PRIMA TUA MADRE E POI TU

Il sole ancora è sopra le montagne il 27 giugno 1928 mentre, in contrada Pantano di Carpanzano, Maria Lamanna, contadina trentasettenne, e due sue figlie, Carmela di 15 anni e Bettina di 13, stanno raccogliendo del fieno in un pezzo di terra di proprietà della madre di Maria. Nelle vicinanze due uomini parlottano tra di loro sul sottostante piazzale della stazioncina ferroviaria in attesa del treno e le osservano; un altro si avvicina alle donne.
– Che cazzo fate? – sentono urlare alle loro spalle – quel fieno è mio, lasciatelo e andatevene. Le tre donne riconoscono la voce e cercano di stare vicine temendo di essere aggredite. La voce che hanno riconosciuto è quella di Carlo Felice Fiordaliso, marito di Maria e padre delle ragazzine. La moglie lo vede un po’ incerto sulle gambe e trova il coraggio di replicare:
Finora ti sei ubbriacato ed ora dici che il fieno è tuo? Andrò dal Brigadiere e vedremo!
Finora mi sono ubbriacato col mio danaro ed ora mi ubbriacherò col danaro ricavato dal fieno! – controbatte il marito avvicinandosi minaccioso. Maria e le figlie pensano che non sia il caso di rischiare oltre e si incamminano verso casa, mentre l’uomo continua – puttana di tuo padre e altri, che hai il coraggio di chiamarmi anche cornuto, se fin’ora l’ho tollerata, da stasera non tollero più, debbo fare la croce al portone ammazzando prima la vecchia e poi voi che siete della stessa razza e bisogna finirla!
Tu devi andare in galera! Ricordati quello che hai fatto ai figli tuoi! – gli urla Maria mentre si allontana.
Che le cose non vadano bene in famiglia lo sanno tutti, come sanno che è da quando Carlo Felice è tornato dal suo secondo tentativo di trovare lavoro Allamerica, dove apprese da un paesano che la propria moglie, prima che egli la sposasse, era stata posseduta dal di lei padre ed aveva procreata una figlia; quindi egli era tornato in Italia con il proposito di uccidere il suocero, senonché quest’ultimo era già morto. Ma Carlo era stato, anni prima, informato dalla levatrice che raccolse la prima bambina di lui del fatto che Maria era  stata già prima di lui posseduta da un altro e che probabilmente la bambina non era sua figlia. Carlo, però, non prese alcun provvedimento drastico dopo questa rivelazione così devastante per il suo onore, se non gonfiare di botte Maria e la bambina a ogni occasione. Poi vennero altri tre figli, questi certamente suoi, ma le botte alla moglie e a Carmelina continuarono e ogni volta che Maria, per evitare di prenderle se ne andava da sua madre, Carlo se la prendeva anche con la suocera.
Maria si spezzava la schiena per portare qualcosa a casa e Carlo, puntualmente, le prendeva tutto e andava a ubriacarsi alla cantina e poi… e poi botte.
Nei primi mesi del 1928 Maria, ormai trentasettenne, rimane incinta e, stanca delle razioni quotidiane di botte, finalmente decide di lasciare il marito e andarsene con i figli ad abitare da sua madre. Carlo Felice, che non era affatto un buon lavoratore, non può accettare questa situazione perché gli vengono a mancare i soldi per il vino e così continua a tormentarla con richieste di denaro e minacce di morte se non riceverà quanto richiesto.
I due uomini che stavano parlottando tra di loro osservando le donne raccogliere il fieno, assistono alla scenata e vedono le donne incamminarsi lungo un viottolo che porta alla via Comunale, così come vedono Carlo Felice restare nel fondo agricolo bestemmiando.
– Siamo alle solite, quando si decideranno a denunciarlo sarà un bene per tutti – dice uno dei due all’altro che annuisce, poi arriva il treno.
Il sole è ormai scomparso dietro le montagne quando Maria, i suoi figli e sua madre stanno mangiando qualcosa in casa, dove comincia a fare caldo col fuoco acceso per cuocere il cibo e lasciano la porta aperta a metà. Il suono delle nocche di una mano che picchiano sul legno fa sobbalzare tutti
È permesso? – la figura di Carlo Felice con un sorriso beffardo sulle labbra e il braccio destro nascosto dietro la schiena provoca l’immediata risposta stizzita di Anna Mendicino, la madre di Maria:
Non c’è permesso! – gli dice mentre si lancia verso la porta per chiuderla e impedire l’accesso al genero il quale, non appena la donna gli arriva a tiro, toglie il braccio da dietro la schiena: per un istante la lama che ha in mano luccica alla luce tremolante di un lume a olio, poi si abbatte sulla donna con estrema violenza. Un solo colpo che penetra sopra la clavicola sinistra e recide l’arteria succlavia prima di perforare il polmone.
Anna Mendicino barcolla e cade trascinando con sé la nipote Carmelina. Maria, vedendo la madre e la figlia per terra si lancia sul marito e gli si aggrappa alle spalle per evitare che continui a colpire ma Carlo sembra una furia e dopo due o tre violenti scossoni riesce a liberarsi dalla presa della moglie e accoltella anche lei nello stesso modo in cui ha accoltellato la suocera. Maria però ha i riflessi più pronti di sua madre e nell’attimo stesso in cui il coltello si abbatte su di lei riesce a piegarsi all’indietro anche se solo di pochi centimetri, quel tanto che basta perché il colpo non risulti mortale.
– Aiuto! Aiuto che ci ammazza! – urlano con quanto fiato hanno in gola i figli. Forse Carlo non si aspettava quella reazione o forse crede di avere ammazzato quelle che ritiene le responsabili del suo disonore, e alle grida dei figli scappa nel buio, mentre dalle case vicine accorre gente.
Anna Mendicino è praticamente già morta in un lago di sangue, Maria si rialza aiutata dai figli e viene portata in casa di una vicina, al riparo da nuove, possibili, aggressioni.
Il Brigadiere Oreste D’Inzillo, comandante della stazione di Carpanzano arriva subito dopo e avvia le ricerche di Carlo Felice che diventa subito uccel di bosco. Il paese è piccolo e tutti in pochi minuti sanno della tragedia annunciata. Si presentano anche i due uomini che quello stesso pomeriggio avevano assistito alla scenata nel campo di fieno. Donato Fornaro, trentasettenne capostazione, oltre a descrivere ciò che ha visto il pomeriggio, rivela:
Mi consta che precedentemente il marito e la moglie hanno litigato e parecchie volte la moglie mi ha pregato di intervenire ma il Fiordaliso era un ubbriacone e quando era sfornito di denaro se la pigliava con la moglie e odiava di più la madre di costei, Mendicino Anna, perché, come egli pensava, ella era la causa del suo danno istigando la figlia contro di lui.
Sono le 22,00 del 29 giugno 1928. Nella caserma dei Carabinieri il Vice Brigadiere Giovanni De Angelis, che sostituisce temporaneamente il comandante, e il Carabiniere Nicola Caccetta stanno chiacchierando prima di andare a letto quando sentono bussare alla porta. Aprono e si trovano davanti un uomo che dichiara:
– Sono Carlo Felice Fiordaliso; avantieri ho ammazzato mia suocera e ho ferito mia moglie, sono venuto per costituirmi.
I militari lo chiudono in camera di sicurezza e, nell’attesa di avvisare il Pretore di Scigliano, lo interrogano:
Da ben diciannove anni sono sposato con Maria Lamanna. Il matrimonio avvenne in America dove tutti ci trovavamo. Dopo dieci mesi dal matrimonio il padre di mia moglie intendeva vendere una proprietà e tornare in Italia. Io mi opposi in principio a tale proposito e così cominciarono i litigi in casa. Circa dieci mesi dopo tornammo tutti in Italia e precisamente a Centrache, dove sono nato, ove misi una bettola. Mia moglie cominciò a far guerra in casa perché voleva venire in Carpanzano a convivere con i suoi. In seguito cominciarono le discordie anche con il padre di mia moglie perché sebbene io lavorassi come colono a metà in una proprietà di lui sita in Carpanzano, detto mio suocero non mi faceva padrone di niente. Io trasferii la mia famiglia in Carpanzano per cercarmi lavoro e così in un solo anno di matrimonio, per colpa di mia moglie e dei suoi avi, io avevo dovuto cambiare tre residenze. Mia moglie, mettendosi d’accordo con i suoi, mi trattava male e mi creava una vita d’inferno. Più volte mia moglie e i suoi mi ànno denunziato ai Carabinieri, così mi divisi da mia moglie per circa sei mesi andando ad abitare in Centrache ed in tale epoca nacque mia figlia Carmela, poi decisi di partire per l’America dato che non potevo più convivere con mia moglie e le dissi che avrei voluto vederla prima di partire, ma lei non venne all’appuntamento. Si presentò a me un certo Cristiano Carmine di Carpanzano il quale mi restituì il telegramma, il vaglia di £ 175, la lettera che avevo fatto a mia moglie, aggiungendo che il padre di lei non le aveva fatto recapitare nulla, pregandomi anche di non farmi vedere in paese perché mio suocero aveva fatto un reclamo per fare avere un sussidio per mia figlia. Io pure entrai in paese per vedere la mia figliuola, che potei vedere in casa della suocera di mio cognato Lamanna Peppino dove mia moglie venne a trovarmi piangendo, dicendo che la colpa era dei suoi e le lasciai nelle mani il vaglia per mia figlia. Durante i tre anni che sono rimasto in America non ho mandato un soldo alla mia famiglia perché eravamo diventati nemici. Quando tornai in Italia mi feci volontario in guerra e congedatomi tornai con mia moglie con la quale mi ero riappacificato e così fino al 1920 restai con mia moglie in buon accordo. Nel 1920 ripartii per l’America e complessivamente ho spedito a mia moglie £ 16.000 circa fino a tre anni addietro, epoca in cui ritornai in Carpanzano a convivere con mia moglie. In questi tre anni ho lavorato una porzione del fondo di mio suocero, sito in Carpanzano, sopra la stazioneDurante l’ultimo viaggio in America seppi che mia moglie era stata posseduta, prima che io la sposassi, dal proprio padre e da questa unione era nato un bambino. Scrissi a mia moglie per richiamarla accanto a me per la paura che io, tornato in Italia, avrei potuto in un momento di odio uccidere il padre suo che l’aveva posseduta. Mia moglie fece finta di non ricevere quella lettera e io tornai e le domandai se fosse vero questo fatto e lei non poté negarlo. Io non abbandonai mia moglie, sia perché suo padre era morto, sia perché io avevo già quattro figli. Ma quando tornai mi accorsi che mia figlia Carmela non portava il mio cognome ma quello della famiglia di mia moglie e cioè Lamanna. Io di ciò mi offesi e pensai che anche quella bambina fosse il frutto di amore incestuoso con mio suocero. Così incominciò la guerra in famiglia. Per giunta poi seppi che mia moglie, la quale aveva denaro alla banca, come mi aveva detto quando ero in America, aveva prestato delle somme a suo padre che lo diede a Carmelo Sacco, quello che fu arrestato come mandatario dei tre omicidi in Carpanzano. Poi il padre di mia moglie morì e il denaro è stato diviso a tutti gli eredi perché le cambiali firmate dal Sacco erano intestate al padre di mia moglie. Da circa sette anni e cioè da quando seppi che mia moglie aveva procreato un figlio con il suo proprio padre mi è sorta l’idea di ammazzare il padre e la madre di lei. Tale proposito non ho potuto eseguire perché mi sono trovato quasi sempre lontano da loro. Dal 12 aprile di quest’anno (1928, NdA) mia moglie mi ha abbandonato per andarsene a vivere con sua madre e non permettendomi nemmeno di regalare un berretto a mia figlia. Il 18 corrente tornai in Carpanzano e ripartii il 20 ma mi accorsi che la mia casa era stata spogliata di ogni cosa da mia moglie. Nella camera di mia moglie v’erano i bachi da seta, in quella mia delle galline. Il 24 successivo tornai ancora in Carpanzano per farmi il raccolto nel fondo di mia suocera dove io ero colono. Il 27 corrente io cercai di far lasciare a mia moglie il fieno che stava prendendo dalla baracca sita nel fondo Pantano. Mia moglie mi minacciò che sarebbe andata dai Carabinieri. Nego di averla insultata e di averla minacciata. Io mi avviai verso casa mia e passai, o meglio dovetti passare davanti alla casa di mia suocera, dove davanti alla porta tanto mia suocera che mia moglie mi insultarono con le parole: “Cornuto di mamma e di sorelle” e io risposi che dovevano mettersi una maschera in viso. Così entrai in casa mia, mi armai con un coltello grande a punta e mi avviai verso casa di mia suocera con il proposito deliberato di ammazzare tanto mia moglie che mia suocera. Trovai la porta di casa di mia suocera aperta ed entrai chiedendo permesso. Mia moglie, mia suocera e i miei quattro figli erano seduti davanti al focolare. Mia suocera si alzò e si avvicinò alla porta dicendomi di andarmene perché io lì dentro non avevo né figli e né moglie e che il posto mio era la galera; così io estrassi il coltello dalla tasca e ne infersi un colpo alla mia suocera dicendo: “dato che il mio posto è in galera, ci vado con il mio piacere!”. Mia moglie cercò di prendermi ed io dicendo che era venuta la fine della mia vita, infersi un altro colpo di coltello a mia moglie per ucciderla. Incominciarono le grida e io me ne scappai. Mi sono costituito perché ebbi notizia che anche mia moglie era morta, altrimenti non mi sarei presentato prima di ammazzarla!
Sarà vero il lungo racconto di Carlo Felice? Pare proprio di no. Intanto non fa alcun accenno alla sua abitudine di ubriacarsi, cosa notoria in paese e sulla quale nessuno ha dubbi. Rosa Canino, una vicina di casa della vittima, testimonia di averlo visto litigare con la moglie e la suocera davanti la casa di quest’ultima per la questione del fieno, poco prima del tragico fatto. Giovanni Fuoco dice di aver sentito la moglie e la suocera di Carlo dargli del cornuto ma qualche giorno prima del fatto e l’uomo rispondere: “Qualche sera la faccio piangere”. Carmine Sacco, l’uomo che Carlo indica come beneficiario del prestito fatto con i suoi soldi, interrogato nel carcere di Cosenza dove è detenuto con l’accusa di omicidio, racconta:
Circa cinque o sei anni or sono, Lamanna Pasquale mi diede in prestito circa £ 3.000 per cui io gli rilasciai delle cambiali. Morto il Lamanna, sua figlia Maria , moglie di Fiordaliso Carlo, mi disse che il denaro avuto in prestito da suo padre era suo e quindi avrei dovuto a lei restituirlo, cosa che io non feci perché vi erano altri eredi. Più volte ho assistito a dei diverbi tra il Fiordaliso e sua moglie per il fatto che in paese si diceva che la Lamanna aveva avuto rapporti illeciti col padre e che in America aveva partorito in seguito a questi rapporti.
Ma nonostante queste voci, tutti i testimoni ascoltati nel corso delle indagini sono concordi nell’affermare che Maria Lamanna è stata sempre laboriosa ed è vissuta onestamente pensando ai figli. La stessa cosa nessuno dice di Carlo, definito come vagabondo e sfruttatore delle due donne.
Sua moglie Maria, con argomenti inoppugnabili, lo smentisce riguardo ai fatti che sarebbero avvenuti in America e anche sulla circostanza del cognome dato alla prima figlia Carmela:
Due volte fui in America col Fiordaliso e due volte lo feci ritornare in Italia giacché colà non lavorava ma beveva ed andava in carcere. Avevo una casetta di mia esclusiva proprietà in America che venne venduta e il Fiordaliso allora mi mandò i soldi. Mandò pure poca altra moneta che servì per comprare la casa di esso Fiordaliso in Carpanzano. Carmela è nata nel 1912 e fu dichiarata dal Fiordaliso nel 1917 giacché noi eravamo sposati in America e si dovettero attendere le carte dall’America suddetta che vennero precisamente nel 1917.
L’istruttoria è velocissima e dopo appena cinque mesi dai tragici fatti la Sezione d’Accusa rinvia Carlo Felice Fiordaliso al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con le accuse di omicidio volontario premeditato in persona della suocera Mendicino Anna e di mancato omicidio in persona della moglie Lamanna Maria.
L’inizio del dibattimento viene fissato per il 4 aprile 1930 e, nel frattempo, Maria con i figli si trasferisce a Scigliano, distante pochi chilometri dal suo paese natale.
Bastano due udienze alla giuria per emettere, il 5 aprile, la sentenza con la quale Carlo Felice Fiordaliso viene condannato, esclusa la premeditazione, a 18 anni, 9 mesi e 10 giorni di reclusione, ma gode del condono di 1 anno. Inoltre dovrà scontare 3 anni di vigilanza speciale, sarà interdetto perpetuamente dai pubblici uffici e interdetto legalmente per la durata della pena; perderà la patria potestà sui propri figli e l’autorità maritale durante l’espiazione. A parte dovrà essere stabilito il risarcimento del danno.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

 

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