Sono le 7,30 del 16 agosto 1925 quando Ernesto Marinelli, diciannovenne mulattiere di Martirano Vecchio, sta conducendo il suo mulo carico lungo il fiume Savuto. Attraversata la piana dove nei due giorni precedenti si è svolta come ogni anno la fiera di Santa Maria e percorse altre poche centinaia di metri, nota qualcosa di strano sul greto del fiume. Incuriosito dai colori insoliti di quelli che sembrano dei pezzi di stoffa, si avvicina e rimane inorridito dallo spettacolo che gli si presenta davanti agli occhi: il cadavere di un uomo con la testa sfondata in una pozza di sangue e fango. Ripresosi dai conati di vomito che gli hanno sconquassato le budella, il fatto di vedere che il cadavere ha i pantaloni abbassati e un pezzo di legno che gli esce dall’ano lo fa accasciare a terra nuovamente in preda alla nausea.
Cercando di non ripensare a ciò che ha appena visto, fa quello che deve fare: andare subito ad avvertire i Carabinieri di Martirano, il suo paese.
Il Maresciallo Cordopassi non perde tempo e avvisa telefonicamente il collega della stazione di Motta Santa Lucia, competente per territorio.
Difficile identificare il cadavere di cui non si riconoscono i tratti somatici per i colpi inferti forse da un bastone ma molto più probabilmente da una grossa pietra, bisognerà basarsi sui vestiti che ha indosso e sarà piuttosto difficile. Cordopassi e il suo collega Garozzo, comandante la stazione di Motta Santa Lucia, notano che la tasca sinistra dei calzoni è risvoltata all’esterno. Notano anche che sulla natica sinistra del cadavere, completamente ricoperta di sangue raggrumato, ci sono numerosi tagli.
– Ma perché tutto questo? Dubito che si sia trattato di una rapina – dice indicando la tasca risvoltata – che motivo ci sarebbe stato di accanirsi così? Bastava un colpo in testa…
– Sono d’accordo, deve essersi trattato di vendetta… tutti quei colpi in testa e quel palo… se almeno riuscissimo a capire chi è questo povero sventurato. Potrebbe trattarsi di un commerciante ambulante – conferma Garozzo indicando le pezze di stoffe colorate per terra a qualche metro dal cadavere. Poi, quando sta per aggiungere dell’altro, viene interrotto dal richiamo di un carabiniere:
– Signor Maresciallo! Signori Marescialli! Ho trovato qualcosa! – Garozzo e Cordopassi si affrettano a raggiungerlo e vedono per terra una grossa pietra di circa 3,5 chili intrisa di sangue. L’arma del delitto.
– Non toccatela! – urla Garozzo – la manderemo alla Polizia scientifica per fare analizzare le impronte digitali! (pratica introdotta da pochi anni ma ancora molto poco usata).
Quando arriva il Pretore di Scigliano, i militari provvedono a perquisire l’involto con le pezze di stoffa e dentro ci trovano un metro di legno, un bocchino e un berretto. Nelle tasche della giacca vengono trovati un pettine di legno e uno scatolo vuoto di trinciato comune diviso in due parti e sotto al cadavere una forbice. Tutti gli oggetti vengono sequestrati come materiali utili all’identificazione del cadavere. A tale scopo vengono estese le ricerche a tutti i paesi vicini, ma per quanti sforzi si facciano nell’immediatezza del fatto non si riesce a capire di chi possa trattarsi. Poi si fanno avanti due ragazzi di Pedivigliano che dicono di aver visto quell’uomo vendere stoffe durante la fiera del Savuto e c’è la conferma che deve trattarsi di un venditore ambulante. Un altro testimone giura che lo sconosciuto, un paio di anni prima, era al servizio di un certo Pietro lo Scialapopolo da Rogliano e da quella stazione dei Carabinieri arriva la conferma: il morto chiamavasi Coriale Antonio fu Giuseppe di anni 55 da Siderno Marina. Adesso tutto dovrebbe essere più facile. Dovrebbe, ma non è così. Tutte le persone che sono state viste in compagnia della vittima durante la fiera vengono identificate e interrogate ma non emerge nulla di particolare.
Dalle ferite refertate sul corpo della vittima, i periti sono in grado di ricostruire la dinamica dell’omicidio: Per la molteplicità di esse (ferite) si è dovuto avere una certa perdita di sangue, sufficiente ad affievolire le forze della vittima e farle perdere la resistenza alla lotta. L’ipotesi che la vittima, esausta di forze, sia caduta per terra e poi uccisa con il colpo di pietra direttamente assestato sulla regione fronto-parietale sinistra. Per quanto riguarda invece il pezzo di legno infisso nella regione anale, i periti sono categorici: è stata prodotta da corpo contundente a punta smussata, presumibilmente bastone o simili, di cui l’estremità vi si è spezzato dentro. Dai caratteri di essa giudichiamo che è stata inferta a corpo morto. Quindi c’è stata una violenta colluttazione tra Coriale e il suo (o i suoi) assassino il quale poi ha infierito brutalmente sul cadavere. Perché? Nessuno è in grado di ipotizzare un movente che possa giustificare tutto questo accanimento brutale.
Nascono dei sospetti che l’omicidio di Coriale possa essere messo in relazione con il duplice omicidio avvenuto lo stesso giorno vicino alla foce del fiume Savuto nel territorio di Nocera Terinese, ma i locali Carabinieri smentiscono tutto sostenendo di non poter aver correlazione con quello avvenuto in cotesta giurisdizione perché, stando agli atti del momento, quelli avvenuti qui non erano premeditati ma si svolsero alla momentanea decisione dei due fittuari pel modo come venne loro chiesto del vitto da parte degli uccisi. In ogni caso i due colpevoli sono stati già arrestati. Dubbi sorgono anche sulla posizione di tale Giardulo da Grimaldi visto in compagnia di Coriale – nel frattempo è emerso che il cognome esatto è Correale ed era soprannominato Napoli-Roma – dal Brigadiere Antonio Canale che era di servizio alla fiera. L’uomo viene identificato come Giardullo Giuseppe nato a Grimaldi il 17 aprile 1891 avrebbe avuto dei rancori verso la vittima perché qualche anno prima lo denunciò per avergli rubato della stoffa. Giardullo, pregiudicato, ozioso vagabondo, affiliato alla teppa di questo comune e di quelli limitrofi, viene interrogato e fornisce un alibi confermato da molti testimoni: è stato, sì, alla fiera e il 14 agosto ha parlato con Correale, che gli ha offerto un bicchierino anche alla presenza del Brigadiere ma poi, verso mezzogiorno del 15 agosto ha accettato l’invito del suo amico Pietro Nucci di accompagnarlo a casa sua a Martirano Vecchio, dove è rimasto a dormire. La mattina del 16, poi, verso le 7,00 è uscito di casa con il suo amico andando nella piazza del paese dove ha incontrato della gente con la quale ha parlato e bevuto per alcune ore. Giardullo non c’entra niente. Le indagini sono a un punto morto e ci resteranno per un altro paio di mesi quando, finalmente, arriva la soffiata giusta ai Carabinieri di Conflenti dove adesso presta servizio il Maresciallo Garozzo: il contadino Francesco Grandinetti, alias Vaiana, che abita a circa 500 metri dal luogo del delitto, sa qualcosa sull’identità dell’assassino o degli assassini:
– La mattina presto del 15 agosto scorso si presentò a casa mia un certo Della Fede Matteo di Motta Santa Lucia. Aveva tutti gli abiti sporchi di sangue e sia io che i miei bambini avemmo paura. Poco prima al Savuto ho ucciso un uomo, vieni che te lo faccio vedere mi disse tirandomi per un braccio. Io mi ritrassi per non sporcarmi dato che dalle sue mani il sangue ancora stava colando e gli dissi di andarsene e lui rispose: Domattina allora quando andrai a beverare la mandria vedi che colà, vicino le troppe di fronte alla proprietà di Staglianò, troverai l’uomo che ho ucciso. Bada però di nulla dire altrimenti ti faccio fare la stessa fine di quell’uomo che ho ucciso. In mano aveva un grosso portafogli ma dentro ho visto che c’erano solo delle carte e nessun biglietto di banca e gli ho chiesto di chi fosse ma lui mi ha detto: Fatti gli affari tuoi e ha messo il portafogli in tasca. Ho notato che anche le scarpe erano zuppe di sangue e dalle mani gli pendava ancora il sangue dell’uomo ucciso. Io non gli ho chiesto perché avesse ucciso quell’uomo né tantomeno me lo disse lui. Quello che ha detto ancora è che nel caso si fosse scoperto l’autore, potevano condannarlo a non più di 20 anni così verrebbe a uscire all’età di 40 anni. Il giorno dopo si è presentato a mia moglie e le disse con aria minacciosa: Solo la vostra famiglia sa chi uccise l’uomo al Savuto…
– Anche a me ha detto una cosa! – interviene la piccola Saveria, figlia di Grandinetti.
– Cosa ti ha detto?
– Ha tirato fuori dal portafogli una foglia secca e me l’ha data dicendo: Piglia, piglia, questa è una carta da 10 lire! È cioto!
Quindi, stando alla dichiarazione di Grandinetti, l’omicidio non sarebbe stato commesso nella notte tra il 15 e il 16 agosto, ma nel pomeriggio del 15. Possibile che nessuno abbia visto il cadavere tornando dalla fiera? Si, possibile perché per vederlo sarebbe stato necessario camminare lungo la sponda del fiume e non sul sentiero battuto.
È la sera del 5 ottobre 1925 quando il Maresciallo Garozzo e i suoi uomini arrestano Matteo Della Fede. Ma non lo arrestano per l’omicidio del povero Correale per il quale non è ancora arrivato il mandato di cattura. Lo arrestano per omessa denuncia di una pistola perché ha, appesa alla cintura dei pantaloni, una fondina per arma corta di cui non c’è traccia nemmeno in casa dell’arrestato. La rivoltella, inservibile, viene ritrovata a casa di un suo amico.
Quando, finalmente, possono contestargli l’omicidio Matteo Della Fede si dichiara innocente:
– Nei giorni 14 e 15 agosto scorsi sono stato alla fiera di Santa Maria al Savuto e tornai in contrada Cotura dove abito e che dista una mezzoretta di cammino dalla fiera verso le 11,00 del giorno 15. ho pranzato con i miei genitori adottivi e non mi mossi da lì nemmeno nel giorno seguente, essendo rimasto sempre a lavorare. Mai ho conosciuto Correale Antonio, neanche sotto l’agnome Napoli-Roma. Nei giorni 14 e 15 agosto non vidi nella fiera un merciaio ambulante che portando delle stoffe addosso le andava vendendo per la fiera gridando Napoli-Roma. Non l’ho ammazzato io perché nemmeno lo conoscevo e se Francesco Grandinetti dice che gli ho confessato l’omicidio, mente perché con lui non sono in buoni rapporti dal momento che, avendo chiesto la mano di una sua figlia, poi l’ho abbandonata.
I genitori adottivi lo smentiscono dichiarando che ritornò a casa con gli abiti insanguinati e la madre provvide a lavargli la giacca. I due, per questo rischiano l’arresto che, però, non viene autorizzato.
Matteo insiste nel dichiararsi innocente anche in un secondo interrogatorio effettuato la mattina del 10 ottobre, poi nel pomeriggio chiama una guardia carceraria e chiede di essere nuovamente ascoltato perché ha delle rivelazioni da fare. Carlo Milano, Pretore di Scigliano, si precipita nel carcere per ascoltarlo:
– Signor Pretore, io effettivamente ho commesso l’omicidio di Correale Antonio e l’ho fatto senza coscienza perché ubriaco. Nelle ore pomeridiane del giorno 15 agosto, io ritornavo insieme col Correale dalla fiera di Santa Maria e percorrevamo la riva del Savuto. Arrivati nella contrada Staglianò, io richiesi in vendita al Correale un metro di stoffa che egli portava addosso. Ci combinammo nel prezzo in lire 5:00 e pigliai dal portafogli un biglietto da lire 10:00 per il pagamento. Il Correale intascò il biglietto ed io aspettavo che mi avesse restituito lire 5:00 e poiché egli ritardava, lo eccitai a darmi il resto. Il Correale insistette che io gli avevo dato un biglietto da 5 e non da 10 e quindi non doveva darmi resto. Da ciò nacque una zuffa tra di noi ed il Correale mi tirò un pugno nella tempia sinistra. Io reagii ed egli allora estrasse un coltello per ferirmi; fui sollecito a levargli dalle mani un bastone, che il Correale stesso portava, e con quello lo colpii alla mano, facendogli cadere il coltello. Lo pigliai da terra e incominciai a menar dei colpi e per non ucciderlo tiravo nella regione anale. Nella colluttazione gli si erano abbassati i calzoni. Il Correale si difendeva tirando dei calci e dei pugni, poi cademmo insieme. Io di sotto ed il Correale di sopra e fece per strangolarmi. Ma mi feci forte e riuscii a svincolarmi e ad alzarmi e col bastone che avevo a portata di mano, colpii più volte il Correale alla testa fino a che non si mosse più. Dopo ciò, spaventato, fuggii e pigliai la via per ritornare al mio fondo Cotura. Improvvisamente dietro alcuni alberi, nel fondo Staglianò, trovai Grandinetti Francesco ed i figli che pascolavano gli animali. Io, eccitato dal vino che avevo bevuto in quantità, dalla lotta sostenuta, e domandato dal Grandinetti che mi aveva veduto intriso di sangue, raccontai quanto era avvenuto. Quando sono arrivato a casa ho raccontato tutto ai miei genitori adottivi i quali volevano che mi costituissi, ma ebbi timore e non lo feci, pentendomi di quanto avevo commesso e non è vero che mi hanno lavato la giacca.
– Mancano due particolari al tuo racconto – osserva il Pretore – manca che hai colpito Correale con un grosso sasso, manca che poi gli hai conficcato un bastone nell’ano e gli hai rubato il portafogli…
– Io l’ho colpito solo col bastone e non mi ricordo di avergli conficcato un bastone nel culo e di avergli preso il portafogli… ricordo però di avermi trattenuto il coltello che era a punta aguzza che dopo commesso il fatto lo buttai
via, non ricordo dove.
Buona parte del racconto è credibile, ma gli inquirenti insistono con altri interrogatori per far confessare a Matteo l’uso del sasso per sfondare il cranio della vittima, il vilipendio del cadavere mediante sfondamento della zona anale, il furto del portafogli e se ha avuto dei complici, ma per quanto sforzi facciano non ci riescono.
Matteo Della Fede racconta ai suoi compagni di cella che il Giudice vuole sapere se ha avuto dei complici:
– Se hai avuto dei complici ti conviene parlare perché ti scarichi qualche responsabilità – gli consigliano i compagni più anziani ed esperti di lui.
– Così è la cosa?
– Ci puoi giurare.
Il 7 novembre 1925 Matteo si siede di nuovo davanti al Pretore di Scigliano e racconta una nuova versione dei fatti:
– Verso le 10,00 del 15 agosto incontrai alla fiera un tale Mazza Antonio e il figlio Rosalbino di Martirano che io avevo conosciuto qualche tempo prima. Essi mi chiamarono da parte e mi condussero in una baracca e comprarono del vino che bevemmo insieme. Usciti dalla baracca, i Mazza mi fecero notare un individuo anziano di età che io non conoscevo, il quale andava vendendo stoffe per la fiera. Mi dissero che costui certamente doveva avere molto denaro addosso e mi proposero di rubarglielo. Io, quantunque eccitato dal vino che forse appositamente i Mazza mi avevano fatto bere, mi rifiutai a tale proposta, ma essi insistettero ed inconsciamente, dopo, vi aderii, accordandoci di stare attenti quando il merciaio se ne fosse andato. Sulla riva del Savuto lo aggredimmo: i due Mazza erano armati di grossi bastoni, io di un altro bastone ma piccolo di ontano. Il Mazza Antonio si fece immediatamente dietro il Correale e gli tirò alla testa un forte colpo di bastone, io gliene diedi un altro nella schiena e poiché la vittima emise un grido, il Mazza Antonio gli tirò un secondo colpo alla testa, mentre che il suo figlio Rosalbino gli infilò il suo bastone fra le gambe per farlo cadere. Il Correale infatti andò a terra e dalla tasca gli cadde un coltello a punta ed il Mazza Antonio mi disse: “Piglia, piglia il coltello e feriscilo perché altrimenti grida e ci compromettiamo!” Io presi da terra il coltello e con quello ferii più volte nelle natiche e nelle coscie l’individuo, mentre il Mazza Rosalbino con una grossa pietra gli schiacciava la testa ed infine gli infilò un pezzo di bastone nell’orifizio anale. Appena morto il Correale, il Mazza Antonio frugò nelle tasche di lui ed estrasse un grosso portafogli, l’aprì ma rimase amaramente sorpreso e deluso di non avervi trovato nemmeno una lira ma solo delle carte inservibili colorate, delle foglie secche di olivo e di quercia. Il Mazza mi consegnò il portafogli dicendo di tenermelo e mi ingiunse con minacce di non parlare mai del fatto, che se per ipotesi fossi stato scovato, io solo avrei dovuto accollarmi il peso dell’omicidio commesso ed egli mi avrebbe aiutato in tutti i modi, spendendo anche fino a 10mila lire per la causa. Dopo tutto ciò i due Mazza si allontanarono in fretta per la boscaglia…
Tutto perfetto, tranne che a Martirano non esistono, né mai sono esistiti Mazza Antonio e Mazza Rosalbino e di questo il Pretore gliene rende conto. Della Fede fornisce indicazioni utili al riconoscimento dei due complici e questi sono identificati per Marsico Antonio e suo figlio Rosalbino, i quali vengono immediatamente arrestati ma si protestano innocenti. Forniscono un alibi, che dopo i necessari riscontri regge ed è evidente che Matteo li ha tirati in ballo ingiustamente.
Nel frattempo Matteo si pente di quello che ha fatto e nel carcere di Scigliano si mette a urlare per chiedere scusa ai due: Perdonatemi, perdonatemi perché io vi ho infamati ingiustamente! – Poi ritratta davanti al giudice.
– I compagni di cella mi hanno suggerito di fare i nomi dei complici per diminuire le mie responsabilità nel fatto e io ho pensato di fare i nomi di quei due e li accusai perché così è la stella mia e lo feci senza coscienza. L’unico responsabile dell’omicidio sono io!
Sarà la volta buona? Forse. Intanto i due Marsico ottengono la libertà provvisoria, anche se rimangono indagati in attesa del pronunciamento della Sezione d’Accusa, che dovrà decidere sulla loro uscita o meno dal processo e sul rinvio a giudizio di Matteo Della Fede con l’accusa di omicidio volontario commesso in correità fra di loro a scopo di furto, con gravi sevizie. Pochi giorni prima dell’udienza, Della Fede cambia difensore scegliendo uno dei migliori del foro di Cosenza: Tommaso Corigliano, al quale basta una chiacchierata con l’assistito per rendersi conto che qualcosa non va e formula subito una richiesta ai giudici della Sezione d’Accusa:
Assunta, giorni fa, la difesa del giovine DELLA FEDE MATTEO d’ignoti, mi sono trovato di fronte ad un tipico esemplare del più evidente idiotismo. Le deficienti e desolanti condizioni psichiche del Della Fede sono tali che mi è stato impossibile ottenere dallo stesso una qualsiasi, pur elementare e succinta spiegazione dei motivi e delle modalità del delitto che gli si attribuisce.
Solo la circostanza che la istruttoria processuale sia stata affidata ad un vice Pretore onorario spiega come un così evidente stato morboso sia stato tenuto nell’ombra fin’ora.
Onde reputo mio primo ed imprescindibile dovere defensionale quello di additare una tale circostanza alla Ecc:ma Sezione di Accusa, invocando una perizia psichiatrica che non potrà non confermare autorevolmente quanto ho avuto l’onore di esporre.
Sì, Tommaso Corigliano è molto esperto e sa distinguere le persone, le loro capacità e i codici, ma non si sarebbe dovuto arrivare a questo punto: imbastire un processo per omicidio senza avere la certezza su come si sono svolti i fatti e, soprattutto, senza che ne sia stato chiarito il movente perché Della Fede, reo confesso, non ha mai detto una sola parola sui motivi che lo hanno spinto a uccidere con quelle barbare modalità il povero venditore ambulante. Ma i giudici della Sezione d’Accusa non sono d’accordo con Tommaso Corigliano: La istanza per la perizia allo stato degli atti si ravvisa ingiustificata ed inattendibile. Insomma il difensore sta provando a salvare l’assistito da una dura condanna. Anzi, individuano anche il movente che lo stesso Della Fede ha confessato dichiarando che la causale del delitto doveva attribuirsi ad un alterco sorto tra lui ed il Correale, col quale si era accompagnato dopo la fiera in contrada Savuto. Ma basta un alterco per giustificare le orrende modalità del delitto? I Giudici chiariscono anche le modalità dell’omicidio: dopo aver ferito di coltello l’avversario, lo ferì a colpi di bastone alla testa. E la pietra di 3,5 chilogrammi che i periti hanno accertato essere l’arma del delitto? I Giudici non la nominano nemmeno, negano che l’omicidio abbia avuto come movente il furto e negano anche le gravi sevizie: non risulta che l’omicidio sia stato commesso con gravi sevizie in modo da far soffrire a lungo la vittima, giacchè ammesso genericamente che il cuneo nell’ano fu conficcato dopo la morte. Riconosciuta l’estraneità dei due Marsico dichiarando il non luogo a procedere, rinviano a giudizio l’unico imputato rimasto, eliminate le qualifiche, per omicidio volontario. Hai visto mai che il calcolo di un massimo di venti anni di reclusione fatto da Matteo quando parlò col testimone Francesco Grandinetti si riveli esatto?
Il 7 dicembre 1926 si apre il dibattimento presso la Corte di Assise di Cosenza e Tommaso Corigliano è più deciso che mai a sostenere la necessità di sottoporre il suo assistito a perizia psichiatrica e in questo è sostenuto dalle testimonianze di molti compaesani dell’imputato che lo definiscono stupido, non giusto di mente, stravagante, era lo zimbello di tutti i ragazzi, cretinello e, soprattutto, da un certificato medico del dottor Luigi Sacchi, il quale attesta di aver curato, anni prima, Matteo Della Fede per una assai grave forma di tifo con complicanze alle meningi e che ebbe a soffrire nella convalescenza alterazioni di mente.
In base a questi fatti nuovi, Corigliano presenta alla Corte una nuova istanza di perizia psichiatrica che viene, questa volta, accolta e per Matteo Della Fede si spalancano le porte del manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, anticamera dell’inferno.
Il professor Paolo Magaudda e il dottor Pietro Amodeo sono incaricati della perizia.
Difficilmente si riesce a farlo parlare specie sul delitto commesso; dice di non sapere niente, di non essere stato lui a commetterlo, di non ricordarsi nulla. Tale assurda amnesia generalizzata su tutti i particolari del delitto è stata da lui assunta come piano di difesa. Tale piano oltre ad essere puerile è anche sciocco.
La critica nel periziando fa molto difetto: è superficialissima, l’ideazione è scarsa di contenuto ed a contenuto puerile. Si interessa molto poco del suo stato giuridico e trascorre intere giornate in ozio; spesso ride fuori luogo con espressione mimica da ebete, sciocca, vuota, risata propria dei frenastenici.
Avendolo spesso rimproverato e minacciato di mandarlo per sempre in carcere, ha risposto subito: “no, lasciatemi qui, anche per sempre”. Così dicendo mostra di apprezzare abbastanza la differenza fra il carcere e il manicomio e preferisce il manicomio dove trova molti vantaggi a cui forse non era abituato; non mostra quindi il rimpianto per la libertà perduta.
Non ha dimostrato speciali istinti o pervertimenti di natura sessuale: dice di non aver conosciuto ancora i rapporti sessuali con l’altro sesso.
I periti sembrano quasi sconfortati e delusi quando affermano: avremmo voluto trarre elementi per uno studio completo della personalità psichica del periziando in rapporto al delitto; avremmo voluto trarre gli elementi per spiegare il delitto stesso nel suo dinamismo: né l’uno, né l’altro compito abbiamo potuto assolvere. La povertà intellettuale del Della Fede, se in una parola ci dà elementi fondamentali per la diagnosi clinica della malattia mentale di cui è affetto il periziando, non ci dà elementi per spiegare il movente del reato.
Il Della Fede ha ucciso il povero merciaio ambulante Correale, ma perché lo ha ucciso? Per quale motivo e motivo patologico? E diciamo patologico perché, come dimostreremo, il Della Fede è affetto da malattia mentale congenita.
Tommaso Corigliano aveva visto giusto, il suo assistito è malato.
Il periziando presenta la sindrome della simulazione patologica, ma così complessa, così svariata che non tanto comunemente si riscontra in pratica. Diremmo quasi che più di simulazione di amnesia, il suo atteggiamento sia di simulazione di deficienza mentale. Il Della Fede frenastenico ostenta la simulazione della frenastesia. Egli esagera le tinte nel modo più sciocco, più infantile, da discendere nella scala delle frenastesie e, apparentemente, dal gradino dell’imbecille dove lo pongono e il nostro esame e le deposizioni di parecchi testimoni, al gradino più basso dell’idiozia.
Ma il Della Fede imbecille resta sempre imbecille come lo è stato nella sua vita anteatta al reato ed immediatamente dopo il reato.
Insomma, secondo i periti, il tifo di cui si è ammalato da ragazzo gli ha lasciato i segni evidenti di una FRENASTENIA CEREBROSTATICA a tipo IMBECILLE con grado elevato di deficienza intellettuale.
Il reato commesso dal Della Fede non rappresenta altro che un sintomo della malattia.
La malattia è costituzionale, inguaribile. Lasciato a piè libero potrebbe riuscire pericoloso ancora a se ed agli altri: il di lui internamento definitivo in un manicomio è la sola misura da adottarsi.
Messina, 16 luglio 1927
L’inferno è pronto, si accomodi.
Passano ancora più di due anni prima che la Corte d’Assise di Cosenza prenda atto della situazione. Il 31 ottobre 1929 la Corte decreta:
che venga il Della Fede assoluto dall’imputazione di omicidio volontario e ricoverato in un manicomio.[1]
Amen.
[1] ASCS, Processi Penali.
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