A ROCCO PIACEVANO LE NESPOLE

È il 23 maggio 1951. Il tempo è bello a Corigliano Calabro e bisogna davvero fare uno sforzo per andare a scuola invece di dormire fino a tardi e poi andare a correre nei prati in fiore, magari rubando un po’ di frutta appena matura per fare merenda. Ma bisogna pazientare ancora qualche giorno, poi ci saranno le pagelle e tutto sarà finito.
Rocco ha 8 anni e fa la prima elementare. La mattina del 23 maggio non ha voglia di andare a scuola, ma sua madre non vuole sentire ragioni e così lo ha preparato come al solito, pulito e vestito come si deve, con un pantaloncino di velluto color tabacco tenuto su dalle bretelle, una camicia di seta rossa con sopra una maglietta di lana marrone e sopra ancora una maglietta a fantasia a quadroni verdone. Scarpe di suola e calzini corti variopinti completano tutto, lasciandogli scoperte le gambette. Rocco è imbronciato quando prende da sopra il tavolo della cucina i suoi due quaderni, uno a righe e uno a quadretti, la penna, l’astuccio e l’abecedario e si avvia alla porta di casa.
– Il fazzoletto! Vieni qui che ti do il fazzoletto – lo richiama sua madre, che gli porge anche venti lire e gli ricorda – quindici lire le dai al maestro per l’offerta alla Croce Rossa e con le altre cinque ti compri i biscotti per merenda… ora vai se no fai tardi! – e gli stampa un bacio in fronte.
– Va bene mamma! – le risponde sempre imbronciato, poi scende le scale e, una volta uscito dal portone di Via Garetti N. 7, si avvia verso la scuola tirando calci a un barattolo. Ma Rocco ha già deciso, a scuola non ci andrà, il sole è troppo invitante per chiudersi tra quattro mura umide ed è meglio bighellonare per strada fino all’uscita di scuola. I soldi al maestro li darà domani.
Rocco non fa niente di particolare la mattina del 23 maggio 1951, come non ha fatto niente di particolare tutti gli altri giorni che ha marinato la scuola perché, diciamocelo francamente, a Rocco la scuola non piace ma ci deve andare per fare contenta sua madre e soprattutto per fare contento suo padre che si spezza la schiena in Argentina e manda i soldi a casa per cercare di migliorare la condizione attuale e futura dei figli.
– Zia, stamattina Rocco non è venuto a scuola…
– Davvero? Quando torna facciamo i conti! – risponde la mamma di Rocco al nipote Angelo, mentre si mette di guardia alla finestra. Rocco la vede, dall’espressione capisce che sua madre sa della marachella e resta in strada, facendo disegni con le scarpe sulla polvere.
– Sali! – gli urla sua madre.
– No! Tu mi picchi!
– Sali ti ho detto! Sali che è pronto da mangiare…
– No! Mandami un po’ di pane…
– Tanto prima o poi devi tornare e facciamo i conti! – dice, spazientita, mentre porge al figlio più piccolo un pezzo di pane e uno di formaggio per portarli al discolo. Rocco si siede su un gradino e mangia avidamente, poi si mette a giocare nei dintorni di casa e sua madre ogni tanto gli butta un’occhiata per controllarlo. Così passa tutto il pomeriggio e la donna è convinta che Rocco sia sempre lì.
Ormai è sera, sono le 19,00 e la cena è pronta.
– Rocco! Sali che è pronto da mangiare! – urla dalla finestra, ma Rocco non risponde. “Più tardi te la faccio vedere io la cena…” pensa la donna.
Passa un’ora, poi un’altra e Rocco continua a non rispondere. Adesso sua madre è davvero arrabbiata ed esce per andarlo a cercare dagli zii che abitano lì vicino, ma non c’è e non è neanche dagli altri parenti. Nemmeno i vicini ne sanno niente. Tutti lo hanno visto fino a verso le 19,00 e poi sembra essere sparito.
Adesso non c’è più rabbia negli occhi della mamma, solo una grande preoccupazione che le attanaglia il cuore. Forse ha sbagliato a promettergli una bella sculacciata. Così lei, i parenti e i vicini si mettono in cerca del bambino in tutto il paese e nei campi intorno alle ultime case, ma senza successo. La donna è disperata e quando si avvicina la mezzanotte, tutti capiscono che è meglio andare dai Carabinieri per denunciare la scomparsa del bambino, ma anche le ricerche dei Militari sono infruttuose: di Rocco non c’è traccia. Vengono allertati anche i Carabinieri dei paesi vicini, ma il risultato è lo stesso.
Le ricerche proseguono per tutto il 24 da parte di tutto il paese però il bambino non si trova. Nessuno torna a casa nemmeno la notte seguente e la disperazione prende il posto della speranza: ormai si teme che possa essere accaduta una disgrazia.
La mattina del 25 maggio 1951 due contadini, marito e moglie, stanno andando ad accomodare una sorgente d’acqua esistente in un vallone della contrada “Verlucci” transitando per un piccolo viottolo sulla cresta della collina della predetta contrada, quando la donna vede sotto una pianta di ulivo, in fondo alla collina stessa, in atteggiamento di chi dorme, un bambino.
– Che ci fa lì quel bambino? – osserva la donna.
– Che ci fa? Dorme, non lo vedi? Dai non perdiamo tempo che è tardi.
– Ma non lo sai che avantieri è scomparso un bambino in paese? Me lo hanno detto alla fontana di San Francesco. E se fosse proprio quello? – adesso l’uomo si incuriosisce e guarda con più attenzione il bambino che sembrava dormisse.
– Ho capito… fammi andare a sincerarmi, se no chi ti sente! – sbuffa mentre, deviando dal percorso, si dirige verso l’ulivo e, arrivato a qualche metro di distanza, gli urla – Ehi tu! Svegliati! Come ti chiami? – nessuna risposta. L’uomo si avvicina ancora e ha l’impressione che qualche cosa di anormale era accaduto al predetto bambino. Impressionato, torna sui suoi passi e lasciata sua moglie in cima alla collina va a chiamare un vicino col quale ritorna sotto l’ulivo e, dopo aver guardato meglio in due, capiscono e si mettono a urlare e a correre verso il paese.
Il Maresciallo Maggiore Salvatore Savà si è appena seduto dopo due notti insonni quando sente le parole concitate di due uomini che chiedono di parlargli e, vedendo il Carabiniere Nicola Vennettillo e il Carabiniere Scelto Arturo Levato bianchi in volto come un lenzuolo, capisce. Con una bestemmia raccatta il cappello d’ordinanza dal tavolo e con i due uomini e i due Carabinieri si precipita sul posto, che è un luogo abbastanza solitario e fuori mano, lontano circa 500 metri in linea d’aria dalle ultime case dell’abitato e ci si arriva percorrendo un viottolo quasi impraticabile per la natura assai difforme e scoscesa del terreno.
L’ulivo ai cui piedi giaceva il cadavere si erge nell’infossamento di due colline che danno alla zona l’aspetto di una conchiglia che dalla parte restringente va a lambire, a circa 500 metri in linea d’aria, l’argine destro del torrente Coriglianeto, torrente che, sebbene non ricco di acque, presenta numerose deviazioni praticate artificialmente per alimentare molti mulini, e dà luogo a fragorose cascate il cui rumore, specie nelle ore notturne, copre ogni altro rumore della zona ed eventualmente anche grida e rantoli umani.
Dopo essersi fatto il segno della croce, con un fazzoletto premuto sulla bocca per attenuare l’odore tipico dei cadaveri in putrefazione, comincia a dettare:
Ai piedi di una pianta di ulivo rinveniva, cadavere, il predetto ragazzo giacente sul fianco sinistro in un piccolo spazio leggermente inclinato. Il cadavere, quasi bocconi, con la gamba destra leggermente disgiunta dalla sinistra, vestito solo di mutandine color bianco a righe nero-marrone, aveva al collo arrotolata la maglia marrone e al fianco sinistro un pantaloncino di velluto color tabacco, le cui bretelle erano sotto il cadavere. Ai piedi indossava calze di lana di vario colore, rattoppate; sul dorso nudo ed alle gambe si notano abbondanti lividure e ferite di varia lunghezza e forma, difformi ed in direzioni diverse. Il corpo giaceva su una pozza di sangue essiccata con traccia prolungata di sangue a un metro di distanza dalla testa del cadavere. Il corpo era denudato dalla cintola al collo e dalla radice delle coscie alle caviglie; incastrato fra due piccole pietre ai fianchi, appoggiate alla regione glutea; su entrambe le coscie e sulla parte visibile, si notavano chiazze di pelle mangiata da formiche; insetti che circolavano intorno alla chiazze stesse. Il busto era leggermente inclinato col braccio sinistro teso sotto la testa a mo di guanciale. La mano sinistra socchiusa, il braccio destro piegato in avanti a forma di V e flesso col braccio aderente al tronco e l’avambraccio che posava con la sua parte volare al suolo. La manina socchiusa come in atto di prendere, intrisa di sangue. Alla testa del cadaverino si notavano capelli neri corti; appiccicati al cuoio capelluto terriccio e sangue essiccato; in corrispondenza delle regioni parietali, e precisamente al centro di esse, si notavano forme di lividure; alla testa si notava una larga ferita; occhio destro semiaperto, occhio sinistro infossato e ricoperto da miriadi di piccoli vermi e larve di mosche che non permettevano altri rilievi; in corrispondenza del soparcciglio sinistro si notava una lesione ricoperta di sangue essiccato misto a terriccio e brulicante di formiche. La faccia del cadaverino era quasi interamente ricoperta di sangue e terriccio. Ai piedi del cadaverino, a distanza di metri 12 da esso, il Carabiniere Vennettillo rinveniva un paio di scarpe, certamente quelle del cadaverino, di color marrone, basse, seminuove, senza lacci, adagiate su un viottolo che dal quel punto, scendendo attraverso la campagna, raggiunge la strada campestre dei “Mulini”. A metri 1,26 dalla testa del cadaverino, per terra, si notava un fazzoletto di tela bianca, orlato di merletto, tutto intriso di sangue essiccato, raccolto come se spremuto. Ai piedi di detto cadavere e a cm. 50, si notava una pietra tagliente tricoforme intrisa di sangue nella parte rivolta in alto e cioè nella parte tagliente. Detta pietra è di circa Kg. 3. Altra pietra si notava in corrispondenza del tronco del cadavere a circa un metro da esso, piana, tutta intrisa di sangue nella parte rivolta all’insu. A 60 cm. dal corpo del cadaverino si rinveniva la copertina di un quaderno col nome “Rocco”, sotto al cadavere due quaderni, di cui uno a righe e l’altro a quadretti ed un libro della 1^ elementare. Ma non ci sono le 20 lire che avrebbe dovuto avere in tasca.
Il Maresciallo Savà capisce subito che non è stata un disgrazia a ridurre così il bambino e avvisa subito l’Autorità Giudiziaria. Il medico legale non ci mette molto, una volta rimosse le mutandine, a capire che Rocco è stato brutalmente violentato.
Vengono attentamente valutate la posizione del cadavere di Rocco e le posizioni di ogni singolo oggetto presente sulla scena del crimine e i Carabinieri giungono alla conclusione che si tratta di una messinscena attentamente studiata per cercare di sviare le indagini.
Ma chi ha potuto fare una cosa così orrenda? I Carabinieri indagano in più direzioni: dalla messinscena per occultare una eventuale lesione prodotta involontariamente da qualche contadino che lo avesse sorpreso a rubare frutta ad una eventuale vendetta messa in opera da ipotetici nemici della famiglia di Rocco, alla soppressione del ragazzo da parte di un bruto conosciuto dalla sua vittima che, dopo aver sfogato atti di libidine su di essa, per evitare di essere denunciato ha preferito sopprimerla. Le prime due ipotesi vengono subito scartate: la prima perché nelle vicinanze non ci sono frutteti e sarebbe impensabile che per nascondere una disgrazia qualcuno avesse anche violentato il bambino; la seconda ipotesi perché la famiglia di Rocco è ben voluta da tutti e non ci sono macchie nella moralità dei genitori; d’altra parte se qualcuno avesse voluto vendicarsi di qualcosa, avrebbe ucciso e abbandonato il bambino senza bisogno di usargli violenza. Resta in piedi la terza ipotesi ed è su questa che si concentrano le indagini. Vengono fermate alcune persone ma è chiaro che non c’entrano niente e sono rimesse in libertà dopo poche ore. Poi vengono controllati i registri della scuola elementare e si scopre che Rocco, bambino intelligente, a scuola ci andava poco ed era solito oziare sia davanti l’istituto scolastico, sito al Viale Rimembranze, sia nella vicina Piazza San Francesco.
Proprio nella piazza c’è l’Ospizio di Mendicità a cui si accede dal portone situato di fronte alla statua del santo. I Carabinieri vanno a dare un’occhiata anche lì in cerca di indizi utili alle indagini. All’edificio si accede da un vasto corridoio che immette dal lato destro nell’abitazione dei frati del convento, sita al primo piano, e dall’altro lato in un cortile che fa parte dell’Ospizio stesso, il quale è sistemato in alcune camere poste a piano terra e situate in fondo al corridoio dal quale si accede anche in un altro cortile, di proprietà del Comune, dove nei mesi estivi si proiettano film all’aperto e perciò il locale viene adibito a cinematografo estivo. Poi scoprono qualcosa che li incuriosisce: quel corridoio, durante il periodo scolastico, è usato come refettorio della scuola e quindi Rocco era solito entrarci. Può darsi che qualcuno lì dentro ha visto chi ha potuto incontrare il piccolo quel maledetto 23 maggio 1951. E infatti lì intorno vedono aggirarsi un ragazzo che sembra volersi avvicinare ai Militari ma non lo fa. Allora il Maresciallo Savà lo chiama e il ragazzo, forse liberato dalla responsabilità di prendere l’iniziativa, si avvicina: è Vittorio, un quindicenne apprendista calzolaio con una gamba paralitica che racconta delle cose che potrebbero essere decisive per le indagini:
– Siete venuti per il Diavolo? – fa al Maresciallo.
– Il Diavolo?
– Si, quello che lavora qui… lo chiamano tutti Diavolo perché accarezza i bambini…
– Cosa? Come si chiama? Lo ha fatto anche a te?
– Il nome è Leonardo ma il cognome non lo so… l’anno scorso mi portò nel corridoio dell’Ospizio e poi mi ha steso su delle sedie e mi ha fatto toccare a forza il suo cazzo che però non aveva cacciato dai pantaloni… io mi sono messo a gridare e lui mi ha lasciato stare.
Il Diavolo è il trentaquattrenne Leonardo Risafi che presta servizio al locale Ospizio, denominato “Cor Bonum”, da circa due anni e precisamente dall’ottobre 1949, disimpegnando le mansioni di spaccalegna e piccoli servigi quali trasporto frutta e verdura dalla piazza o dai negozi all’Ospizio ed altri mille umili servizi. Non era controllato perché la sua opera era semigratuita e cioè prestava per il solo mangiare, tranne qualche piccolo regalo in denaro. Indagando su di lui, si scopre che era solito frequentare il Cinema Comunale e di regola sedeva sempre tra i primi banchi tra i bambini, accarezzandone ora l’uno, ora l’altro per cui aveva destato sospetti nella direzione del Cinema che aveva dato ordine di espellerlo a mezzo della maschera del cinema stesso, dopo aver verificato che aveva preso di mira un ragazzino al quale palpava le gambette, il sedere e lo baciucchiava durante la proiezione di un film.
Ce n’è abbastanza per nutrire forti sospetti su di lui e, emesso il mandato di cattura, i Carabinieri lo arrestano, ma lui nega di aver mai conosciuto i ragazzini. Messo di fronte all’evidenza ammette di conoscerli, negando però di avere avuto cattive intenzioni. Poi esce allo scoperto un cuginetto di Rocco che racconta di essere stato anche lui oggetto delle attenzioni del Diavolo, precisando di essere stato da lui accarezzato spesse volte ed ovunque lo aveva incontrato. Un mattino dello scorso inverno che lo aveva incontrato nell’atrio del Cinema Comunale (quel mattino si eseguiva un matiné), gli chiese se poteva farlo entrare nella sala cinematografica ma il Risafi lo prese per una mano e gli disse “vieni con me a fare un servizio”, soggiungendo che per tale servigio gli avrebbe regalato venti lire. Lo condusse in Via S. Francesco dove il detto Diavolo si fermò per comprare un sigaro. Uscendo dalla rivendita di sale e tabacchi lo prese nuovamente per mano e, mettendogli venti lire in una tasca della giacca che indossava, riprese il cammino conducendolo in una località disabitata ed isolata dove, appena giunto, gli fece la proposta di farlo fregare, dicendogli le parole: “Mi fai ficcare?”. A queste parole, preso dalla paura, Angelo fuggì verso casa ma nulla disse a sua madre non avendone avuto il coraggio per la vergogna.
Il Diavolo nega sostenendo di non entrare nel cinema da tre anni e di non conoscere il bambino, ma gli impiegati del cinema lo smentiscono sostenendo che nel periodo indicato dal bambino, Risafi andava ancora regolarmente al cinema e il bambino ha detto la verità perché, da un controllo fatto sui registri delle proiezioni risulta che da novembre 1950 a tutto il mese di marzo 1951 ci furono solo due proiezioni mattutine: Il bacio di una morta, sia il 28 novembre 1950 che il 1 gennaio 1951. Angelo racconta che anche Rocco era oggetto delle attenzioni del Diavolo che lo faceva mangiare alla mensa e gli regalava sempre cioccolata e caramelle.
Il Maresciallo Savà, supponendo che Rocco sia stato adescato in Piazza San Francesco, ipotizza il possibile tragitto più vantaggioso per chi volesse passare inosservato o quasi dalla piazza e dirigersi al luogo del delitto, così stabilisce che bisogna passare per via Cerria che di sera non è nemmeno illuminata. Interroga tutti gli abitanti della via e trova un pastore che è sicuro di aver visto, la sera della tragedia, un uomo che gli sembrò assomigliare a Risafi che passava tenendo per mano un bambino. Il Diavolo adesso è davvero nei guai. Ammette la sua passione per i bambini ma nega piangendo di essere il mostro. Non c’è nessuno che scommetterebbe una lira bucata sulla sua innocenza e l’uomo, disperato, tenta anche il suicidio buttandosi dalla tromba delle scale del carcere, ma viene miracolosamente salvato dalle guardie che riescono ad afferrarlo per la giacca frenandone la caduta: se la caverà con qualche ammaccatura.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, la sera del 2 agosto 1951 si presenta in caserma una donna in lacrime con un bambino in braccio che piange disperatamente come la mamma:
– Oggi pomeriggio verso le 18,00 mio figlio si trovava vicino la mia casa di abitazione in Vico 3° Principe Umberto, altrimenti detto “fosso”, e stava giocando. Io stavo preparando il desinare. Sono uscita fuori per chiamare il piccolo e non l’ho trovato. Mi sono preoccupata e mi sono messa con gli altri familiari alla ricerca. Verso le ore 20,30 fece ritorno a casa l’altro mio figlio con il fratellino. Con loro vi erano una donna e un uomo. Mio figlio mi disse che aveva rinvenuto il fratellino in Piazza S. Francesco dove tanta gente si era radunata perché da un capraio era stato trovato un bambino e dato che non poteva accompagnare il bambino a casa perché aveva le capre, l’aveva lasciato ad una donna per portarlo a casa mia. Senonchè si era trovato a passare mio figlio che aveva riconosciuto il fratellino e lo aveva portato a casa. il bambino aveva i pantaloncini sporchi di feci. Mi sono preoccupata e l’ho portato da un medico… poi sono venuta in caserma… me lo hanno violentato!
Questo fatto potrebbe cambiare tutto. E se l’assassino fosse ancora in libertà e il Diavolo fosse davvero innocente? I Carabinieri si mettono a indagare con nuova lena e raccolgono, finalmente, informazioni in base alle quali si ritiene che a Corigliano operi una banda di pedofili. La pista sembra davvero essere quella buona. Viene rintracciato il capraio che racconta di aver sentito, mentre passava dalla contrada Lecco, dove vi è una cava, il lamento di un bambino. Dopo un po’ gli si fece davanti un bambino che piangeva e aveva dei graffi alla gola e alle spalle. Lo prese in braccio e gli chiese cosa ci facesse in quel posto, ma il bambino continuava a piangere senza rispondere. Allora io con le buone gli ho detto che lo avrei portato a casa e lui mi rispose che era figlio a Paparella. Poi di rimando gli ho chiesto: “Chi ti ha portato qua?” e lui mi rispose: “Nu guagliune”.
Nonostante gli sforzi, però, non si riesce a trovare alcun indizio che possa portare all’identificazione del mostro. Poi, dopo cinque giorni dal fatto, la donna col bambino escono per comprare un po’ di D.D.T, e il bambino diventa all’improvviso nervoso; strattonando la mamma le indica con la manina un giovanotto non alto che si trovava con altri.
– Mamma, è quello che mi ha messo la pullicata (le mani alla gola, NdA) e voleva ammazzarmi.
– Sei sicuro? Non è che ti sbagli?
No perché proprio lui mi ha fatto cacare sotto!
La donna, bianca in viso, vede lì vicino una pattuglia di Guardie Municipali e si precipita a raccontare il fatto. Le Guardie, che sono in compagnia di un Carabiniere in borghese, accerchiano il giovane e lo arrestano.
Mollo Giovanni di anni 16 da Corigliano, scrive il Maresciallo Savà sulla copertina del fascicolo a carico dell’arrestato.
Mollo nega tutto ma poi, sottoposto a stringente interrogatorio, confessa:
L’ho condotto nelle insenature esistenti nella contrada Lecco dove l’ho spogliato abbassandogli i pantaloncini e,
piegandolo col sederino verso di me, gli ho introdotto nell’ano il membro. Siccome il bambino per il dolore gridava, gli tappai la bocca con una mano, mentre con l’altra lo tenevo fermo. Quando stavo per introdurgli l’asta sentii avvicinarsi delle capre e un fischio da lontano che si andava avvicinando al posto dove ero io. Compresi che qualche capraio si ritirava e che quindi mi avrebbe potuto sorprendere. Per evitare ciò lasciai il bambino dopo avergli alzato le mutandine e mi nascosi nelle vicinanze. Vidi così il capraio che si fermò alla vista del bambino e gli chiese che cosa ci facesse a quell’ora in quel luogo. Il bambino rispose: “Mi ci ha portato nu guagliune”. Il capraio prese per mano il bambino e lo portò in paese.
– E dell’altro bambino ne sai qualcosa? – gli chiede a bruciapelo il Maresciallo.
– No…
– Dai, parla, tanto lo sai che prima o poi ci arriviamo… – lo incalza con tono minaccioso fregandosi le mani.
– No…
E allora il Maresciallo, alla presenza del Pretore di Corigliano Calabro, lo sottopone a nuovo stringente e prolungato interrogatorio e ottiene la confessione.
– Sono stato io e con me c’erano Antonio Arnone e Giorgio Alessio…
– Com’è andata?
Verso le ore 18 di un giorno del mese di maggio che non sono in grado di precisare meglio, mi imbattei in Piazza del Popolo con i miei amici Alessio Giorgio e Arnone Antonio. Alessio Giorgio ci propose di andare in campagna a fare una mangiata di nespole, noi aderimmo. Arnone Antonio aggiunse: “Non ci portiamo a nessuno?” al che l’Alessio di rimando: “Porterò io un ragazzino che conosco” e così dicendo raggiunse un ragazzino che si trovava seduto su un muricciuolo antistante il Bar “Gatto Bianco” sito nella stessa piazza e lo condusse vicino a noi. Il ragazzino lo portammo con noi allo scopo di fargli mangiare le nespole. L’Alessio prese per mano il bambino e si avviò per Via Cerria che raggiunse a mezzo di un vicoletto esistente un po’ più sopra del Bar Gatto Bianco, mentre io e l’Arnone lo seguimmo imboccando Via Cerria direttamente dalla Piazza del Popolo e passando precisamente davanti al negozio “Romanelli” e ci fermammo proprio nel punto ove fu poi rinvenuto il cadaverino. L’Alessio allora disse: “Non gli facciamo nulla?” al che l’Arnone: “E cosa vogliamo fargli?”. Di rimando l’Alessio aggiunse: “Gli facciamo il «servizio»”. Tutti e tre ci trovammo d’accordo. Arnone ordinò al bambino di spogliarsi e poiché questi non voleva lo picchiò varie volte con la frusta e poi tolse le scarpe al ragazzo e le buttò lontano; l’Alessio gli abbassò i pantaloncini e le mutandine mentre l’Arnone gli sbottonava la camicia e l’Alessio ancora gliela toglieva. Dopo l’Alessio mise il ragazzo a terra in posizione bocconi. Il ragazzo piangeva; per evitare che il suo pianto potesse essere sentito, l’Alessio prese il fazzoletto del bambino
stesso e glielo mise in bocca; poiché il bambino continuava a piangere e gridare, l’Arnone prese il suo fazzoletto e passandolo sulla bocca del bambino lo legò alla nuca, in modo da tamponargli completamente la bocca. Sia l’Alessio che l’Arnone colpivano il bambino che piangeva con una frusta che Arnone aveva raccattato lungo la via. Dopo vidi l’Arnone sbottonarsi i pantaloni e coricarsi sul piccolo, indi mi allontanai per vigilare affinché non fossimo scoperti da qualche passante. Mentre facevo la guardia il bambino piangeva e sentii anche che lo battevano. Dopo che l’Arnone ebbe soddisfatto le sue voglie, fui chiamato ed anche io mi mossi sul ragazzo introducendogli nell’ano il mio membro. Dopo un poco che ero sul ragazzo l’Arnone mi tirò via senza che io godessi e così ritornai al mio posto di vigilanza. Prima di allontanarmi sentii che il ragazzo diceva di accusarci presso la madre. Vidi anche l’Arnone e l’Alessio battere alla testa il piccolo sia con pugni che con un sasso. Anche l’Alessio si avvicinò al piccolo per soddisfare le sue voglie, chiamato a ciò dall’Arnone. Dopo mi chiamarono nuovamente. Allora l’Alessio ebbe a dire: “mò il ragazzo lo dirà alla mamma”, al che l’Arnone aggiunse: “Ammazziamolo così non dirà nulla”. Io non dissi nulla e subito dopo fui mandato a fare di nuovo la guardia
– Quindi tu non hai fatto praticamente niente… hanno fatto tutto i tuoi amici…
Io non so dirvi come l’abbiano ammazzato, ritengo che ciò sia avvenuto mediante colpi di sasso… dopo commesso il delitto fui nuovamente chiamato dai miei compagni. L’Alessio gli rimise le mutandine, l’Arnone lo aggiustò nella posizione di dormiente al fine di far credere che il bambino fosse caduto dall’albero… non so dirvi chi abbia messo le pietre aderenti al corpo del bambino, forse sono le stesse che sono servite ad ucciderlo e che sono cadute in quel posto per cui il cadaverino si è venuto a trovare nel mezzo…
– Chi ha tolto il fazzoletto dalla bocca di Rocco?
Il fazzoletto fu tolto dall’Alessio che poi se ne servì per pulire il sangue che imbrattava la fronte del bambino stesso
– E poi?
– Poi andammo al torrente a lavarci e tornammo in paese
– Chi ha sistemato il libro e i quaderni sotto il cadaverino?
Alessio

Gli altri due compari vengono subito rintracciati e arrestati. Antonio Arnone conferma sostanzialmente le dichiarazioni di Mollo, eccetto che per le divisioni delle responsabilità. Secondo il suo racconto non sarebbe affatto vero che Giovanni Mollo ebbe un ruolo marginale in tutto quell’orrore: fu proprio lui a togliere i pantaloncini e le mutandine a Rocco e fu ancora Mollo che legò il fazzoletto dietro la nuca del bambino e anche lui lo colpì con la frusta. Infine fu proprio Mollo a vibrare il primo colpo di pietra sulla testa di Rocco. Nessuno è, secondo Arnone, più o meno colpevole degli altri. Tutto è stato fatto da tutti. Diversamente da Mollo, Arnone sostiene anche che, prima di arrivare in quel maledetto posto, erano davvero andati a mangiare le nespole e che Rocco ne mangiò tre, tre come i suoi assassini.

Giorgio Alessio, invece, si dichiara innocente. Lui quella sera non era affatto con i suoi compari. Il pretore gli contesta il fatto che, appena portato in caserma, si è dichiarato colpevole, come mai?
– L’ho fatto solamente in seguito alle pressioni ed alle percosse avute dai Carabinieri – dichiara e, invitato dal Pretore a mostrargli i segni delle percosse, si toglie la camicia e mostra il torace sul quale, però, non si nota alcun segno di percosse.
Ma nel confronto con Arnone si tradisce quando gli chiede – E quando scendevamo come eravamo?
Sono proprio quello scendevamo e quell’eravamo che convincono i giudici della sua partecipazione al brutale omicidio, così i tre vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di:
a) omicidio commesso in concorso fra loro per avere con crudeltà, mediante colpi di sassi vibrati reiteratamente alla testa da tutti gli imputati, cagionato la morte di Rocco dopo essersi congiunti carnalmente, con violenza e minaccia con lo stesso, al fine di assicurarsi l’impunità per detti reati e profittando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica del ragazzo di 8 anni;
b) del delitto di violenza carnale commesso in concorso tra loro per essersi congiunti contro natura, con minaccia e violenza, in aperta campagna con Rocco di 8 anni;
c) atti osceni in luogo pubblico.
Inoltre, Mollo dovrà essere processato anche per il tentato omicidio e la violenza sessuale sull’altro bambino.
Anche il Diavolo dovrà comparire in aula per rispondere dei reati di violenza carnale contro natura, atti osceni e atti dilibidine.
Appena il dibattimento si apre, Mollo e Arnone ritrattano tutto, sostenendo di essere stati costretti a confessare a causa delle minacce e delle percosse dei Carabinieri, ma non ci sono riscontri in tal senso. C’è, però, nella ritrattazione dei due un elemento che potrebbe essere preso in considerazione: tutti e due adesso sostengono di avere falsamente accusato Giorgio Alessio e di questa circostanza ne hanno fatto partecipi i compagni di cella, molto tempo prima della loro ritrattazione, tant’è che viene ammessa come prova una dichiarazione autografa degli allora compagni di cella dei due che scagionerebbe Alessio.
Ma la Giuria non ne tiene conto e il 26 luglio 1953 ritiene i tre imputati colpevoli dei reati ascritti, esclusa l’aggravante della crudeltà nell’omicidio perché, scrivono i giudici, la mancanza di armi imponeva di scegliere fra il sasso e lo strangolamento che per il contatto fisico con la vittima doveva apparire ai tre ancora più ripugnante. Il delitto, secondo i Giudici, è maturato in un ambiente degradato: è noto infatti che negli strati inferiori della popolazione, e specialmente nelle campagne, la promiscuità di vita dei vari componenti della famiglia (viventi talora in un solo ambiente quando non dormiente addirittura in un unico letto) e la libertà di cui godono i ragazzi producono una rapida conoscenza, da parte di costoro, di tutto ciò che riguarda il sesso e che la masturbazione collettiva o reciproca è molto diffusa, fino a che l’età adulta non rende possibile la conquista di una donna: non si tratta quindi di una deviazione del senso, più o meno connessa ad una affezione morbosa, psichica, ma soltanto di un protrarsi di quella fase di indiscriminazione dei sessi che fra i ragazzi più evoluti – o semplicemente meno poveri – si esaurisce con maggiore rapidità. Quindi le condanne: Giovanni Mollo viene condannato a 26 anni di reclusione tenendo conto della minore età all’epoca dei fatti e sommando alla condanna per la violenza sessuale e l’omicidio nei confronti di Rocco, anche la violenza nei confronti dell’altro bambino e le lesioni in danno di questo (viene escluso il tentato omicidio); Antonio Arnone viene condannato a 20 anni di reclusione, tenendo conto della minore età allepoca dei fatti; Giorgio Alessio prende 30 anni.
Leonardo Risafi viene ritenuto colpevole del reato di atti di libidine violenta con la diminuente del vizio parziale di mente e condannato a 10 mesi e 10 giorni di reclusione con la sospensione condizionale della pena.
La Procura della Repubblica non ci sta e ricorre in Appello, come ricorrono in Appello anche gli imputati e le parti civili.
Se la violenza carnale reca le stigmate della bruta animalità, l’omicidio risulta commesso sotto il segno della paura. Il fatto considerato dalla Corte e cioè che i prevenuti appartenevano a famiglie misere ed erano senza istruzione, non può assurgere a circostanza attenuante, protesta la Procura nel ricorso.
Il 20 luglio 1955 la Corte di Appello di Catanzaro, rigettati tutti i ricorsi, e considerato  che il reato di atti osceni in luogo pubblico è estinto per amnistia, le pene devono essere così rideterminate: 29 anni e 4 mesi per Alessio, 25 anni e 6 mesi per Mollo, 19 anni e 6 mesi per Arnone. Inoltre dichiara condonati 3 anni per ciascuno degli imputati.
Il successivo ricorso per Cassazione verrà rigettato per assenza di motivazioni.[1]
A Rocco piacevano le nespole…

 

[1] ASCS, Processi Penali.
Ringrazio il Maresciallo Mario Levato.

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