I CONTI DEL BRIGANTE PIETRO BRANCA

Quando nella primavera del 1848 in tutta Europa scoppiano rivolte per l’ottenimento di costituzioni liberali, anche il regno delle due Sicilie è interessato da questi moti. I liberali, cioè la nobiltà e i grandi proprietari terrieri, spingono per ottenere una nuova Costituzione che limiti i poteri del re; il re, appoggiato dal popolino, è ovviamente contrario e scoppia una vera e propria guerra civile.
La disciolta Guardia Nazionale affronta l’Esercito fedele al sovrano e furiose battaglie infuocano il Regno. Una delle più sanguinose è combattuta a Campotenese. A questo punto, anche il popolo scende in campo, forse sapientemente istigato dai comandanti dell’Esercito Regio, e
Nell’està del 1848 molti popolani dei casali di questa provincia, dominati dallo spirito di profitto e di rapina divisarono darsi alla campagna e, facendo mano bassa alla altrui proprietà, consumarono degli ingenti danni, delle devastazioni ed altri atti violenti; alcuni, però, ravveduti, facevano poscia ritorno da pacifici nel seno delle loro famiglie, ma taluni altri più audaci si diedero apertamente a delinquere ed infestando in comitive armate le campagne apportarono lo spavento ai buoni e si lordarono col decorrere del tempo di non pochi ed atroci misfatti.
Tra i popolani che più si danno da fare a saccheggiare le proprietà dei nobili c’è Pietro Branca da Feruci, rione di Trenta, il quale è troppo compromesso per rientrare nei ranghi e ottenere il perdono regio, così decide di darsi alla macchia facendosi brigante.
Pietro nel ’48 ha quarantuno anni, una moglie e qualche figlio. Di corporatura e volto scarno, di colore alquanto bruno, avea la barba completa e mancava di barbette. Se non erro i capelli eran di colore alquanto oscuro da confondersi col nero, dicono di lui. È un infaticabile lavoratore e non fa lo schizzinoso. C’è da portare legna in un concio di Altomonte? Lui ci va. C’è da lavorare alla liquirizia a Rossano? Lui ci va. C’è da prendere un terreno da coltivare ad Acri? Lui ci va.
Poi non ci va più.
La nostra storia comincia quando Pietro Branca nel mese di Novembre del 1847 teneva un mulo in Contrada Greca, territorio di Acri, e questo una notte gli venne ucciso. Avvenne che giusto nella notte della uccisione del mulo, i porci di proprietà di Francesco Sammarro trovavansi in quelle adiacenze e perciò fu detto che il figlio di Sammarro, senza precisarsi nome, era stato l’uccisore del mulo, e perciò Pietro Branca, in luglio ultimo (1848 nda) epoca nella quale si era dato a scorrere la campagna, andava in cerca del figlio di Sammarro per farsi pagare il mulo.
Branca cerca Sammarro in compagnia del suo fedelissimo paesano Fortunato Federico, fisicamente il suo opposto, essendo basso e grasso ma bello, precisa una donna che lo ha visto. I due non passano certo inosservati, sia per le opposte caratteristiche fisiche, sia perché sono vestiti con calzoni lunghi con striscie rosse sui fianchi – chiaramente militari – , sia perché se ne vanno in giro armati fino ai denti.
– Sai dove pascola i porci il figlio di Sammarro? – Pietro Branca al porcaro Vincenzo Cerenzia
– Non lo so, ma perché lo cerchi? – gli risponde tenendo gli occhi fissi sulla mano di Branca che giochicchia col calcio della sua pistola.
Lo cerco perché caro amico mio e sempre mi ha fatto del bene – fa Branca, componendo il volto ad ironia, poi saluta e se ne va col suo amico fidato.
Chiedendo a chiunque incontri nelle vicinanze della contrada Greca, ma ricevendo sempre risposte negative e variando talvolta la propria risposta in un “Mi deve pagare un mulo”, i due briganti allargano il giro e il 30 luglio 1848, in località Fiumara di Trionto della contrada Radicone nella Sila Greca, si imbattono in un contadino al quale rubano il cappotto, poi si dirigono dall’altra parte della radura, verso il limitare del bosco, perché hanno visto pascolare dei maiali. Quando sono nelle immediate vicinanze degli animali, notano che a custodirli sono due uomini  ai quali chiedono:
– A chi appartengono questi porci?
– Una parte sono di Angelo Sammarro, un’altra parte sono di diversi proprietari che me li hanno affidati – risponde il più giovane dei due porcari.
– Come ti chiami? – gli chiede Pietro Branca.
– Natale Scaramuzzo – risponde il ragazzo.
– E tu come ti chiami – fa all’altro.
– Angelo Sammarro – al brigante scintillano gli occhi.
– Il figlio di Ciccio?
– Si.
– Hai altri fratelli? – insiste. Angelo un fratello lo ha ed è proprio il Luigi Sammarro che Branca sta cercando, ma forse ha riconosciuto l’uomo di cui è arrivata notizia anche lì, quello che dice di voler essere rimborsato per il suo mulo morto, sa che Branca accusa suo fratello di essere il responsabile e forse pensa di essere in grado di risolvere la questione senza coinvolgere Luigi, così risponde:
– No, sono unico maschio.
– Bene, allora ti devo chiedere un piacere perché so che mi puoi aiutare. Qui vicino abbiamo un animale caduto in una trempa e non riusciamo a tirarlo, ci devi aiutare…
Ad Angelo Sammarro quelle parole suonano strane, perché proprio lui e non l’altro? E poi i porcari non sono vestiti come quei due e, soprattutto, non vanno in giro armati di fucili, pistole e coltelli che sembrano sciabole! Ma ormai è in ballo e deve stare al gioco.
– Andiamo! – risponde.
I tre uomini ripercorrono la radura fin quasi a lambire il terreno coltivato dove hanno poco prima derubato il contadino, il quale li vede in compagnia di Sammarro e ne resta così sorpreso che desiste dal proposito di sparargli contro e li lascia scendere nel vallone sottostante.
– Dov’è l’animale che dobbiamo tirare? – fa Angelo una volta giunti in fondo alla trempa. Forse non immagina quello che i due hanno in serbo per lui, o forse spera di cavarsela in qualche modo. O forse ancora non li teme perché sa, in coscienza, di non aver fatto niente di male a quegli uomini.
– È là – gli risponde Pietro Branca indicando con la mano un punto imprecisato alle spalle di Sammarro, il quale si gira dando le spalle al brigante. È quello che aspettava: in un attimo sfodera la coltella, afferra con il braccio sinistro Angelo serrandogli la gola, poi lo pugnala due volte alla schiena, ma l’avversario si dibatte disperatamente e non ne vuole sapere di morire. Con freddezza, Pietro Branca detto il padre, gli taglia la gola da un orecchio all’altro, quasi fino a decapitarlo, mollando la presa quando sente la sua preda afflosciarsi come un sacco vuoto.
Branca e Federico restano compiaciuti a guardare il sangue che zampilla dall’orrendo squarcio e quando ad Angelo Sammarro non è rimasta più nemmeno una goccia di sangue, tornano indietro.
Sono ormai le 14,00 quando i due finiscono la risalita della trempa,  la scarpata,  e notano un uomo che, tutto sudato sta squadrando un tronco di pino per farne una trave.
– Salutiamo – gli fa Branca.
– Salutiamo – gli risponde Annunziato, Pappa, Furfaro rialzandosi e stiracchiando la schiena e poi, cavato un fazzoletto cencioso da una tasca e passatoselo sulla fronte, continua – avete acqua vussuria?
– No, ma là sotto c’è una bella sorgente fresca e ti puoi dissetare – gli risponde indicando un punto alla base della scarpata. Pappa è titubante, nessuno prima gli aveva detto di quella sorgente e non si muove. Pietro Branca continua ad esortarlo – e vai! Hai paura che ti rubiamo la trave? Stai tranquillo, noi dobbiamo fare una cosa qui vicino ma torniamo perché vicino alla sorgente abbiamo ammazzato un animale e dobbiamo tornare a prenderlo. Anzi, visto che vai a bere, ti puoi prendere le zampe e la testa e te le cucini!
Quello che non era riuscita a fare la sola sete, riesce a fare la fame. Con la doppia prospettiva di bere e mangiare, Pappa lascia il lavoro e comincia a scendere lungo la scarpata, mentre i due briganti, sghignazzando se ne vanno.
Quando Annunziato Furfaro si rende conto che, in effetti, la sorgente esiste davvero e già pregusta una bella bevuta di acqua fresca e una bella scorpacciata di selvaggina, cade a terra lanciando un urlo di terrore: quello che gli avevano descritto come un animale, altri non è che il cadavere quasi decapitato del povero Angelo Sammarro.
Pietro Branca e Federico Fortunato resteranno alla macchia ancora per qualche anno, sporcandosi di altri orrendi delitti, ma a Feruci comincia a diffondersi la voce che Pietro si è fatto brigante per vendetta: l’uccisione del mulo lo ha privato dell’unico suo mezzo di sostentamento e la morte di Sammarro, comunque del Sammarro sbagliato, ha bilanciato la perdita. Ma i testimoni non la pensano così. Uno per tutti è il suo compaesano Bonaventura Curcio, da qualche anno trasferitosi ad Acri per lavoro:
Due giorni prima che fosse ucciso Angelo Sammarro, trovandomi in Contrada Greca mi si fece innanzi il nominato Pietro Branca di Feruci il quale mi richiese dove poter trovare Luigi Sammarro, quello stesso che possedeva dei porci ed un fondo in Contrada Vallonicupo. Alla richiesta risposi di non conoscere chi fosse il Sammarro e lo domandai del motivo per lo quale cercava costui. Soggiunse che lo cercava per farsi pagare un mulo che gli avea ucciso. Conoscendo io Luigi Sammarro per persona facoltosa e sapendo d’altronde che Branca si era dato a scorrere le campagne, sospettai che le ricerche di questo ultimo non fosser dirette per farsi pagare il mulo come assicurava, ma per estorgere denaro. Sotteso tal mio sospetto, io nel corso dello stesso giorno tenni avvisato Luigi Sammarro che Pietro Branca cercava di lui per aver pagato il mulo e non mancai di partecipargli che l’affare del mulo era a mio intendimento un vero pretesto per buscar denaro. Io non so se davvero gli sia stato ucciso un mulo e quant’anche fosse stato ucciso a Branca il suo mulo, era Sammarro incapace di una tanta bassezza.
Come abbiamo detto, a Feruci comincia a girare la storia del mulo di Pietro Branca, ma negli stessi giorni il paese è sconvolto da altri tristi avvenimenti.
Giuseppina Carravetta ha lasciato il marito, Pietro Serra, per diventare l’amante del prete don Francesco Branca. L’uomo, ferito nell’onore, è infuriato e apposta la moglie per ucciderla, ma il tentativo va a vuoto e Giuseppina, insieme a sua madre Michelina, ottiene ospitalità e rifugio presso la famiglia di Giovan Battista Baldino e di sua moglie Maria Costanza Branca, parente stretta del brigante Pietro.
In paese i giorni scorrono nella paura che da un momento all’altro ci scappi il morto e tutti camminano rasente i muri per scampare a qualche improvvisa schioppettata. Pietro Serra sembra fare la ronda intorno alla casa dei Baldino, ma la moglie non si fa vedere nemmeno nelle vicinanze delle finestre. Serra deve vendicarsi  ma non riuscendo a colpire sua moglie, né a convincere Baldino a cacciarla di casa, sceglie la via della vendetta trasversale: ammazzare Maria Costanza Branca.
Quando la donna va alla fontana a prendere l’acqua l’aggredisce e la colpisce con quattordici coltellate. Maria Costanza per sua fortuna sopravvive, ma a meditare vendetta adesso sono in due: Pietro Serra e suo marito.
Il colpo grosso riesce a Giovan Battista Baldino che fa secco Pietro Serra, ma non è ancora contento, la vendetta non è completa: deve pagare anche il prete, don Francesco Branca, ritenuto l’origine dei mali che sono capitati alla sua famiglia. Così aspetta che il prete esca dalla canonica, lo fa secco a schioppettate e poi, finalmente lavato l’onore, diventa brigante.
Pietro Branca si sente anche lui parte in causa per la morte della sua parente Maria Costanza e pensa di far fuori Giuseppina Carravetta, anch’essa causa del male.
Ma c’è un problema: Giuseppina è più furba di quanto tutti hanno creduto e non mette il naso fuori dalla sua casa dove, nel frattempo, è tornata. Ad occuparsi di portare a casa tutto il necessario per vivere è sua Madre Michelina.
Una mattina di metà settembre 1848, Michelina sta tornando da Magli, suo paese natale, percorrendo un sentiero più breve rispetto alla strada solita. È in compagnia di Rosaria Arnone e insieme si fermano alla fontana di Critaro, poi risaliranno verso il paese.
Quando cominciano ad arrampicarsi lungo il sentiero, arrivate alla Quercia di Proviero trovano una brutta sorpresa: qualche metro più in alto di loro c’è Pietro Branca in compagnia del fresco brigante Giovan Battista Baldino, di Saverio Trozzolo e di Alfonso Arnone.
Michelina si nasconde dietro l’altra donna e comincia a implorare i briganti di non ucciderla perché è innocente di tutto, ma quelli, per tutta risposta, le cantano in faccia una canzonaccia, una canzone di obbrobbrio come si soleva dire, poi Pietro Branca fa segno di smettere e, imbracciato il fucile prende la mira; Michelina piange e anche Rosaria Arnone piange temendo di essere ammazzata al posto dell’altra che è sempre nascosta dietro il suo corpo
– No, non mi ci sporco nemmeno le mani – dice Branca disarmando il fucile – ammazzala tu, Saverio! – ordina al suo sodale che è riconosciuto da tutti come un tiratore formidabile. Trozzolo non ci pensa due volte: imbraccia lo schioppo, prende la mira e, approfittando di un breve istante in cui Michelina sporge la testa oltre il corpo di Rosaria, tira il grilletto e la centra in mezzo agli occhi, ammazzandola sul colpo, mentre l’altra donna cade svenuta per la paura.
Tra complimenti e pacche sulle spalle, i quattro si allontanano verso la montagna, cominciando nuovamente a cantare canzoni d’obbrobbrio.[1] I conti sono saldati.

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Gran Corte Criminale.

 

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