IL CULO DI COMARE ROSA

Rosa Siciliano ha 31 anni e vive da sola nella sua casa colonica in contrada Casilio di Rose. Vive da sola perché il marito, Oronzo Cava, è emigrato ormai da qualche anno in America.
La mattina del 7 maggio 1919 Rosa sta cospargendo di sale alcune forme di formaggio pecorino, conservate in una cassa, per non farlo più  fermentare. Rosa è curva sulla cassa dando le terga alla porta di ingresso quando entra compare Giuseppe Smeriglio, sessantacinquenne del posto. Giuseppe, che non può lavorare ormai da un po’ di anni perché affetto da una malattia alla vescica e alla schiena tanto che orinava stentatamente soffrendo molto, ha l’abitudine di andare in giro per il vicinato a fare visita agli amici e in casa di Rosa ci va spesso per tenerle compagnia e leggerle le lettere che Oronzo manda da oltre oceano.
Allegramente comare che ora se ne viene compare Oronzio dall’America! – la saluta
Si? – gli risponde quasi incredula a quella bella notizia, continuando a stare piegata sulla cassa con le terga alla porta
Giuseppe, senza aggiungere altro, si inoltra nella stanza fino a una nicchia nel muro dove, poggiati su una rudimentale mensola, Rosa tiene gli orciuoli con l’acqua fresca, ne afferra uno e con la manovra solita di infilare un dito nell’ansa dell’orciuolo, se lo fa girare sulla spalla e, piegando la testa di lato verso l’apertura del contenitore, ne beve qualche abbondante sorsata
– Ah! – esclama soddisfatto passandosi il dorso della mano sulle labbra per asciugarle, mentre Rosa non dà segni di interessarsi a quello che fa il compare, continuando nella salatura del formaggio.
Compare Giuseppe fa un largo giro attraverso la stanza e passa accanto a Rosa, che è sempre piegata con le gambe leggermente divaricate, le guarda il culo e poi, poi perde la testa. Tocca il culo di Rosa e poi le fa scivolare la mano in mezzo alle gambe sussurrando
Ora che viene compare Oronzio lo trova morbido
Tieni a posto le mani! Chi sei tu che ti vuoi sostituire a mio marito per dire se è duro o morbido?  – risponde in tono fermo, mentre cerca di rialzarsi e togliere la mano del compare dalle sue gambe. Giuseppe le mani non le tiene a posto, anzi mentre Rosa cerca di divincolarsi le afferra i seni, glieli stringe e la tira verso di sé.
Rosa a questo punto è furibonda. Aspetta da anni il marito casta e pura e adesso quel vecchio vorrebbe averla. No! Sono solo pochi secondi, Rosa si guarda in giro per trovare qualcosa da tirare a compare Giuseppe per farlo smettere. Sul tavolino accanto alla cassa col formaggio, a meno di mezzo metro dalle sue mani, c’è un’ascia. L’afferra e con uno strattone riesce a liberarsi dalla stretta di compare Giuseppe. Saltano un paio di bottoni della camicetta e il grembiule a cui si è aggrappato l’uomo si scioglie cadendo a terra.
Rosa è davanti al suo aggressore e ha gli occhi iniettati di sangue per la rabbia. Alza l’ascia sopra la testa con tutte e due le mani e poi la abbatte su compare Giuseppe, colpendolo alla testa con violenza
Ti ci ha mandato il cazzo questa mane in casa mia? Mò fricati!
Compare Giuseppe, gli occhi sbarrati, barcolla indietreggiando mentre Rosa solleva di nuovo l’ascia e lo colpisce di nuovo sfondandogli il cranio. Adesso è a terra, dalle due ferite il sangue zampilla misto a materia cerebrale, ma ancora respira. Rosa butta l’ascia e guarda inorridita. Vorrebbe scappare ma la porta non si apre a sufficienza per l’impedimento del corpo di compare Giuseppe. Apre una finestra e salta fuori urlando al soccorso mentre si abbandona a un pianto dirotto.
Giuseppe Pangaro sta zappando a una cinquantina di metri dalla casetta colonica e accorre subito. Rosa gli racconta con frasi smozzicate l’accaduto mentre accorrono altri contadini che hanno sentito le grida. Stanno tutti in silenzio, attoniti
– Vai a chiamare i Carabinieri – gli dice Rosa che non vuole più stare in quel posto e si allontana un po’.
Il Vicebrigadiere Conte, comandante della stazione di Rose, si avvia verso contrada Casilio accompagnato dal dottor Paolo Talarico a passo svelto, pare che Giuseppe Smeriglio, così gli ha detto il contadino, sia ancora vivo e la presenza del medico è urgentissima.
Il respiro del ferito è irregolare, il medico prova a fargli delle domande ma non ottiene risposta
– Appena sono arrivata non parlava ma mi guardava fisso, gli ho preso la mano e me l’ha stretta, mentre con l’altra si toccava la pancia… forse gli faceva male – dice al medico Rosaria Pirri, la moglie di compare Giuseppe Talarico, stando attento a non mettere i piedi nella vasta pozza di sangue che circonda il ferito, gli sbottona il panciotto, la camicia, i pantaloni e trova sull’addome un segno che potrebbe far pensare a un’ecchimosi. Poi si accorge che compare Giuseppe ha perso la facoltà di trattenere i bisogni corporali ed è evidente che bisogna concentrarsi sulle ferite al capo che sicuramente hanno determinato quella situazione. Dalla sommaria osservazione annota sul suo blocco di appunti che l’individuo è agonizzante con respiro stentoroso «alla cheynestoches» [Il termine esatto è Cheyne-Stokes, dai nomi dei medici John Cheyne e William Stokes che nel XIX secolo classificarono questa tipologia di respirazione patologica nella quale si alternano fasi di apnea anche lunga (si arriva anche a 20 secondi) a fasi in cui si passa gradatamente da una respirazione profonda ad una sempre più superficiale (cicli respiratori brevi e frequenti) che termina nuovamente nella fase di apnea. (da Wikipedia,  Respiro di Cheyne-Stokes)], senza polso, con pupille midriatiche e con emissione involontaria di urina e feci. 1) Riscontro una vasta ferita da arma da taglio della lunghezza di circa cinque centimetri e profonda fino alla massa cerebrale, in corrispondenza della regione parieto-occipitale sinistra, dalla quale fuoriesce sostanza cerebrale e notevole quantità di sangue artero-venoso. Si riscontra frattura comminuta della parte posteriore dell’osso parietale sinistro e dell’osso occipitale. Mediante manovre digitali si passa attraverso l’osso parietale sinistro e si entra in cavità cranica. 2) Sulla regione del sopracciglio sinistro, e propriamente in corrispondenza del punto d’unione della regione sopracciliare con quella molare, riscontro una ferita d’arma da taglio della lunghezza di circa tre centimetri e profonda fino alla fossa cranica anteriore. Anche qui riscontro frattura comminuta dell’osso che permette al dito esploratore di penetrare in cavità cranica.
L’entità delle ferite è tale che non c’è altro da fare se non aspettare che il ferito cessi di vivere. Alle ore 12:40 constato la morte, la quale è stata preceduta da un periodo preagonico di circa due ore, durante le quali lo Smeriglio Giuseppe è rimasto sempre per terra, senza coscienza ed impossibilitato a compiere qualsiasi movimento.
Rosa viene portata prima in Caserma e poi nel carcere mandamentale a disposizione dell’Autorità Giudiziaria. Quando il Pretore la interroga, al racconto dei fatti già reso al Vicebrigadiere Conte, aggiunge altri particolari che, dice, nella concitazione dei primi istanti aveva dimenticato
– Lo Smeriglio, che diceva di essere compare con mio marito e che apparentemente mi stimava come tale, era uomo assai corrivo alle donne. Era anche facile a calunniare tanto che l’anno scorso ordì una calunnia anche in mio danno propalando in paese che certo Raffaele Covello una notte aveva pernottato in casa mia. Io redarguii aspramente lo Smeriglio e dopo l’incidente i nostri rapporti restarono di amicizia. Forse le sue intenzioni avrei potuto intuirle quando una quindicina di giorni fa venne a trovarmi, io ero seduta al fuoco, e nel passarmi accanto per andare a sedersi mi sfiorò un piede col suo piede, ma non diedi importanza alla cosa pensando a un equivoco… invece… – dice interrompendosi per asciugarsi le lacrime – io non avevo intenzione di ucciderlo… credetemi!
Tutti i paesani giurano sull’onestà di Rosa ma non tutti giurano sull’onestà di compare Giuseppe e confermano la descrizione che ne ha fatto Rosa: donnaiolo e facile alla calunnia.
Le indagini sono veloci e già i primi di ottobre 1919 il fascicolo è trasmesso alla Sezione d’Accusa con la richiesta di rinvio a giudizio per omicidio volontario, richiesta che viene immediatamente accolta e il dibattimento fissato per il 10 luglio 1920. dopo tre giorni di udienza il Presidente della Corte d’Assise, sentiti i pareri del Pubblico Ministero che dichiara di sostenere la tesi dell’omicidio volontario col beneficio della provocazione e della difesa che sostiene la tesi della legittima difesa, decide autonomamente di sottoporre ai giurati la tesi dell’eccesso di legittima difesa.
Rosa è sulla buona strada per una condanna mite.
Ma non c’è condanna: Rosa viene assolta in quanto ha commesso il fatto per esservi stata costretta dalla necessità di respingere da sé una violenza attuale ed ingiusta.[1]
Sicuramente qualcuno sarà curioso di sapere cosa ne pensò di tutta questa faccenda il marito di Rosa. Non lo sapremo mai.
Che Oronzo stesse per tornare dall’America forse era una scusa inventata da compare Giuseppe per saggiare la consistenza delle carni di Rosa, fatto sta che in nessun atto processuale è segnalata la sua presenza in paese durante quei quattordici mesi…

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

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