CINQUECENTO LIRE DI ONORE

Giovanna Runco è una venticinquenne contadina di Lago la quale, dopo la morte dei genitori, si è trasferita in contrada Montenoce di Aiello con la sorella Antonia, per stare vicine all’altra sorella Rosaria, maritata con Gaetano Barone, contadino del posto. Nel mese di aprile del 1917 Giovanna si ammala e non può andare a lavorare. Durante il giorno è costretta a stare da sola in casa e di tanto in tanto qualche vicino le va a far visita per sapere se ha bisogno di qualcosa.
Una mattina va a trovarla Francesco Barone, settantenne suocero di sua sorella Rosaria. Di lui a Montenoce non si dice un gran bene: sfruttatore di donne, temuto e malvisto.
La porta di casa è sempre aperta e Francesco entra come tutti gli altri. Giovanna ha la febbre alta ed è debolissima. Per l’uomo, seppure anziano, è un gioco da ragazzi toglierle le coperte di dosso, sollevarle la camicia e violentarla.
– Statti zitta e non fare mai il mio nome – le dice mentre si accomoda i calzoni. Poi se ne va e la lascia lì.
Giovanna sta zitta, ma quando si rende conto di non avere più le sue cose e che è inequivocabilmente incinta, ferma per strada Barone e glielo dice.
– Quando ti sgravi ti regalo cinquecento lire, ma non devi fare il mio nome per nessuna ragione – le risponde.
– Dammeli adesso i soldi.
– Non se ne parla nemmeno! Quando sarà il momento…
Nei mesi successivi Giovanna gli chiede i soldi più volte, ottenendo sempre la stessa risposta. Ma quando non può più nascondere la gravidanza deve raccontare tutto alle sorelle, le quali, a loro volta, raccontano tutto ai parenti più prossimi e la voce a Montenoce e zone vicine si diffonde incontrollata, tanto che viene anche alle orecchie della moglie di Barone, la quale gli chiede conto della faccenda.
– Ma quando mai! Quella ha propalato questa fesseria per ricattarmi.
Gli chiede conto anche sua figlia Filippina e lui, oltre a ripetere la stessa risposta che ha dato alla moglie, aggiunge dell’altro per rafforzare la teoria del ricatto:
– Una mattina che ero da solo in casa sono venute Giovanna, tua cognata Rosina, la loro zia Paolina e sua figlia le quali, armate di forche e bastoni di legno, mi volevano ammazzare e mi hanno pure messo un forcone sotto la gola… quella Giovanna si è messa in testa che le devo dare cinquecento lire e non mi lascia in pace! Mi ha fatto minacciare di morte anche da suo cugino Giuseppe Cino… lo ha fatto due volte con la scure e un’altra volta con il fucile e adesso per paura che mi possano fare qualche cosa esco sempre armato!
I mesi passano e Giovanna è ormai prossima allo sgravio ma soldi ancora non ne ha visti e teme che non li vedrà mai.
La mattina del 28 dicembre 1917 il sole è tiepido; Giovanna e sua sorella Antonia vanno a raccogliere olive nella proprietà del signor Giulio Giannuzzi in contrada Seminati di Aiello. Quella stessa mattina la moglie e la figlia di Francesco Barone vanno a lavorare in contrada Campagna e lo lasciano in casa con l’intesa che le raggiungerà più tardi, dopo che avrà terminato dei lavori nell’orto di casa.
Ci vogliono quasi tre quarti d’ora di cammino per arrivare a Campagna e bisogna passare a pochi metri dal fondo dove lavorano le sorelle Runco. Francesco sistema la sua accetta alla cintola, mette la rivoltella carica in tasca, il fucile anch’esso carico in spalla e si avvia.
Quando passa per la stradina che corre sotto la proprietà di Giannuzzi, Giovanna lo vede e lo chiama, ricordandogli con grida altissime la promessa. Francesco si ferma e risponde per le rime mentre la ragazza gli si avvicina, seguita dalla sorella.
– Mi devi dare le cinquecento lire perché sto per sgravare – gli dice in tono fermo.
L’anziano è infastidito dall’ennesima richiesta e si pianta in mezzo alla stradina a gambe larghe con i pugni sui fianchi:
Puttana! Perché non hai detto essere stato altri l’autore della gravidanza e hai invece fatto il mio nome? Vattene e se non stai zitta ora ti sparo – il tono è più che minaccioso.
– Non posso dire che è stato un altro se sei stato tu! Dammi qualche cosa adesso…
– T’ammazzo! – le urla Barone cavando di tasca la rivoltella e puntandogliela contro, pronto a fare fuoco e infatti l’indice della mano destra si contrae sul grilletto proprio mentre Antonia, l’altra sorella, accortasi che l’uomo fa sul serio gli si lancia addosso e, contemporaneamente alla detonazione, urla:
Non sparare perché ammazzi anche la creatura che mia sorella ha in corpo!
La sua prontezza di spirito fa andare a vuoto la revolverata. Poi i due si avvinghiano in una lotta che può essere mortale per uno dei due, ma se Barone è armato, Antonia ha dalla sua la forza della giovinezza e della disperazione. I due cadono a terra e rotolano lungo il pendio fino a precipitare da un terrapieno alto quasi due metri. Antonia riesce a strappare la rivoltella dalle mani dell’avversario, ma questi con una mossa repentina gliela riprende e le spara addosso mancandola. La rivoltella passa più volte di mano finché Barone la riconquista e la picchia sulla fronte della ragazza che rimane stordita. L’uomo, ansimando, cerca di rialzarsi per fare fuoco di nuovo, ma deve ripararsi da un fitto lancio di sassi da parte di Giovanna, senza tuttavia essere colpito. Antonia, in quei pochi secondi, riprende il controllo di sé e riesce, questa volta definitivamente, a disarmare l’uomo della rivoltella e quindi del fucile che Barone adesso le sta puntando contro, buttandoli lontano.
Intanto Giovanna riprende il lancio di pietre e questa volta è più fortunata: un sasso colpisce Barone in fronte e lo fa stramazzare al suolo. La rabbia ha preso il sopravvento e Giovanna si scaglia sul vecchio ormai inerme e lo tempesta di sassate sulla testa, tanto da ridurlo in fin di vita.
Con gli occhi iniettati di sangue, la ragazza fruga nelle tasche dell’uomo finché non trova il portafogli, appropriandosi di quanto c’è dentro
– Non mi hai voluto dare quello che mi avevi promesso e me lo prendo da sola!
Antonia, sanguinante, raccoglie le armi del vecchio e fa segno alla sorella di seguirla.
– Andiamo dai Carabinieri…
Accorrono dei vicini che hanno sentito le revolverate e trovano l’anziano morente, cercano di soccorrerlo mentre arrivano sul posto i familiari, ma non c’è più niente da fare, Francesco Barone esala il suo ultimo respiro.
A primo acchito le cose sembrano essere chiare, è legittima difesa o, al massimo, eccesso di legittima difesa, ma a complicare le cose ci pensano la moglie e il figlio della vittima i quali giurano che il loro congiunto doveva avere dei soldi nel portafogli che non ha più indosso. Giovanna e Antonia negano recisamente, ma i Carabinieri le perquisiscono e trovano in una tasca di Giovanna 222 lire e 70 centesimi.
– Li hai presi al morto, confessa – la incalza il Maresciallo Salvatore Falconieri, comandante della stazione di Aiello Calabro.
– Non è vero! Quelli sono soldi miei – insiste indicando i due biglietti da 100 lire e gli spiccioli metallici – ho venduto un maiale pochi giorni fa e quello che avevo in tasca è il ricavato.
Suo cognato, nonché figlio della vittima, la smentisce categoricamente:
– È vero che lei e sua sorella hanno venduto un maiale il giorno di Natale, ricavando 245 lire. Lo so perché sono stato io a dividere i soldi tra Giovanna e Antonia e Giovanna ha, con la sua parte, pagato dei debiti e poi mi ha consegnato le 65 lire residue perché gliele tenessi. Siccome non aveva altri soldi, è chiaro che anche le 222 lire e 70 centesimi appartenevano a mio padre.
Giovanna a questo punto deve ammettere che ha preso dei soldi, ma dice di aver preso i due biglietti da cento e non il resto che sono soldi suoi.
Questo fatto potrebbe cambiare l’esito del processo perché per la morale comune si può uccidere e farla franca, ma se si tocca la proprietà altrui sono guai seri.
Nel frattempo l’autopsia stabilisce che causa della morte non sono state le sedici ferite riscontrate sulla testa di Francesco Barone, ma la frattura della base cranica dovuta ai violenti scossoni sopportati dalla testa mentre veniva colpita dalle sassate.
Una violenza inaudita.
Ma Giovanna e Antonia trovano conforto nelle dichiarazione dei coniugi Annunziato Bruno e Giustina Bruno e delle loro figlie, che abitano a qualche decina di metri dal luogo del delitto: giurano di aver visto dalla loro finestra la scena così come l’hanno descritta le due sorelle. La situazione sembra volgere a loro favore.
Sembra.
La Procura del re e la Sezione d’Accusa non la pensano così: Giovanna e Antonia vengono rinviate a giudizio. La prima per aver cagionato, a fine di uccidere, la morte di Barone Francesco e di essersi impossessata di £ 222,70 di esso Barone per trarne profitto; la seconda per avere facilitato l’esecuzione del primo dei due suesposti delitti, prestando assistenza ed aiuto prima, durante e dopo il fatto.
Per aprire il dibattimento ci vorranno due anni.
In un paio di udienze tutto viene risolto: Giovanna viene assolta perché ha commesso il fatto per esservi stata costretta dalla necessità di respingere da sé e da altri una violenza attuale e ingiusta; Antonia per non aver commesso il fatto.
Ah! E le 222, 70 lire? La Giuria nega che ci sia stato il furto[1], d’altra parte la somma è stata recuperata e due anni di carcere preventivo bastano come punizione.


[1] ASCS, Processi Penali.

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