POSSEDUTA DAL DEMONIO

Quando Rosa De Rose di Belsito aveva una decina di anni contrasse il tifo, senza che da questa malattia ne abbia serbato alcuna traccia, essendosi completamente ristabilita. Ma dopo la malattia il suo carattere mutò: crebbe quasi sempre malinconica, chiusa nei suoi pensieri, non amante di trastullarsi, né amante della compagnia delle amiche; preferiva, invece, la solitudine, la sua casetta, sempre pronta ai comandi dei suoi genitori e accudiva con amore alle faccende domestiche.
Così Rosa arriva ai venticinque anni quando si sposa con Francescantonio Gatto, non per affetto o per passione, ma solo per volere dei genitori, tant’è che Rosa prima di allora non lo conobbe mai. Rosa accetta tutto con spirito di sottomissione e fu buona moglie e buona madre ma serbò sempre il suo carattere malinconico e non si occupò di altro che del buono andamento della sua famiglia.
Gli sposi vanno ad abitare in casa dei genitori di Francescantonio con i quali convivono anche altri figli. Rosa era voluta bene da tutti perché lavorava assiduamente, senza immischiarsi ne’ loro affari, ma essendo venuti negli anni successivi i figliuoli, allora tutti incominciarono a mal vedere la Rosa perché avea formato un “convento”, come essi dicevano (aveva cioè essa numerosa famiglia) e il dispiacere era prodotto nei suoi parenti per il chiacchierio ed il pianto dei bambini che l’infastidivano. Ma il vero motivo è che essendo cresciuta la famiglia sono aumentate anche le spese, senza che a nessuno venga in mente di considerare il fatto che Francescantonio, quando capisce di non guadagnare abbastanza, va a lavorare anche in Sicilia per non pesare sul bilancio domestico dei propri genitori e Rosa spacca il centesimo in quattro per farsi bastare quello che il marito le manda, senza recar molestia a chicchesia.
E i maltrattamenti aumentavano quando il marito era assente e coi maltrattamenti aumentava l’umor triste e malinconico della Rosa, la quale spesse volte non parlava per intere giornate.
Dopo tre lunghi anni di convivenza si arriva alle strette: il suocero e specialmente le cognate si levarono contro la Rosa e contro il fratello, suo marito, tanto da cacciarli via dalla casa senza dargli nessuna delle suppellettili di famiglia. Rosa rimane molto scossa da questo trattamento che lei ritiene profondamente ingiusto, ma continua a lavorare ancora più sodo per mandare avanti la sua famiglia e chi la va a trovare la trova sempre intenta a fare il pane, il bucato e tutto ciò che serviva per i suoi figliuoli. Ma i modi troppo brutali dei suoi parenti le sono sempre davanti agli occhi e si affliggeva immensamente al solo pensare che le sue affezioni erano state ricompensate coi maltrattamenti e con l’indifferenza e non usciva di casa se non per alcune faccende, per visitare la mamma sua, i suoi fratelli e qualche volta per andare a messa.
In questo contesto, Francescantonio parte per Lamerica con la speranza di dare alla sua famiglia il benessere che ha sempre sognato e pare che le cose gli comincino ad andare bene e le sue rimesse, talvolta cento lire, talvolta duecento, arrivano a Rosa con continuità. Ma quello che sarebbe potuto essere un periodo di serenità si tramuta in un altro periodo di depressione per Rosa: Luigina, una delle sue bambine, si ammala di scarlattina e muore. Francescantonio torna in Italia e anche per lui ci sono altre brutte sorprese: una delle sue sorelle lo cita in giudizio per la restituzione di un prestito di 100 Lire e i rapporti tra le due famiglie si interrompono definitivamente.
Il fragile equilibrio di Rosa è scosso ancora una volta e continua sempre ad avere davanti agli occhi le parole brutte ed il modo villano com’era stata scacciata dalla casa del suocero. Rosa è incinta di nuovo ed è in questo frangente che le compaiono degli strani sintomi come un dolore alle gambe, un malessere alla testa, un indebolimento alla vista che si aggravano di giorno in giorno fin che lei si sentì come se fosse invasa da uno spirito che le comandava di gridare, cantare, bestemmiare, imitare gli animali, girare le mani ed eseguire una quantità di movimenti automatici.
Rosa è molto preoccupata per le cose che le stanno accadendo e comincia a credere che siano collegate alle angherie ricevute dalle cognate. La conseguenza è che si convince che la sua malattia fosse prodotta dalle arti di stregoneria di sua cognata Concetta, la quale voleva in tal guisa rovinarla completamente.
Poi questi attacchi cessano improvvisamente. Rosa ora sta bene e dopo un paio di mesi partorisce un bel maschietto, Raffaele, che allatta con amore materno per circa tre mesi, poi comincia ad avvertire un fastidioso formicolio ai piedi e un forte dolore di testa. È proprio adesso che il suo carattere diventa ancora più cupo ed è presa dalla immotivata convinzione di essere caduta in miseria e delle conseguenti disgrazie che capiteranno a lei e ai suoi figli. Che la madre la tranquillizzi spiegandole che non le manca niente e che i suoi figli mangiano tutti i giorni e sono vestiti decentemente non serve a niente, lei vede le cose in modo diverso.
– Non c’è pane, lo vedi? Non c’è fuoco nel camino perché non ho legna, lo capisci?
– Eccolo il pane e la legna è al suo posto, non t’affliggere e cerca di calmarti perché tuo marito ti manda sempre i soldi dall’America.
– Non è vero! non ho niente! È quella strega di mia cognata la causa di tutto!
Intanto le sofferenze aumentavano; il mal di capo diveniva sempre più forte e dal suo volto traspariva un interno dolore che dominava la sua coscienza e cominciano a venirle delle convulsioni che la lasciavano estenuata di forze.
È proprio in questo periodo che, ridotta ad uno stato d’intensa depressione nervosa, mentre allatta Raffaele in campagna, all’improvviso sente una voce interna che le comandò: “getta mò tuo figlio al fuoco, Santo diavolo!” E lei, non avendo la forza di resistere, ubbidì ciecamente a tale comando e andò a mettere il bambino con la testa in una caldaia dove bolliva il latte per far le ricotte, rendendolo sull’istante cadavere e alla vista del suo piccolo morto restò indifferente, senza emettere neppure un lamento, che anzi si dichiarò innocente del fatto perché aveva dovuto obbedire al comando dello spirito e lei in quel momento non vide più ciò che fece [in verità, dagli atti del relativo procedimento penale iniziato il 3 agosto 1896 con il verbale dei Carabinieri di Dipignano, emergono fatti diversi dai ricordi di Rosa, infatti risulta che l’imputata, la mattina del 2 agosto, tolto dal letto il proprio bimbo Raffaele di mesi otto, si accinse a vestirlo stando seduta su di una panca vicina al focolare con fuoco acceso e sul quale eravi una pentola d’acqua bollente che doveva servire per fare la minestra, quando per un movimento di proprio impeto del bambino, non preveduto dalla madre che lo teneva sulle ginocchia in piedi, cadde in avanti e propriamente con la faccia nella pentola, riportando scottature in seguito alle quali poche ore dopo cessava di vivere].
L’autopsia accerta che il bambino è di nutrizione buonissima e lo scheletro è ben sviluppato.
Una cognata di Rosa presente al fatto sostiene che Rosa non ha alcuna responsabilità nell’accaduto e che è stato un incidente, nonostante che la povera madre lo avesse subito sollevato, perché le gambe del bambino erano rimaste nelle mani della stessa. Poi aggiunge: non posso descrivere il dolore e lo spavento dai quali vennero invasi i nostri cuori e, quasi inebetite, prorompemmo in pianto e con grida disperate chiamammo al soccorso i vicini coloni, i quali prestarono le prime cure spargendo del bianco di uovo sulle scottature.
Tutte le testimonianze raccolte sono concordi nell’affermare che Rosa era di lui tenerissima e gli prodigava le più sollecite cure.
Inoltre non risulta dagli atti che la donna sia mai stata sottoposta ad interrogatorio. Il 9 marzo 1897 Rosa viene prosciolta in istruttoria dall’accusa di omicidio per imprudenza o negligenza.
Dopo questa tragedia Rosa torna in sé e resta calma per un anno e mezzo ma poi gli attacchi ricominciano e così sua madre si decide a scrivere una lettera a Francescantonio per farlo tornare a casa, dove resta per quasi sei mesi durante i quali Rosa continua a mostrare i segni della sua malattia, che associa sempre alla legazione (arti demoniache di stregonerie) fattale dalla cognata. Francescantonio non ha alternative ed è costretto a ripartire per Lamerica lasciando Rosa in un periodo di calma, prendendo l’unica precauzione di mandarla ad abitare con i figli da una zia, ma ben presto la situazione si aggrava di nuovo e Rosa è costretta ad andarsene e a trovarsi una casetta a Belsito.
Gli intervalli tra un attacco e l’altro cominciano a diventare sempre più brevi e lei, fatta più nervosa, ripeteva sempre che voleva tolto la legazione [i dottori Eugenio Barberio e Beniamino Mele che redigono la perizia psichiatrica su Rosa De Rose, da cui è tratta la storia che stiamo leggendo, a questo punto aggiungono una nota che recita così: Si ritiene generalmente dal popolino che esistono delle persone le quali possono comandare gli spiriti malefici, ordinare che essi penetrino nel corpo di alcuni individui che vogliono perseguitare e disporre di questi infelici, che restano indemoniati, a loro piacere. E si ritiene ancora che certi preti hanno la potenza di “scongiurare” detti spiriti, cioè di farli allontanare dal corpo di chi li possiede, il quale ritorna sano].
Fu allora che i suoi parenti la condussero nel convento di Scigliano e durante tale gita lei fu in preda a un’irritazione nervosa che camminò a stenti, senza poggiare a terra se non il solo lato esterno del piede. Ma dalla visita a Scigliano e dagli “scongiuri” del Prete, Rosa non se ne avvantaggiò affatto, anzi le venne un’altra idea, cioè quella che anche il Prete avesse dovuto subire l’influenza potente della cognata per cui non era riuscito a toglierle il diavolo dal corpo. Delusa, Rosa si fa accompagnare anche da un prete di Rogliano e da uno di Piane Crati, ma i problemi restano immutati. Gli attacchi adesso sono quotidiani per cui gridava spaventevolmente, bestemmiava, imitava il cane, il gatto e si contorceva spasmodicamente.
La fanno visitare anche da un medico il quale, durante la visita, osserva direttamente un attacco.
Dottore vedete, ora ho un comando… – gli dice Rosa che all’improvviso irrigidisce le braccia e le contorce tanto da modificarne l’asse normale di rotazione e contrae tutte le dita con una forza tale da impedire al medico di distendergliele. La cosa strana è che Rosa, durante i pochi minuti dell’attacco, rimane cosciente e continua a parlare col medico – Dottore vedete, comprendo tutto ma non ho che fare… – poi le arrivano altri due comandi e si mette a cantare e ballare.
– Riportatemela al prossimo attacco, voglio tenerla in osservazione per un paio di giorni e vedere quello che si può fare perché è chiaro che si tratta di una malattia nervosa – raccomanda il dottor Costanzo alla madre di Rosa, la quale decide di far trasferire figlia e nipoti a casa sua per assisterla meglio.
Durante tutti gli anni in cui è preda dei suoi attacchi, Rosa non cessa mai di prestare ogni cura, ogni attenzione ai figli, escludendo il terribile episodio del figlicidio del piccolo Raffaele, che nel frattempo è stato sostituito da un altro bambino, chiamato con lo stesso nome, e che allatta con cura e diligenza. La stessa cura e diligenza che usa nei confronti dell’altra figlia superstite, Maria. Vuole che sua figlia vada vestita con una certa ricercatezza e quando torna a Rogliano per una nuova visita dal dottor Costanzo le compra un vestito nuovo.
La mattina del 6 luglio 1902 Rosa è tranquilla, esce di casa con Maria, che ora ha 14 anni, e Raffaele, che ne ha tre, per andare nel magazzino dove i fratelli hanno il materiale necessario per la coltura dei bachi da seta e spigolare i piselli raccolti la sera prima.
Ad un certo punto Rosa si sente preda di una voce interna che le grida: “Ammazza i tuoi figli Santo diavolo!”. Rosa si guarda intorno e tra gli attrezzi vede un coltellaccio, lo afferra e si scaglia su Maria che la implora di non farle del male. Raffaele si raggomitola in un angolo terrorizzato. Rosa ha gli occhi iniettati di sangue e pronuncia parole incomprensibili mentre comincia a sferrare dei terribili fendenti sulla figlia, che cerca disperatamente di sottrarsi alla sua inspiegabile furia. Protende le braccia in avanti per proteggersi e forse per cercare di strapparle di mano l’arma ma i colpi, violentissimi, le disarticolano letteralmente le mani e il suo corpo si offre indifeso alla violenza cieca di Rosa. Tre colpi consecutivi si abbattono tra la testa e il collo della ragazza che crolla a terra esanime, mentre il sangue zampilla tutto intorno.
Rosa ha il respiro affannato, guarda la figlia a terra con occhi privi di luce, poi alza lo sguardo in cerca di Raffaele che è a un metro da lei, raggomitolato su se stesso come a voler sparire dalla faccia della terra. Un passo, un solo passo e gli è sopra.
“Ammazza i tuoi figli Santo diavolo!”
Il coltellaccio si alza verso il cielo ancora grondante del sangue di Maria e poi si abbatte, implacabile, sul bambino quasi decapitandolo.
Le braccia di Rosa si abbandonano lungo i fianchi per brevi istanti, poi quella terribile voce di dentro le ordina di restare nel magazzino e di chiudere a chiave la porta.
Passa qualche ora e i familiari di Rosa sono preoccupati perché l’assenza è diventata troppo lunga. Vanno al magazzino ma la porta è chiusa a chiave e pensano che madre e figli siano andati altrove e, sparpagliandosi, vanno a cercarli per la campagna e nei paesi vicini, ma nessuno li ha visti. Quando, sconsolati, si ritrovano tutti a casa, un fratello nota che la chiave del magazzino non è appesa al solito chiodo e comincia a sospettare qualcosa. Si precipitano tutti insieme sul posto e sfondano la porta.
La chiave è ancora inserita nella parte interna della serratura: devono essere tutti dentro. Nella prima stanza tutto è in ordine. Gridano i nomi di Rosa e dei figli. Nessuna risposta. Uno dei fratelli varca la soglia della seconda stanza e lancia un urlo disumano alla vista dei nipoti in un mare di sangue, sgozzati. Rosa non c’è, o almeno così sembra. Poi la vedono. È rannicchiata, immobile, in posizione fetale dentro una grossa cesta.
– Che hai fatto? – Rosa non risponde, sembra non sentire, sembra essere lontana da quel posto. Poi, dopo le insistenze dei fratelli, finalmente risponde, con una voce che sembra venire dall’oltretomba.
– Niente… non ho fatto niente… dove sono i bambini?
I Carabinieri arrivano quasi subito e chiudono Rosa in camera di sicurezza, poi la trasferiscono nel carcere di Cosenza, ma è chiaro a tutti che non è questa la soluzione giusta.
Arriva anche il Pretore di Scigliano che procede alla descrizione dello stato delle cose con il medico legale:
Il cadavere di sesso femminile è coperto da una veste color nocciola con grembiale bleu a punti biancastri, senza calze né scarpe, corpetto rabercato, lacero in tutta la porzione posteriore, specialmente nel terzo inferiore da cui fuoriesce la camicia e porzione della stessa esce dalla fine del corpetto la dove lo stesso si congiunge alla sottana. Il cadavere giace bocconi con le due braccia distese verso destra. Sulla regione occipitale sinistra si nota una vasta lesione che a partire dalla fossetta nucale si estende trasversalmente in basso ed a sinistra fino all’angolo del mascellare inferiore per circa 15 centimetri, larga otto centimetri e profonda da arrivare ai muscoli. Altra lesione della istessa forma e direzione a circa tre centimetri dalla prima, lunga sei centimetri, profonda all’osso. Altra lesione della stessa natura e direzione sempre a salire in alto fino all’apice dell’osso occipitale lunga quattro centimetri, profonda all’osso e distante dalla seconda circa due centimetri. Sul dorso della mano sinistra, in corrispondenza dell’articolazione radio-carpea, si nota una lesione a bordi netti e divaricati lunga quattro centimetri, larga due centimetri e profonda ai tendini e con apertura dell’articolazione. Altra lesione della stessa natura in corrispondenza del quarto metacarpo lunga tre centimetri, profonda all’osso tanto da essere completamente disarticolato il dito anulare. Altra lesione della stessa natura in corrispondenza del terzo metacarpo, lunga tre centimetri e profonda all’osso.
Il cadaverino a destra è vestito di un camice color rosso fuoco tutto rabercato con calze cenericce e bluastre, con scarpe di pelle con suole inchiodate. Giace supino col capo inclinato a sinistra come il corpo. Presenta una vasta ferita nella regione laterale del collo che a partire  dall’apofisi mastoidea corrispondente viene trasversalmente avanti fino al mento, per una lunghezza quindi di circa 15 centimetri, larga quattro e profonda ai muscoli. Altra lesione della stessa natura nella regione postero-laterale del collo, cioè che partendo dall’apofisi della settima vertebra cervicale si dirige trasversalmente in alto ed in avanti per circa dieci centimetri, mostrando nel suo centro un’apertura che corrisponde allo speco vertebrale.
Non passano nemmeno due settimane e il Pubblico Ministero che si occupa del caso chiede che Rosa sia sottoposta a perizia psichiatrica. Nello stesso momento, nel carcere femminile di Cosenza, viene trovata addosso a Rosa, e sequestrata, una corrispondenza scritta con inchiostro rosso su di una striscia di pelle grezza, in modo che il sottoscritto non può capire il senso perché di un gergo sconosciuto, scrive il capoguardia, quando legge la scritta, in un rapporto al Direttore: LASGAROIN ┼ APHONIDOIS ┼ PALATIA ┼ URAT ┼ CONDITION ┼ LAMACRON ┼ FONDON ┼ ARPAGON ┼ ALAMAR ┼ BURGAIS VENIAT SEREBANI [Si tratta di una formula magica che serve per togliere ogni sorta di maleficio. La formula esatta è LAGAROTH + APHONIDOS + PAATIA + URAT + CONDION + LAMACRON + FONDON + ARPAGON + ALAMAR + BURGASIS + VENIAT SEREBANI e ad ogni croce nel testo bisogna farsi il segno della croce (Nda.)]  
Il 18 luglio 1902 viene dato incarico ai dottori Eugenio Barberio e Beniamino Mele di Cosenza di eseguire la perizia psichiatrica sulla donna, mentre viene disposto che due detenute infermiere sorveglino giorno e notte la De Rose.
Si tenta anche la strada di portare la cognata Concetta al suo cospetto per cercare di trovare il modo di calmarla e Rosa le si getta ai piedi e glieli bacia, implorandola di scioglierla dalla terribile legazione. E qui avvenne una scena commovente perché mentre la Concetta rimaneva intondita, la Rosa, un po’ piangendo, un po’ bestemmiando ripeteva sempre: “Scioglimi, scioglimi, o anima dannata!”

I due periti hanno anche la possibilità di osservarla con i propri occhi mentre è in preda alle crisi e notano come la povera Rosa, che tutto vede e comprende, non sa frenarsi malgrado i migliori sforzi della sua volontà. E sempre ripete gridando: “E’ mia cognata Concetta che mi da questi comandi ed io debbo ubbidire assolutamente”.

Barberio e Mele, dopo un mese di osservazione concludono:
1.      Che le sue facoltà mentali non sono integre.
2.      Che abbiamo prove positive raccolte dalle lunghe e quotidiane osservazioni per giudicare che i fenomeni psicopatici presentati dalla De Rose sono assolutamente genuini.
3.      Esistendo nella De Rose le note somatiche, antropologiche, fisiologiche e patologiche di disarmonia, di disquilibri, di pervertimenti ed esistendo quel carattere morale che dà a certi individui una impronta peculiare per la quale si ha il diritto di pensare ad una organizzazione nevropatica, noi siamo autorizzati a ritenerla demente.
La De Rose non è il tipo di una delinquente caduta in preda della pazzia, è invece il tipo di una pazza che irrompe in atti criminosi per condizioni inerenti alla stessa forma di pazzia. E si deve al fatto di averla mantenuta in libertà quando ella non ne era meritevole se un così orribile parricidio[Con il termine parricidio si indicava genericamente l’omicidio di un parente (ascendente o discendente) ]si è avuto a deplorare.

Per i periti, Rosa è semplicemente affetta da lipemania [La Lipemania non è altro che una sindrome depressiva, conosciuta oggi con la definizione di melanconia, cioè lo stato psichico caratterizzato da un’alterazione patologica del tono dell’umore, con un’immotivata tristezza, talora accompagnata da ansia, e con inibizione di tutta la vita intellettuale, da Enciclopedia Treccani.]. Il duplice omicidio dei propri figli deve ritenersi una emanazione diretta della malattia e come tale non è punibile ma la liberazione della De Rose non è scevra di pericoli.

È il 30 agosto 1902. Due giorni dopo, il 1 settembre, la Camera di Consiglio presso il Tribunale di Cosenza, uniformemente alla richiesta del Pubblico Ministero, dichiara non farsi luogo a procedimento penale contro De Rose Rosa per non essere punibile in ordine al doppio parricidio commesso e dispone che sia messa in libertà.
Ordina, in pari tempo, che essa De Rose Rosa sia consegnata all’Autorità di P.S. per essere rinchiusa in un manicomio perché pericolosa per sé e per gli altri.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

 

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