IL CAPOSQUADRA DEL FASCIO

Sono le 21,30 del 12 maggio 1927 quando molte persone si accalcano davanti alla caserma dei Carabinieri di Acri per denunciare che pochi minuti prima in Via Iungi, quasi davanti al Comune, c’è stata una sparatoria e ci sono dei feriti e forse dei morti. Il Maresciallo Capo Orazio Carcagnolo si precipita sul posto accompagnato dai suoi sottoposti e constata che per terra, in mezzo a un capannello di gente, c’è il corpo di un cadavere umano con la testa trapassata da parte a parte da un proiettile; poco distante alcune persone stanno raccogliendo da terra un altro uomo, questo ferito gravemente a entrambe le gambe, per trasportarlo all’ospedale “Charetas” locale.
– Sapete di chi si tratta? – chiede il Maresciallo ai presenti, indicando il cadavere.
– È l’orefice Alberto De Vincenti – gli rispondono.
– E l’altro?
– Giulio Capalbo.
– Si sa chi ha sparato?
– Capalbo ci ha detto che è stato il cosentino – gli risponde uno dei presenti – è scappato di corsa verso il Municipio e ha preso il vicolo prima del palazzo, quello che va verso il cinematografo…
Carcagnolo dà disposizioni ai suoi uomini per iniziare le ricerche del presunto assassino e va all’ospedale per interrogare il ferito:
– Io e De Vincenti avevamo organizzato una scampagnata in Sila con altri amici, ma per il cattivo tempo di oggi abbiamo rinunciato e, tutti d’accordo, abbiamo deciso di vederci stasera nel negozio dei fratelli Grandinetti per consumare quello che avevamo preparato. Quando abbiamo finito siamo usciti e, a gruppetti, ci siamo messi a passeggiare per il paese. Io e De Vincenti camminavamo insieme lungo Via Iungi quando ci siamo imbattuti nel cosentino che, senza motivo, ci ha detto in malo modo: “Andate cercando me?”. De Vincenti gli ha risposto: “Non andiamo cercando nessuno” . Dopo di ciò, e quasi fulmineamente, il suddetto Cosentino sparava diversi colpi di rivoltella e cessava di far fuoco solo quando si accorse che entrambi eravamo a terra. poi è scappato verso il Municipio.
Carcagnolo è perplesso, pensa che non poteva essere tutto ed il vero resoconto del fatto, non essendo presumibile che per la sola circostanza anzidetta dal ferito, il feritore si sia potuto decidere così facilmente a far fuoco. Senza dubbio dovevano esservi state delle provocazioni, seppur lievi, ma dovevano essere avvenute e che per quanto lievi, gravi dovevano aver sembrate all’omicida e feritore insieme.
Mentre il Maresciallo torna pensieroso verso il luogo del delitto, arriva di corsa il Brigadiere Libri con la notizia che l’assassino è stato trovato nascosto all’interno dell’Albergo Molinari e arrestato:
– Sono andato all’albergo a chiedere se sapessero qualcosa e mentre mi stavano dicendo di non sapere niente, dalle scale è comparso un operaio che ha detto: “Lui sta sopra” e allora sono salito e l’ho trovato nella stanza di tale De Stefano Giuseppe il quale, appena ha visto me e l’Appuntato Carvelli ha detto: “Stavo venendo a chiamarvi perché si voleva costituire…”. Abbiamo subito perquisito la stanza ma non abbiamo trovato armi. Poi abbiamo perquisito la camera accanto che era aperta e sotto un pagliericcio c’era la rivoltella.
“Sta cosa è strana”, pensa Carcagnolo, “dalla strada che ha preso per scappare si va in campagna, com’è che era nascosto a pochi metri dal luogo del delitto?”.
Con quest’altro pensiero in testa va all’Albergo Molinari e si accerta dell’identità del cosentino che risulta essere Rosario Macrì, ventottenne impiegato del Genio Civile, da qualche giorno ad Acri per sovraintendere ad alcuni lavori di competenza del suo ufficio. Emerge anche che Macrì è capo squadra della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e che per questo ha un regolare porto d’armi. Il paese è in subbuglio e il Maresciallo, temendo che possa accadere qualche altra disgrazia, invece di portare Macrì in caserma, lo porta direttamente nel Carcere Mandamentale del paese.
Sorge subito un dubbio: sapendo che Capalbo è iscritto al Partito Socialista e che De Vincenti era simpatizzante dello stesso partito, è possibile che il movente possa rintracciarsi nei rancori politici fra i tre. Ma Macrì smentisce subito questa ipotesi e, interrogato, fornisce la sua versione dei fatti:
Sono da pochissimi giorni ad Acri per ragioni di lavoro e non conosco ancora alcuno del paese. Avevo preso in fitto la casa di tale Donna Guglielmina perché dovevo condurre meco la famiglia. Questa sera, dopo cena, ero andato in piazza al Bar a prendere un caffè e ritornavo poi alla mia abitazione per coricarmi. Ero giunto davanti la casa e stavo per infilare la chiave nella toppa quando una ragazza che abita di rimpetto mi rivolse il saluto. Io ho risposto: “buona sera”. In questo frattempo passavano per la via due persone che non conosco; nel sentirmi, uno vestito di grigio ha detto: “Ma che ce l’ha con noi?”. Allora l’altro, ch’era vestito di velluto se non ho visto male, ha detto: “Ma chi è? Vediamolo” e si è avvicinato, indi, prendendomi il mento nella mano, mi ha dato uno strappo per costringermi a voltare la faccia verso di lui. Io ho detto: “Ma che modi son questi? Dove si usano?”. Al che quegli ha risposto: “Stai zitto, chè altrimenti prendi degli schiaffi” e mi ha anche detto fesso. Io ho fatto qualche passo indietro gridando: “Ohè!” per evitare che questi atti provocassero qualche conseguenza, ma quello vestito più chiaro mi si è avvicinato tirandomi uno schiaffo. Ed allora io, per intimorirli e farli scappare, ho esploso un colpo in aria; questo però ha avuto l’effetto contrario perché anche l’altro mi si è slanciato addosso afferrandomi per la gola. Allora, vistomi preso, mi sono divincolato ed ho continuato a sparare. Io stesso non so in che direzione. Entrambi i miei assalitori sono caduti ed io sono fuggito per un vicolo, sono sbucato presso il Cinematografo, di lì ho fatto il giro per la via dell’Annunziata e mi sono ritrovato all’Albergo sito a pochi metri dal luogo dove è successo il fatto e dove poi sono stato arrestato, però io stesso avevo mandato a chiamare i Carabinieri da un tal De Stefano.
Sembra un racconto credibile e un particolare significativo viene confermato da donna Gugliemina Cicchitelli, la padrona di casa di Macrì, la quale dice di essere scesa in strada non appena ha sentito i colpi e di aver trovato la chiave di casa inserita nella toppa e ciò potrebbe voler dire che tutto, almeno da parte di Macrì, è avvenuto per caso.
Ma ci sono altri particolari del racconto che man mano vengono smentiti dai testimoni che si trovavano sulla scena del delitto, chi  dietro alla finestra o chi passando frettolosamente per strada.
La ragazza con la quale Macrì dice di aver scambiato un saluto, identificata per la diciassettenne Rosina Rago, dice:
Mi trovavo a spazzare dell’acqua che era caduta sulla loggetta della scala, quando vidi passare De Vincenti Federico e Capalbo Giulio che salivano per la via S. Domenico ed andavano verso il Municipio. Il De Vincenti, in tono scherzoso mi disse: “Bischigna!”perché sono bassa, ma poi non ho parlato più con nessuno di loro. Nello stesso tempo per detta via scendeva il Macrì che conoscevo di vista perché abitava di fronte a casa nostra; gli stessi si oltrepassarono senza nulla dire e il Macrì, oltrepassata la casa dove abitava, proseguì verso il ponte S. Domenico. Io poi rientrai e stavo spogliando un mio fratellino per metterlo a letto quando sentii gli spari. Ero dentro e di dentro ho sentito il dialogo tra il Macrì e gli altri due. Il Macrì disse: “Andate cercando me?” e uno degli altri due rispose: “Noi non cerchiamo nessuno”. Poi seguì uno scambio di parole più a bassa voce e dopo uno dei due paesani che diceva: “Cosa va cercando da noi questo delinquente questa sera?” Subito dopo gli spari. So che l’imputato si difende dicendo che aveva salutato me, ma io nego di averlo salutato,
– Macrì si è certamente fermato davanti casa e stava per entrare, la chiave era nella toppa – le contesta il Maresciallo.
Quando vidi il Macrì che oltrepassava la sua casa e voltava per il ponte S. Domenico, lo stesso non si fermò affatto davanti il suo portone e certo in quella occasione non mise la chiave nella toppa; non so se lo fece in seguito. Nego recisamente di essermi trovata fuori quando avvenne il fatto. Lui vuole trovare questa scusa credendo che furono entrambi morti, ma il Capalbo pure lo dice che io non c’ero sul vignano!
Almeno quattro testimoni smentiscono la ricostruzione della sequenza dei colpi fatta da Macrì: prima un colpo in aria e dopo parecchi secondi altri tre colpi. Secondo questi testimoni i colpi furono sparati in rapida successione, cadenzati come fosse stato un fuoco d’artificio detto trick-track.
Altri sostengono di non aver visto nessuna delle due vittime prendere per la gola Macrì e tirargli uno schiaffo, ma di aver visto un breve conciliabolo tra i tre e poi Macrì indietreggiare di qualche passo e fare fuoco ad altezza d’uomo. E questa è la verità accertata dalla perizia balistica, infatti vengono repertate per strada le pallottole che hanno trapassato i corpi delle vittime e viene repertata anche la quarta pallottola che ha terminato la sua corsa nel battente del portoncino Cicchitelli, a 20 cm dal suolo, in quel punto in pendio presso al luogo dove è mortalmente attinto De Vincenti.
Adesso la dinamica dei fatti è abbastanza chiara: i tre si incontrano per strada, si dicono qualcosa che deve aver provocato la reazione esagerata di Macrì, che spara contro i suoi avversari quattro colpi per ucciderli. Ma cosa si sono detti veramente? Nessuno dei due protagonisti superstiti lo rivela e se non si chiarisce questo punto non si riuscirà nemmeno a stabilire il movente dell’azione criminosa di Macrì. Così i Carabinieri indagano per capire quali possano essere stati i veri rapporti tra i tre e scoprono che hanno nascosto cose fondamentali e che anche la testimone chiave del processo, Rosina Rago, ha mentito.
Il Maresciallo Capo Carcagnolo riesce a stabilire che tanto Macrì quanto Capalbo avevano cercato di entrare in intime relazioni con Pellegrino Antonietta, domestica della Cicchitelli, ove avea preso alloggio il Macrì il quale, avendo saputo che la Pellegrino, prossima ad emigrare, era stata minacciata dal Capalbo o da altri giovinastri del paese di non farla partire “sana”, cioè di deflorarla prima della partenza, avrebbe manifestato il proposito di proteggerla, accompagnandola anche fino a Napoli all’atto della partenza. Non solo. Macrì, sposato con figli, corteggiava anche Rosina Rago e la sera stessa della sparatoria l’aveva invitata ad andare nella sua camera; ella aveva risposto che per fare ciò occorreva trovare il pretesto di andare a comprargli qualche cosa e, quindi, gli aveva dato convegno alla fontana, dove ella sarebbe andata ad attingere acqua. Quindi la presenza dei due amici che passeggiavano avanti e indietro per la strada e la battuta pronunciata da De Vincenti all’indirizzo della ragazza, avrebbero disturbato Macrì in un momento in cui egli desiderava ardentemente che la strada rimanesse deserta per poter menare a dolce fine l’intrapresa opera di seduzione e forse pensò che i due, ignari del resto delle sue mire sulla Rago, si trattenessero lì per disturbarlo. Da qui l’alterco e i tragico epilogo della vicenda.
Questa ricostruzione dei fatti è sposata dal Giudice Istruttore che formula la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Rosario Macrì per omicidio volontario in persona di Alberto De Vincenti e mancato omicidio in persona di Giulio Capalbo. Il 29 febbraio 1928, la Sezione d’Accusa accoglie la richiesta e Rosario Macrì sarà giudicato dalla Corte d’Assise di Cosenza.
Composta la giuria popolare con i 12 membri di legge, si deve provvedere subito a sostituirne alcuni che dicono di essere impossibilitati ad assumere l’incarico per problemi di salute. Immediatamente prima dell’apertura del dibattimento, fissato per  il 28 novembre dello stesso anno, accade un altro fatto strano. L’avvocato e deputato socialista Pietro Mancini, che rappresenta una delle parti civili, subisce una perquisizione domiciliare e subito dopo rinuncia all’incarico presentando una certificazione medica.
Adesso il dibattimento può cominciare. A presiedere la Corte è Saverio Zinzi, la difesa è rappresentata dagli avvocati Tommaso Corigliano, Nicola Serra e Luigi Filosa, mentre le parti civili sono rappresentate dagli avvocati Ernesto Fagiani e Filippo Coscarella. Tutto sembra far pensare che si arriverà a una sentenza di condanna nei confronti di Macrì. Almeno fino a quando non viene chiamato sul banco dei testimoni Luigi Bandozzi, console della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale a Belluno ma all’epoca dei fatti a Cosenza:
L’imputato Macrì è caposquadra della milizia. Dopo successo il fatto mi recai in Acri per una inchiesta che io soglio fare in casi simili quando riguardino persone del partito. Colà interrogai un capo manipolo ed il maresciallo dei RR.CC e questi mi disse che la sera prima in Acri vi era stato un banchetto per solennizzare il ritorno dell’On. Mancini dal confino; che due individui quella sera incominciarono a dileggiare il Macrì con l’epiteto di “ingegnere dei miei coglioni” e che l’assalirono nell’atto che stava introducendo la chiave nella toppa di casa. Osservai la località e la posizione dei luoghi e mi formai il convincimento che vi fu una colluttazione. Il morto era una buona persona mentre il vivo era un sovversivo. Ho inteso dire che conosceva il Capalbo, una cosa certa è che l’avvocato Filosa e il Macrì sono stati i fondatori del fascio di Acri. Macrì è stato sempre un ottimo giovanotto.
– Sapete se il povero De Vincenti avesse fatto domanda per entrare nel fascio o avesse partecipato a qualche manifestazione fascista? – gli chiede l’avvocato Fagiani, anch’egli fascista, che ha capito il tentativo messo in atto per spostare l’attenzione da un fatto avvenuto per questioni di donne a un fatto politico.
Non so se il defunto De Vincenti avesse fatto domanda da circa 3 mesi per entrare al fascio, come non so se egli avesse antecedentemente partecipato a cerimonie fasciste.
C’è un particolare: non risulta in nessun atto che il Maresciallo Carcagnolo abbia mai sostenuto una tesi simile, ma nessuno mette in rilievo la circostanza: il messaggio lanciato da Bandozzi è chiarissimo per chi deve riceverlo.
L’atmosfera si fa pesante, ma a non volere che il processo diventi un processo politico non ci stanno nemmeno i fascisti di Acri. Angelo Grandinetti, proprietario del negozio nel quale si tenne la cena tra amici dichiara sotto giuramento:
Sono iscritto al fascio dal 1921 e nel mio negozio si tenne il banchetto quella sera – un banchetto di sovversivi che si tiene in casa di un fascista della prima ora? Difficile da credere.
Il 4 dicembre 1928 viene emessa la sentenza: Rosario Macrì fu Gennaro di anni 28 ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di respingere da sé una violenza attuale ed ingiusta. Assolve Macrì Rosario perché non punibile ed ordina che sia immediatamente scarcerato se non detenuto per altra causa.
Passano gli anni, sedici per la precisione. L’Italia è stata sconvolta dalla guerra e ne è uscita sconfitta, il fascismo è caduto e si cerca faticosamente di eliminare le macerie. Si cerca anche di perseguire i fascisti che si sono resi responsabili di reati durante il ventennio. Così viene rispolverato anche il fascicolo contro Rosario Macrì, nel frattempo grande invalido di guerra e padre di numerosi figli, perché c’è il sospetto che la sentenza di assoluzione fu emessa dietro forti pressioni ai giurati da parte del regime.
Il 22 dicembre 1944 la Questura e i Carabinieri di Cosenza vengono incaricati delle nuove indagini e relazionano rispettivamente.
La Questura
18/1/1945
Quasi tutti i giurati, qui residenti, componenti la giuria nel processo in oggetto, sono deceduti. Dei vivi, il Barracco Tommaso è paralitico ed incapace di ricordare, mentre il Luberto Vincenzo ed il Lauro Nicolino hanno dichiarato di aver votato secondo coscienza, senza aver subito alcuna coercizione materiale e morale né da parte degli avvocati difensori del Macrì né da parte di autorità amministrative o politiche. Comunque nell’opinione pubblica vi è il convincimento che i difensori di parte civile non potettero esplicare appieno il loro mandato; che si tentò, a suo tempo, d’indurre il Prof. Pietro Mancini, difensore di parte civile, ad abbandonare il processo mediante perquisizione domiciliare e che, nel complesso, l’assoluzione del Macrì Rosario fu dovuta a direttive impartite da Roma.
I Carabinieri
3 marzo 1945
(…) – l’avvocato CORIGLIANO (ora deceduto) difensore del Macrì, nello scendere le scale del tribunale, incontratosi col giurato MAZZOTTA Pasquale da Lago gli disse che bisognava ponderare sul verdetto che dovevano emettere i giurati, cercando di conoscere la volontà del Mazzotta, ma questi si astenne dal palesarla;
– secondo quanto dichiarato dal giurato TAMBURI Vincenzo, residente nel comune di San Basile, ritenuto dall’opinione pubblica di carattere fermo e risoluto e persona che agisce con coscienza, il verdetto non risulta sia stato determinato, od abbia influito, lo stato morale di coercizione determinato dal fascismo.
– giusta dichiarazione rilasciata dal giurato CERVINO Teodoro da Corigliano Calabro, che si alliga, per l’assoluzione del Macrì influì lo stato morale di coercizione determinato dal fascismo.
Comunque, nell’opinione pubblica di questa cittadinanza è rimasta la convinzione che l’assoluzione del Macrì fu dovuta a direttive di alte personalità fasciste residenti a Roma.
Si comunica infine che l’avvocato di fiducia del Capalbo, prof. Pietro Mancini, del partito socialista, al momento del dibattimento, adducendo di essere indisposto, si sottraeva all’incarico affidatogli.
Pare proprio che Teodoro Cervino, Presidente della Cassa Rurale di Corigliano, ricordi molto bene i giorni del dibattimento:
Effettivamente posso affermare sul mio onore di onesto cittadino che nella causa contro Macrì Rosario, allora imputato di omicidio in persona di De Vincenti Alberto, orefice di Acri, influì lo stato morale di coercizione determinato dal fascismo.
Infatti, nella prima fase del procedimento, in dibattito, compreso che la giuria avrebbe condannato senz’altro il MACRI’ perché ritenuto responsabile del delitto, la giuria fu sciolta e ricomposta nuovamente con elementi cosentini, tranne di 4 persone del Circondario di Rossano e nel verdetto vi furono proprio 4 voti contrari. 
A quanto potei allora comprendere, venne un ordine perentorio per l’assoluzione del Macrì perché era capo manipolo della M.V.S.N. si diceva fosse figlio del vice comandante delle guardie Municipali di Cosenza del tempo.
L’11 settembre del ’45 il Questore di Cosenza si sbilancia e, a conclusione delle indagini, scrive:
Si comunica che da indagini esperite dall’arma dei CC.RR. di Acri non è risultato che l’omicidio in persona di De Vincenti Alberto ed il tentato omicidio in persona di Capalbo Giulio ad opera del capo squadra della m.v.s.n. Macrì Rosario sia stato determinato da motivi politici.
Risulta invece che la influenza politica abbia contribuito durante il procedimento penale per favorire l’imputato.
Gli atti vengono trasmessi alla Suprema Corte di Cassazione per ottenere la revisione del processo, ma l’avvocato Nicola Serra, di nuovo difensore di Macrì, protesta vivacemente con una memoria indirizzata ai giudici romani:
È veramente sorprendente che questo processo, il quale si riferisce ad uno di quei fatti di sangue originati da quel senso di gelosia quasi barbara per le donne del proprio campanile così caratteristico dei rustici villaggi della Calabria; fatti di cui è stata sempre riempita la cronaca giudiziaria di questa “terramatta” della gelosia; è sorprendente, ripetiamo, che ora esso diventi – così, d’un tratto, e con una disinvoltura non certo apprezzabile nel magistrato ricorrente (diciamo Magistrato) – un processo di natura politica soggetto a revisione.
Se l’odio non ancora sopito, dopo circa vent’anni, tenace come spesso è tenace l’odio dei calabresi; se quest’odio ha potuto consigliare alla vendetta di Giulio Capalbo e della famiglia De Vincenti di valersi di questa possibilità di inversione per pescare nel torbido e comunque approfittare del rivolgimento politico del Paese per dare sfogo allo spirito di persecuzione che li anima verso il Macrì; questo odio di parte e questo spirito di persecuzione non dovevano poter arrivare fino all’altezza di un Procuratore Generale per determinare un ricorso di revisione che non trova nessuna giustificazione giuridica e morale e, tanto meno, politica.
Un simile ricorso turba e preoccupa l’animo di chi è abituato a fidare nella serenità e nella indipendenza del magistrato.
Atto pericoloso per il prestigio e la funzione della Giustizia che oggi deve guadagnare la fiducia di tutti per potere essere riparatrice degli errori commessi appunto per pressioni, influenze e coartazioni di carattere politico durante gli anni del Fascismo.
Guai ad essa se, per andar dietro ad una passione di parte che indica una inesistente ingiustizia del passato, si dovesse essa stessa, la Giustizia di oggi, rivelare vittima di pressioni attuali certe ed evidenti. Sarebbe il fallimento più doloroso e più gravido di conseguenze per le sorti di questo nostro martoriato Paese, che può trovare pace e concordia soltanto, forse, nell’opera di una Giustizia che in ogni revisione deve operare un risanamento morale e politico per la rieducazione della coscienza del popolo libero.
Ma il ricorso è minato dalle origini perché il Decreto Legislativo 27 luglio 1944 n. 159 all’articolo 6, intende perseguire i delitti fascisti e li descrive all’articolo 3 dello stesso Decreto come quei delitti di movente politico o che siano stati agevolati dalla situazione creata dal fascismo. Non risultando in alcun atto che il delitto commesso da Macrì sia stato di natura politica, non rientra in questa casistica e la Corte di Cassazione, il 27 luglio 1945, respinge l’istanza di dichiarazione di giuridica inesistenza della sentenza 4/12/1928 della Corte d’Assise di Cosenza nei confronti di Macrì Rosario e mette fine alla vicenda.[1]
In verità nessuno ha mai detto o scritto che si sia trattato di un delitto politico ma “solo” che la sentenza fu condizionata dalla politica.
Giulio Capalbo e gli eredi di Alberto De Vincenti devono farsene una ragione. La pacificazione nazionale è cominciata.

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

 

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