LA NOTTE DI SANTO STEFANO

È buio da qualche ora, fa freddo e piove a dirotto la sera di Santo Stefano del 1901. Maria Assunta Serra e la madre Filomena Guido sono sedute in cucina davanti al braciere acceso, in attesa che Francesco, rispettivamente fratello e figlio delle due donne, chiuda l’osteria al piano sottostante e salga a desinare.

– Che tuoni strani – osserva Maria Assunta sentendo provenire da lontano una specie di esplosioni in successione.

– Non sono tuoni, sono scuppettate, qualcuno che si diverte per la festa – osserva la madre distrattamente.

Non passano che pochi minuti e il suono di voci concitate, accompagnate da quello che sembra il rumore di persone che corrono sulla strada fangosa, fa dire a Filomena:

– Deve essere successa qualcosa, avvisa tuo fratello…

Maria Assunta si mette a urlare nella tromba delle scale per mettere sul chi va la il fratello e questi, ancora in compagnia dell’ultimo avventore, socchiude la porta della cantina per sbirciare e distingue le sagome di quattro uomini che si sono fermati lì accanto a parlottare.

– Io mi volto… – Francesco Serra riconosce nell’uomo che parla un certo Francesco Lopez di Torzano.

Caminacamina che se ne parla domani! – la voce è quella di Michele Vitelli. Poi i quattro cominciano a correre lungo la strada mentre la pioggia si fa più insistente.

Cosa è successo a Scalzati la sera del 26 dicembre 1901? Torniamo indietro di qualche ora.

Michele Vitelli è di Scalzati, frazione di Casole Bruzio, ha vent’anni e fa il muratore. La mattina di Santo Stefano dovrebbe andare a lavorare a Torzano per conto di Cesare Lopez, ma vuole godersi il giorno di festa e resta a letto. Cesare Lopez, da parte sua, infuriato per l’assenza del muratore, manda a Scalzati il proprio figlio Francesco a informarsi sul perché dell’assenza. Francesco, 23 anni, arriva a Scalzati verso le dieci del mattino e trova il muratore ancora a letto.

– Mò sono cazzi tuoi, chi lo sente a papà!

– È festa… mi seccava… lo sai che ti dico? Visto che sei qua, oggi mangi a casa mia. Ora mi vesto, usciamo, ci andiamo a fare un bicchiere di vino buono alla cantina, poi mangiamo e poi… e poi vediamo come piglia!

Francesco Lopez non ci pensa un attimo ad accettare l’invito, “oggi è festa, poi a papà gli invento una scusa”, pensa. Alla cantina di Francesco Serra trovano una bella compagnia e si danno appuntamento per il primo pomeriggio: una partita a carte, un padrone e sotto e poi tutti a cantare la strina a qualche paesano. Chitarre, mandolini e sauzieri[1] non mancano. Questo è il programma.

E così quel pomeriggio, nella cantina di Francesco Serra, posta al bivio per Trenta, si ritrovano una decina di amici. Oltre al cantiniere, a Michele Vitelli e Francesco Lopez, ci sono tra gli altri anche Eugenio Napoli, venticinquenne falegname di Cribari, e gli scalzatesi Pietro Longo, ventiduenne falegname, e Salvatore Serra, di diciotto anni e anch’egli falegname.  C’è chi gioca a carte e chi prepara le rime per la strina da portare a don Angelo Salatino, il prescelto. Tutti, ovviamente, hanno davanti un ottavino molto più spesso vuoto che pieno.

Ad un certo punto si affaccia sulla porta un certo Giuseppe Lupinacci di Casole, già visibilmente ubriaco. Lupinacci non è ben visto a Scalzati e tutti storcono il muso quando chiede di poter giocare con loro a padrone e sotto, ma attraverso i buoni uffici di Salvatore Serra lo accettano al tavolo. Qualcuno dei giocatori si parla all’orecchio guardando sia Salvatore che Lupinacci e i due vengono, inesorabilmente, lasciati all’umbra, senza assaggiare un solo goccio di vino. Il casolese, scornato e ubriaco per conto suo, saluta la compagnia e se ne va barcollando; Salvatore Serra esce dietro di lui e lo accompagna. I suoi amici lo sfottono chiamandolo col nomignolo di Lupinacci: Cecanella.

– Vai, vai… sei proprio un Cecanella fottuto! – gli urla dietro qualcuno con risentimento. Salvatore non ci fa caso e dopo un po’ torna nella cantina, giusto in tempo per prendere la chitarra e incamminarsi, sotto la pioggia che ha ricominciato a cadere abbondante, verso la casa di don Angelo Salatino.

Come vuole la tradizione devono cantare parecchio prima che il padrone di casa apra la porta e li complimenti con un bicchierino di moscato e un po’ di pane e salsiccia. I suonatori non sono soddisfatti del trattamento ricevuto perché non sono stati accolti in casa, come è tradizione, ma lasciati per strada sotto la pioggia e si riuniscono per decidere cosa fare per proseguire la serata. Qualcuno, infreddolito se ne torna a casa ma altri, Michele Vitelli, Eugenio Napoli e Pietro Longo, accettano l’invito di Francesco Lopez di andare a casa sua a Turzano per continuare a bere e cantare.

– Non voglio venire disarmato, mi dovete aspettare cinque minuti che mi faccio restituire il revolver da Ciccio Martirano – dice agli amici Eugenio Napoli e parte di corsa verso la casa dell’amico.

– C’è rimasto solo un colpo… gli altri quattro li ho sparati per divertirmi – gli risponde l’amico.

– Non fa niente, dammi qua, ho fretta! – quasi gli strappa il revolver dalle mani e torna di corsa dagli amici.

– Stai tranquillo, non c’è bisogno del tuo revolver, ho il mio carico – lo rassicura Michele Vitelli aprendo la giacca e mostrando il suo revolver infilato nella cintura.

– Vengo anche io! – la voce di Salvatore Serra risuona alle loro spalle.

I quattro amici si guardano nel buio illuminato a giorno da un lampo e Michele Vitelli tronca categoricamente ogni possibilità a Serra.

– Vai a Casole dal tuo amico Cecanella, noi siamo gente seria! – e così dicendo si incammina lungo la via che porta a Cosenza, da dove prenderanno la scorciatoia per Turzano, seguito da Francesco Lopez ed Eugenio Napoli. Pietro Longo si è fermato a parlottare con Salvatore Serra nell’incavo del portone di Giuseppe Salatino. Gli altri tre camminano nel fango per una trentina di metri, poi si fermano per esortare l’amico a seguirli.

– Lascialo stare a quel Cecanella di merda, sbrigati! – gli urla Michele Vitelli. Salvatore Serra, che ha subito gli sfottò per tutta la sera non ce la fa più:

Ma vafanculu ca mò m’ha ruttu i cugliuni! – Michele non se la può tenere e torna indietro con passo deciso e fare minaccioso. Ora i due sono di fronte. Michele sotto la pioggia e Salvatore sotto l’arco del portone. Di fianco a lui c’è sempre Pietro Longo.

A chin’ha dittu vafanculu? Ora ti spacco la chitarra in testa – replica sollevando la sua chitarra nell’atto di volergliela davvero spaccare in testa, ma Pietro gli afferra il braccio e gliela toglie. Michele, disarmato, molla due ceffoni in faccia a Salvatore e i due si azzuffano, ma vengono prontamente divisi.

All’improvviso nelle mani di Salvatore appare un revolver e comincia a fare fuoco. Un colpo trapassa il mandolino di Eugenio Napoli e un altro gli buca la giacca e il gilet rompendo un bottone e questa è la sua salvezza perché il proiettile gli procura solo una lieve escoriazione. Non ci vede più. Ha un bastone in mano e urlando si scaglia contro Serra, che nel frattempo è stato immobilizzato da dietro da Francesco Lopez, e gli sferra una bastonata sulla fronte, spezzando il bastone in due. Michele Vitelli estrae il suo revolver, si avvicina all’avversario stordito, sanguinante e ancora trattenuto da Pietro Longo e gli spara a bruciapelo un colpo in pieno petto.

Salvatore urla dal dolore e capisce che Vitelli potrebbe sparargli ancora e sarebbe la sua fine. Approfittando del fatto che Pietro Longo lo ha lasciato, scappa e si lascia cadere sotto il muretto che delimita la strada, dove c’è un campo coltivato a granone. Vorrebbe darsi alla fuga ma inciampa e il dolore al petto gli toglie il respiro. Gli altri gli sono sopra e lo tempestano di calci e pugni dappertutto. Salvatore urla di lasciarlo stare che lo stanno ammazzando ma quelli sembrano delle belve assetate di sangue e continuano. Poi l’eplosione di un colpo di rivoltella riporta tutti alla calma. Eugenio Napoli ha sparato un altro colpo a bruciapelo contro Salvatore, colpendolo alle spalle.

I quattro si danno alla fuga risalendo il paese e Salvatore, con molta fatica, si rialza e si trascina sulla strada.

Sicuri che sia ormai tutto finito, i vicini escono in strada e aiutano Salvatore a raggiungere la casa di Filippo Salatino, dove viene fatto coricare. È cosciente e, anche se debolissimo perché perde molto sangue, racconta ai presenti come sono andate le cose.

– È grave, non lo toccate per nessun motivo – dice il dottore Michele Ponte che lo visita nella notte. Salvatore morirà dopo qualche ora e adesso i Carabinieri ricercano i quattro amici non più per tentato omicidio ma per omicidio volontario.

Eugenio Napoli viene arrestato nel letto di casa sua con un piede rotto, mentre gli altri tre fanno perdere le proprie tracce per qualche giorno e poi si costituiscono direttamente in Tribunale.

In paese si discute sulla inconsistenza del movente e qualcuno scrive una lettera anonima al Giudice Istruttore:

Ill Sig Giudice Istruttore del Tribunale di Cosenza

I cittadini di Scalzati, addolorati del barbaro omicidio volontario commesso in persona dello sventurato Serra, fù tutto la causa perché fù consigliato dal Segretario di Trenta e di quello di Casole; tanto vero che il Segretario di Casole Cognato dell’uccisore à dato uno dei suoi Revolver al detto Uccisore; forse perché avevano fra di loro dei livori e vendetta di sangue! Sicchè si prega V.S. di voler anche ordinare l’arresto, tanto del Segretario di Trenta, quale autore principale di tale traggedia, nonché di quello di Casole Bruzio perché come di sopra gli à all’uopo dato l’arma!!!

Preghiamo egualmente la vostra giustizia di non volere sentire affatto l’informi che Ella potrà prendere, tanto dai Carabinieri di Pedace e di Spezano Grande poiché ambo le Brigate sono molto amici tanto del Segretario di Trenta che quello di Casole.

Non ci presentiamo Noi di persona a tale principale accusa, Perche siamo ad un piccolo paese e sarebbe lostesso che succederebbe un epissodio molto sanguinolente!!!… Se V.S. non dara credito a questa verita Ella ci perdonera perché nostro mal grado dobbiamo rivolgere i nostri giusti lamenti presso le Autorita Giudiziarie Superiore.

Scalzati 1 gennaio 1902

La lettera non viene presa in nessuna considerazione, ma alcuni testimoni raccontano di dissapori esistenti tra la vittima ed Eugenio Napoli per una somma che quest’ultimo avrebbe dovuto rimborsare a Salvatore per alcuni lavori di falegnameria eseguiti su sua commissione e che fu causa di alcuni schiaffi che Salvatore ricevette da Eugenio, proprio nello stesso punto in cui fu ucciso.

Pietro Longo viene prosciolto in istruttoria mentre gli altri tre sono rinviati a giudizio. Michele Vitelli, che ha sparato il colpo ritenuto mortale, per omicidio volontario; Eugenio Napoli, la cui revolverata ha ferito solo lievemente Salvatore Serra, e Francesco Lopez, che teneva ferma la vittima mentre Vitelli gli sparava, per concorso in omicidio.

Il 27 aprile 1903 la Corte d’Assise di Cosenza condanna Michele Vitelli a cinque anni e dieci mesi di reclusione per omicidio volontario col beneficio del vizio parziale di mente perché riconosciuto ubriaco al momento del fatto; Eugenio Napoli a due anni e sei mesi di reclusione per aver preso parte alla rissa e poi ferito Salvatore Serra. Anche a lui viene riconosciuto il vizio parziale di mente per ubriachezza volontaria.

Francesco Lopez viene assolto.

Il 14 luglio 1903 la Corte di Cassazione rigetta i ricorsi di Michele Vitelli ed Eugenio Napoli.[2]

[1] Mortaio di ottone per pestare il sale che è usato nelle strine natalizie per tenere il tempo. Nda.

[2] ASCS, Processi Penali.

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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