L’INGEGNERE MORFINOMANE

Il Giudice Istruttore Antonio Rossi si fa largo nella piccola folla di curiosi che stazionano davanti al palazzo Bilotti, a poche decine di metri dalla stazione di Cosenza Casali. Sono le dieci e venti del 23 maggio 1911.
Sul marciapiedi che costeggia il palazzo, accanto al lato sinistro del portone di ingresso, c’è un uomo steso per terra. Ha la testa che sfiora il muro e i piedi verso la strada. Non ci sono tracce visibili di sangue né sul corpo, né sul marciapiedi.
– Pare che sia l’ingegnere Tancioni delle Ferrovie – sussurra un Carabiniere al magistrato – è svenuto… di sopra… al primo piano… – fa al Giudice indicando il balcone del primo piano.
Rossi si china sull’uomo e prova a fargli delle domande ma il Capitano Medico Vocaturo con un gesto cortese lo blocca e gli dice che il ferito non può rispondergli e che, data la gravità delle ferite, deve essere immediatamente portato in ospedale.
– Si è buttato da lì… – dice il Capitano indicando il balcone – a occhio e croce saranno più di cinque metri. Per interrogarlo ci sarà tempo, vi conviene andare a dare un’occhiata di sopra…
Il Giudice Istruttore sale le scale ed entra nell’ufficio delle Ferrovie dello Stato che occupa l’intero primo piano.
Sul lato sinistro di chi entra c’è l’appartamento di abitazione dell’Ingegnere Capo Francesco Giunta, composto da cinque camere, mentre sul lato destro e nell’ultima stanza a sinistra del corridoio ci sono gli uffici direzionali. Rossi viene invitato a entrare nell’appartamento da un Maresciallo dei Carabinieri e disteso sul letto della stanza da letto matrimoniale,  attorniato da medici e Carabinieri, c’è l’Ingegnere Giunta.
– È ancora vivo ma non può parlare – gli dice uno dei medici – stiamo provando a ravvivarne la vita con iniezioni eccitanti ma è lì lì per morire.
La previsione dei medici è esatta, infatti nel giro di pochi minuti Francesco Giunta cessa di vivere. I medici lo denudano e, mentre gli tolgono la camicia e il gilet che presentano delle macchie di sangue, ma non sono bucati, rinvengono un proiettile blindato di rivoltella di piccolo calibro. Sullo stomaco c’è il foro del proiettile. Gli indumenti del morto, dalla giacca alla camicia, sono invece forati dalla parte posteriore. Girato il corpo, in corrispondenza del buco nello stomaco, c’è il foro di entrata del proiettile. Un unico colpo alle spalle.
Ma nella stanza da letto non ci sono tracce di sangue e si è portati a pensare che il delitto sia stato commesso in un altro locale dell’appartamento.
– A sparare è stato certamente Tancioni – dice il Maresciallo Domenico Savoldi – e lo ha fatto presumibilmente nell’ufficio del capo.
L’ufficio di Giunta è un’ampia stanza di quasi 30 metri quadrati. Entrando si notano sui due lati a destra e sinistra due porte: quella di sinistra mette in comunicazione col salotto della casa dell’Ingegnere, quella a destra, chiusa con un robusto lucchetto, comunica con l’ufficio di Tancioni e del collega Felice Cimino. Su questo stesso lato, nascosta da un paravento, ci sono la scrivania di Giunta e uno scaffale a otto scansie e due scompartimenti, pieno di pratiche d’ufficio. Sulla parete di fronte c’è un balcone – “Quello da cui si è buttato Tancioni”, precisa il Maresciallo – e, accanto a questo, un tavolo da disegno. Le carte sparse sul pavimento accanto al tavolo da disegno stanno certamente a indicare che è proprio lì che Tancioni ha sparato alle spalle del suo capo mentre questi era intento a lavorare. L’ipotesi è confermata dal ritrovamento, in mezzo alle carte sparse, di un mezzo sigaro Branca, la marca preferita di Giunta.
– Ho il sospetto che sia avvenuto a causa di una inchiesta interna a carico del personale, a cui è seguito il trasferimento di Tancioni a Palermo – rivela l’Ingegnere Cimino, a questo punto diventato il capo dell’ufficio essendo l’unico ingegnere rimasto in servizio – e nello scaffale ci sono le carte relative…
Rossi gli fa prendere la scatola indicata con la scritta RISERVATE e gliela fa aprire. In particolare è il fascicolo intestato a Tancioni che desta subito l’interesse del Giudice e lo fa sequestrare. Poi procede alla perquisizione dell’ufficio del sospettato. Sul tavolo da disegno di Tancioni c’è, ritagliato da un giornale, un romanzo intitolato Verso la giustizia di Saverio Montefiore. I due cassetti della scrivania sono chiusi a chiave e il Giudice ordina che siano forzati e l’unica cosa interessante ai fini dell’indagine è la lettera, datata 21 maggio, con la quale gli viene comunicato il trasferimento d’ufficio.
Tutti gli impiegati vengono sommariamente interrogati e Marianna Cuzzaniti, la vedova, afferma di non aver visto Tancioni quando si è precipitata nell’ufficio dopo lo sparo, ma di aver visto il disegnatore Luigi Buscaino nell’atto di infilarsi la giacca e andare via dai locali. “Farò arrestare voi pel primo che siete stato la causa di tutto!” Gli avrebbe detto e, alla luce di queste parole, anche il disegnatore viene sospettato, subito rintracciato e portato in Questura. Viene perquisita la sua scrivania e vengono trovate due minute di lettere piene di risentimento verso l’Ingegnere Giunta, una cartolina e una lettera spedite da Licata a firma di un certo Caravita, nelle quali Buscaino viene esortato ad avere buoni sentimenti nei confronti di Giunta e, infine, altre due lettere scrittegli da Guido Pelliccetti – da poco trasferito a Tortona in seguito all’inchiesta interna –, nelle quali si accenna ai risentimenti di Buscaino verso Giunta. Tutto il materiale viene sequestrato e adesso si deve risalire al movente e ad altri eventuali complici.
Domenico Tancioni è ricoverato in una stanza a pagamento dell’ospedale cittadino e il Giudice Rossi lo trova circondato da medici e infermieri che lo stanno fasciando in varie parti del corpo. Terminate le operazioni, gli viene chiesto di declinare le proprie generalità:
Non sono in grado di rispondere…
– Avete sparato voi all’Ingegnere Giunta? – Tancioni fa cenno di si con la testa, poi Rossi continua a domandare – vi ha aiutato Buscaino?
Niente… povero giovane… non ne sa niente
– Perché gli avete sparato?
Quanto soffro… lenite i miei dolori e poi risponderò
Rossi deve prendere atto che non è il caso di insistere e va via. Ritorna la sera e Tancioni, ancora molto sofferente, racconta:
– Da un po’ di tempo a questa parte mi sentivo avvilito perché in ufficio ero tenuto ai margini. A volte, quando Cimino non mi faceva entrare nella stanza di Giunta che era assente, ho avuto l’impressione di essere considerato alla stregua di un ladro. Da circa sei mesi, poi, Giunta non mi permetteva di andare sui cantieri ma nello stesso tempo continuava a farmi percepire la relativa indennità. Questa sfiducia era per me una umiliazione terribile: come potevo dare degli ordini ai miei subalterni, come potevo discutere con le imprese e con la gente interessata ai lavori ferroviari, dato che tutti sapevano della mia emarginazione? Ho scritto varie volte ai superiori e non ho mai ottenuto risposta. Ho scritto lettere ardenti, ispirate dal solo mio amor proprio e dal desiderio di voler tutelare il mio onore, ma il risultato è stato di provocare una inchiesta interna, che non fu eseguita in modo spassionato e sereno, terminata col mio trasferimento a Palermo, comunicatomi domenica scorsa. Quel provvedimento, una vera e propria punizione, mi annientò. Vissi non so come fino a stamane. Verso le 8,30 sono arrivato in ufficio e mi sono messo a leggere un romanzo ritagliato dalle appendici di un giornale e dopo una mezz’ora sono sceso dal tabaccaio accanto al portone per farmi cambiare una lira falsa che mi aveva dato il giorno prima e quando sono risalito ho visto la porta dell’ufficio di Giunta aperta e lui girato di spalle. Ho preso la mia rivoltella, gli ho sparato un solo colpo e l’ho visto cadere; poi ho puntato l’arma sul mio cuore e ho tirato il grilletto ma non ha sparato. Ho provato di nuovo e nemmeno questa volta ha funzionato. Visto allora il baratro nel quale mi ero buttato, e deciso ad ogni costo di finirla colla vita, raggiunsi il balcone e mi precipitai giù a capo fitto
– Che ruolo hanno avuto i due disegnatori Pelliccetti e Buscaino?
– Nessuno. L’unico torto loro è di essere stati miei amici quando tutti mi erano contro. Mi hanno accompagnato a casa, mi hanno fatto visite e tutto questo rischiando la propria carriera. Erano anch’essi perseguitati come me e trattati con grande rigore. Non sono stati loro a istigarmi a sparare… ad essere sincero non ho mai avuto volontà omicida contro Giunta, non ho mai pensato di vendicarmi di lui uccidendolo. Solo stamattina sono stato invaso da una furia omicida ed io stesso non so spiegarmi come sia potuto accadere.
– Ci sono testimoni che affermano di avervi sentito minacciare Giunta.
– Non nego di avere, qualche volta, pronunciato parole di minaccia, ma ero molto arrabbiato e le dissi unicamente per sfogare la mia rabbia. Qualche mese fa poi, parlando con il cognato di un nostro impiegato, mi sono lamentato del fatto che il collega cercava in tutti i modi di eccellere facendo la spia a noialtri e mettendo malo animo tra noi e il direttore. Dissi che io ero uomo da non aver paura di nessuno e che non avrei indietreggiato di fronte ad una spada o ad un revolver, accennando così ad una questione di onore ma non mai ad un proposito di vendetta contro chicchessia.
Viene sentito anche Buscaino che dice di non avere in nessun modo saputo dei propositi di Tancioni.
– Posso dirvi solo che qualche giorno fa, parlando dell’imminente trasferimento, Tancioni era molto dispiaciuto e disse di voler fare una campagna contro Giunta a mezzo della stampa locale.
La perquisizione che viene fatta in casa del disegnatore porta al sequestro di un’altra lettera e di un telegramma con riferimenti ai trasferimenti in atto, oltre ad una rivoltella di piccolo calibro a cinque colpi, carica.
Ma Questura e Carabinieri non credono alla versione di Tancioni in merito al tentativo di suicidio e scrivono: Consumato l’efferato delitto, il Tancioni, allo scopo evidente di mettersi in salvo ed evitare l’incontro degli altri compagni d’ufficio che l’avrebbero certamente consegnato alla giustizia, si buttava dal balcone della stanza dove avvenne il fatto; ma caduto violentemente sul sottostante lastricato vi rimaneva inerte e privo di sensi. Pensare di buttarsi da un’altezza di quasi sei metri per scappare non è da credersi o per lo meno chi pensa di poterlo fare non è normale. Qualche chiarimento potrebbe arrivare dalla perizia sulla rivoltella che in realtà, scopre il Giudice Istruttore, non è una rivoltella ma una pistola semiautomatica Browning calibro 7,65 e, in effetti, risulta inceppata per la mancata espulsione del bossolo, ancora incastrato nel carrello. Forse Tancioni non mente sul suo proposito suicida.
Si indaga alacremente anche sulla posizione di Buscaino e dell’altro disegnatore, Guido Pelliccetti, trasferito a Tortona prima dell’omicidio per motivi disciplinari, ma non si riesce a trovare niente che possa provare il loro coinvolgimento nell’omicidio come istigatori.
La sorpresa per gli inquirenti arriva dalle carte sequestrate nell’ufficio della vittima e in quelle sequestrate agli indagati: l’ingegnere Domenico Tancioni era dipendente dalla morfina e si sottopose a disintossicazione nella Casa di Cura per Malati Nervosi del Dr. Cav. R. Ascenzi in via Nomentana 257 a Roma. In una lettera dello specialista romano, indirizzata al collega di Cosenza Scola, viene suggerita la terapia di mantenimento del paziente ormai disintossicato:
(…) Il sonno è la funzione che tarda molto a sistemarsi. Quasi tutti i demorfinizzati per molto tempo dormono poco. Occorre aiutare tali pazienti con qualche ipnotico che non contenga morfina e suoi derivati.
Il Veronal (1/2 grammo) riesce bene – però non darlo tutte le sere – 3 volte a settimana. 
Vi sono altri ipnotici – la Bromidia, il Somnal, il Clormial che pure riescono, ma il più sicuro di tutti è il Veronal. Tenere presente, curando tali pazienti, dei sintomi.
In altri termini fare la cura sintomatica. Occorre sempre un certo tempo. Perciò bisogna vigilare il malato, che in un momento di sconforto o di eccitamento non si morfinizzi . Tenere conto di una buona dieta, che non abusi di alcool e di vino.
Potrebbe essere un particolare decisivo per stabilire le responsabilità, dirette e indirette, del tragico evento, ma gli inquirenti non attribuiscono importanza alla dipendenza di Tancioni e vanno avanti per la loro strada, chiedendo e ottenendo il suo rinvio a giudizio per omicidio premeditato ma il Cavalier Michelangelo Dall’Oglio, che presiede la Giuria della Corte d’Assise di Cosenza, ritiene, al contrario degli altri magistrati, che la pregressa dipendenza dell’imputato dalla morfina possa avergli causato dei danni psichici con compromissione della sua capacità di intendere e volere; se così fosse potrebbe anche configurarsi l’ipotesi della pericolosità sociale dell’imputato. Bisogna sottoporlo a perizia psichiatrica senza il ricovero in un manicomio giudiziario e l’incarico è affidato ai medici del carcere di Cosenza, dottori Antonio Rodi e Giuseppe Montoro.
Il quadro che Rodi e Montoro dipingono nelle 187 pagine della perizia è quello di un uomo nel quale non esiste alcuno addentellato per intravedere nella figura del Tancioni quella dell’alienato, nello stretto senso clinico della parola, e sotto qualsiasi forma conosciuta e definita dalla psichiatria pura. È quindi evidente – continuano i periti – che dal nostro compito deve esulare una pretta questione psichiatrica, poiché mancano tutti gli elementi necessari per potere diagnosticare una vera malattia mentale. Non ci resta da risolvere che una questione prevalentemente psicologica e da interpretare un carattere.
Ci troviamo evidentemente di fronte ad una personalità intermedia, dinanzi ad uno di quegli individui (squilibrati, mattoidi, isterici, nevrastenici ecc.) che se non possiamo classificare fra i veri pazzi, non ci è dato neppure di respingere fra i veri savi.
Ma chi è veramente e da dove viene Domenico Tancioni? Per stabilirlo, i periti ripercorrono la sua storia familiare e personale. Così nel ramo paterno, come nel materno, troviamo casi di deficienza psichica, di spiccata eccentricità, di nevropatia, di psicopatia, di malattia organica degenerativa.
E l’eredità nevropatica è appunto il dato gentilizio che emerge dalla storia dei progenitori del Tancioni, eredità di una certa gravezza e di non dubbia efficacia degenerativa nella prole.
E dopo l’eredità un altro fattore immediato s’impone alla nostra considerazione ed è il fattore educativo e professionale del Tancioni.
Domenico Tancioni nacque a Roma nel 1863 da una famiglia dell’alta borghesia romana e fin da bambino egli passa di collegio in collegio (Seminario di S. Pietro in Vincoli dal 1872 al 1874; Collegio Nazzareno a Roma, detto anche collegio dei nobili,  dal 1874 al 1878; Collegio Romano fino al 1883, anno di conseguimento della Licenza Liceale d’Onore) e nel 1888 [consegue] la Laurea in Ingegneria nella medesima Università di Roma.
Asserisce che in questo periodo giovanile soffriva spesso di gravi emicranie, che qualche volta duravano fino a 48 ore. Era sempre debole, magro, infermiccio e perciò sottoposto continuamente a cure assidue della famiglia. Questa spesso gli ripeteva che da quando era ragazzo, in seguito ad una delle malattie nervose, gli era rimasta l’abitudine di camminare in punta di piedi.
In seguito a quelle forti cefalee e che gli procuravano, oltre a tutte le sofferenze ad esse inerenti, anche vomiti e digiuni prolungati, il Dott. Oliviero Olivieri di Roma gli praticò le prime iniezioni di morfina. Non ricorda bene la data di questo primo passo all’uso della morfina, ma ricorda con precisione che non era ancora laureato, poiché suo zio, il chirurgo, gli diceva che queste sofferenze sarebbero cessate al finire degli studi.
Qualche anno dopo si ammalò di cancro la madre e fu in quel tempo che il dottor Bertini e il dottor Serafini gl’insegnarono a praticare le iniezioni di morfina alla madre.
Profittando di tale pratica e delle soluzioni di morfina che aveva sempre a sua disposizione, il Tancioni incominciò a farsi da solo le prime iniezioni. Da allora non smise più la funesta pratica, poiché i periodi di cefalea e d’insonnia non lo lasciavano mai lungamente ed egli sentiva sempre più frequente ed imperante il bisogno di ricorrere alla morfina sia per dare tregua ai suoi dolori, che per riconciliare sonno. Poi il ricovero nella Casa di Cura per disintossicarsi e, quindi, l’omicidio. Ma quali conseguenze ha avuto l’uso massiccio e prolungato di morfina sul suo carattere di nevropatico originario? E quale parte ha avuto, se ne ha avuto, nel delitto del 23 maggio 1911?
Quando questa pratica si svolge in persone di labile costituzione nervosa, ben più gravi e funeste ne sono le conseguenze. E se l’uso e l’abuso della morfina non fu la causa diretta ed immediata dell’ultima scarica nervosa che lo sospinse al delitto, avea valso senza dubbio a rendere sempre più debole e quindi meno resistente quell’umano potere inibitorio che ritrae l’uomo dinanzi all’idea del male e lo sospinge verso il bene.
Nel morfinismo si entra o dalla porta del dolore o per quella del dispiacere o per quella della voluttà. Il Tancioni entrò per quella del dolore e in seguito vi si aggiunsero la cause psichiche derivanti da un bisogno di eccitamento e di sollievo, bisogno congiunto allo strapazzo intellettuale e morale che gli eccessi di lavoro o i dispiaceri traggono seco. Il Tancioni adunque divenne ben presto morfinista e dalla morfina non si seppe più allontanare per lunga serie di anni (23 o 24 anni). Perché mai, ci domandiamo, egli uomo intelligente e colto, pur riconoscendo il pericolo e tutte le insidie di questo farmaco, non ha mai saputo ritrarsi da questa china fatale per la quale si era avviato, mentre tanti altri, anche sotto l’influenza di dolori fisici o morali, rimangono indifferenti alle suggestioni di tal rimedio, e curano i loro mali con la pazienza, col lavoro, colle distrazioni inoffensive, col mezzo di una terapeutica razionale? Ciò avviene per una ragione assai semplice e cioè perché i veri morfinomani, quelli che si potrebbero chiamare i morfinomani nati, risentono vivamente le loro sofferenze, le esagerano, le sopportano con impazienza e non hanno sufficiente energia né sufficiente spirito di coerenza per combatterla coll’azione; perché costoro sono in massima parte degli impressionabili, degli emotivi,degli abulici, degli imprevidenti.
Ma Domenico Tancioni, che era stato demorfinizzato da vari mesi, poteva ancora patire gli effetti della droga al momento dell’omicidio? I periti osservano che è proprio il periodo di astinenza morfinica ad essere il più fecondo di fatti criminosi. Citano lo studio I morfinisti del dottor Chambard per asserire che l’astinenza morfinica è accompagnata da veri impulsi coscienti o semicoscienti i cui risultati sono il suicidio, il furto, la violenza contro le persone. L’astinenza, unita ai suoi precedenti clinici della giovinezza, ha determinato in Domenico Tancioni l’insorgere di una forma patologica di istero-nevrastenia cerebrale che ha come conseguenza, tra gli altri disturbi, anche l’indebolimento dei poteri volitivi, l’impressionabilità, l’emotività esagerata, l’eretismo e l’impulsività nervosa. Quindi, concludono Rodi e Montoro, sebbene l’imputato non sia mai stato affetto da alienazione mentale, è innegabile che sia uno squilibrato originario affetto da istero-nevrastenia cerebrale. Tancioni, nel momento in cui commise l’omicidio, si trovava in un momento acutissimo della sua malattia e che tale stato anormale, coadiuvato dal concorso del pregresso morfinismo, se non gli tolse la coscienza nel momento in cui commise il reato, certamente però gli ridusse in tal guisa la libertà dei propri atti da farne scemare fortemente la imputabilità, senza escluderla.
Insomma, può essere processato. Dopo vari rinvii, il 23 settembre 1914 il dibattimento può iniziare. Domenico Tancioni è difeso dagli avvocati Ernesto Fagiani, Pietro Mancini e Adolfo Berardelli.
Ma accade qualcosa di strano. La quasi totalità dei testimoni citati dalle parti, ormai sparsi per l’Italia, sembra ammalarsi secondo il calendario delle udienze e non si riesce per un paio di mesi a venire a capo di questa misteriosa epidemia. Finalmente, in un modo o nell’altro, il 7 novembre 1914 la Giuria è in grado di emettere una sentenza: NON COLPEVOLE.[1]

 

 

[1] ASCS, Processi Penali

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