero nanetto e per giunta gobbo.
Dopo 4 udienze, il 14 giugno 1954, la giuria presieduta da Giovanni Salerno, sentite le richieste del Pubblico Ministero Mario Calfa, delle parti civili rappresentate dagli avvocati Riccardo Manfredi e Francesco Vaccaro e dal difensore dell’imputato, dichiara Giovanni Maione colpevole del reato di omicidio preterintenzionale e lo condanna a 8 anni di reclusione, di cui 3 anni condonati, e pene accessorie.
Luigi Gullo propone ricorso in Appello per il suo assistito All’infelice gobbo – che richiama alla mente dell’estensore della sentenza (quanta inutile retorica) il gobbo del Quarticciolo!!! – dopo che in istruttoria era stato riconosciuto, e dal G.I. e dal P.M., un raptus emotivo causato dall’atteggiamento altrui ingiusto e imperdonabile, è stata negata la provocazione, pur concessa dal P.M. in udienza. Ed è stata negata con questa argomentazione: Non è provato che la sorella del Maione le prendesse dal marito, sebbene risulti che le prendeva dal suocero convivente; dunque non è giusto il risentimento del Maione che, accolta la sorella scarmigliata e piangente, affronta il cognato a male parole; e, pertanto, non sono provocatorie le percosse che il cognato oppone alle ingiurie, integrando esse una legittima reazione… Sembra un’ironia quello che ho detto fin qui. Eppure è la motivazione della sentenza!!! (…) Non è, però, quello di Maione un processo di provocazione e motivi morali. È processo di qualcosa in più: di legittima difesa reale, quanto meno putativa; e, subordinatissimamente, di eccesso:
– si avvicinò al cognato senza armi in mano: se voleva aggredire non avrebbe indugiato;
– ingiuriò, più che per offendere, per chiedere spiegazioni di un pianto e di un dolore;
– chi è in torto non risponde con la parola della pace, ma colpisce: colpisce il piccolo, povero gobbo e lo respinge lontano, umiliandolo, accoppandolo;
– il piccolo gobbo, che non sa cosa farà l’altro, cava di tasca un coltello e colpisce; colpisce l’altro che non è scappato, non si è allontanato, non mostra le terga: insomma non ha fatto nulla per dare la sensazione che non colpirà più, che non insisterà nell’aggressione.
C’è o non c’è la discriminante?
La Corte crede di risolvere tutto cogliendo qualche piccola contraddizione nei vari interrogatori del Maione. Ho dimostrato e dimostrerò che queste contraddizioni non esistono. Esiste soltanto una diversa redazione di un racconto che è sempre lo stesso: diversa redazione che si spiega con il fatto che a dettare non era sempre la stessa persona, ma prima un carabiniere, poi un Pretore, poi un Giudice Istruttore, poi un Presidente di Corte d’Assise… quanta scarsa comprensione della nostra povera umanità in questo spaccare il capello in quattro alla stregua della parola in più o in meno detta dal disgraziato imputato!!!
Contro questi argomenti non so farla la polemica. Né so farla contro la tesi dell’ira non causata da un fatto ingiusto ma da prepotenza stravagante, che son due parole che non chiariscono una situazione psicologica. Né, tanto meno ancora, la polemica la so fare contro una sentenza che nega i fatti ammessi da tutti i magistrati che avevano studiato e letto il processo: ossia i maltrattamenti e la condotta ingiusta di tutti i Buffone.
Fuori dagli interrogatori e dalle volute contraddizioni, contro la legittima difesa la sentenza non dice nulla. Soprattutto si guarda bene dallo spiegare perché mai se il Maione avesse agito per prepotenza stravagante, lui gobbo e misero e debole, si avvicina al cognato senza armi e lo colpisce soltanto dopo essere stato percosso e malmenato!!
– non si comprende, infine, la eccessività della pena, mantenuta oltre il minimo.
La fissazione del processo d’Appello va per le lunghe e in questo frattempo Giovanni Maione comincia ad accusare forti dolori alla schiena che in breve lo portano all’immobilità delle gambe e langue in un lettino dell’infermeria del carcere. Dopo molte insistenze del suo avvocato, tendenti ad accertare le sue condizioni di salute per ottenere la libertà provvisoria in attesa dell’Appello, lo mandano per accertamenti neurologici specialistici al Manicomio Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (sic!), dove gli specialisti, fatta una radiografia della colonna vertebrale, attestano che Maione soffre di una Intensa carie ossea con parziale distruzione del corpo e delle ipofisi spinose delle prime tre vertebre lombari. Segni di osteoporosi a carico delle vertebre lombari. Detta carie può essere dovuta a fattore specifico o neoplastico e confermano che i movimenti attivi degli arti inferiori sono impossibili, quelli passivi si compiono con difficoltà, mettendo in evidenza una discreta resistenza; si nota anche ipotrofia muscolare. La sensibilità tattile è diminuita: la deambulazione è completamente abolita. Gli fanno anche i raggi al torace che mostrano la gabbia toracica enormemente deformata, iperplasia all’ilo sinistro, tenue opacità dell’apice destro, poi le analisi delle urine e le reazioni del Wasserman che danno esito negativo.
E dato che siamo in un manicomio giudiziario non può mancare, anche se non richiesto, un esame psichiatrico che dimostra una coscienza lucida, percezione non turbata da allucinazioni, comprensione pronta, memoria buona. Il patrimonio ideativo è adeguato al suo grado sociale e non si apprezzano turbe del corso e del contenuto delle idee. L’intelligenza, il giudizio e la critica sono normalmente evoluti. Il contegno è corretto, la condotta è tranquilla.
Tutti fattori che lascerebbero pensare che Giovanni Maione, per le sue condizioni di salute, può ottenere la libertà provvisoria ma i medici che stilano la relazione, dottori Pietro Basile e Aldo Madia, non sono d’accordo e continuano: Non è abbisognevole di particolari cure ma solo dell’assistenza di un piantone nelle infermerie in comuni Stabilimenti. Può, quindi, essere ritradotto alle carceri Giudiziarie di Cosenza, dalle quali proviene. Qualora non sia possibile in detto Istituto assicurargli l’assistenza necessaria, quella Direzione potrà richiedere l’assegnazione del Maione ad una Casa per Minorati Fisici.
È il 9 maggio 1955 e a Barcellona non si smentiscono: lì non si conosce la pietà, lì non c’è mai altra soluzione che l’internamento, non fa differenza se si è sani, storpi o matti.
Luigi Gullo reitera l’istanza di scarcerazione, scrivendola a stampatello: non faccio nessuna allusione alle recenti disposizioni innovatrici in materia procedurale, le quali hanno accolto l’invocazione di una vecchia e costante dottrina volta a ottenere che il cittadino stia in galera in casi eccezionali e gravi e che la data di celebrazione del processo cessi di essere la data della liberazione invece di essere quella in cui ha inizio l’espiazione. Ho tentato di far fissare la discussione dell’appello: non ci son riuscito. Vi chiedo che concediate LA LIBERTA’ PROVVISORIA. Non posso esibire la documentazione medica. La Direzione delle Carceri la offre soltanto se la si richiede di ufficio. Richiedetela, quindi, Voi. Apprenderete, dunque, che Maione è un finito…
Non ho l’ombra del dubbio su l’accoglimento di questa umana, fondata, giusta richiesta. La quale, se accolta, non libererà un uomo ma un mezzo uomo, ammalato, sfortunato, infelice.
L’istanza è respinta e la libertà provvisoria è negata.
Il processo d’Appello comincia e finisce il 4 agosto successivo con una parziale riforma della sentenza di primo grado: a Giovanni Maione viene concessa l’attenuante dello stato d’ira e la condanna è fissata in 5 anni e 4 mesi di reclusione.
Viene preannunciato ricorso per Cassazione ma il 22 ottobre 1955, non avendo presentato nei termini i motivi di sostegno del proprio gravame, la pena diventa esecutiva.[1]
Tutto calcolato, a Giovanni Maione restano da scontare un paio di mesi in carcere, poi continuerà a scontare a casa l’ergastolo della sua malattia.
[1] ASCS, Processi Penali.
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