DELIRIO GELOSO

Tra la fine di giugno e i primi di luglio, sulle colline dei Casali di Cosenza, si miete il grano. Anche Fortunata Cipparrone, quarantacinquenne contadina di Pietrafitta, e sua figlia, la tredicenne Natalina, la mattina del primo luglio 1914 vanno a mietere un po’ di grano nella piccola proprietà che suo marito, il cinquantaseienne Francesco Gatto, ha comprato con i pochi risparmi da emigrante. Francesco avrebbe voluto fare più soldi, Allamerica, ma si è ammalato di reumatismi ed è dovuto tornarsene prima del previsto, intorno al 1896, lasciando lì un figlio morto durante la costruzione di una linea ferroviaria e un altro che dagli Stati Uniti si è trasferito in Canada. Francesco, a causa delle sue condizioni di salute, si è dedicato pochissimo al lavoro e gli aspetti più negativi del suo non già buon carattere vengono fuori con prepotenza, tanto che i paesani lo definiscono violento e impulsivo, soggetto a crisi nervose durante le quali è capace di commettere le violenze più inaudite. Anche Natalina, la figlia, lo definisce un essere irascibilissimo, pronto a trascendere a violenze verso quelli di famiglia sol perché le cose non vanno come egli pretende.
E le violenze domestiche sono davvero continue. Fortunata, la moglie che tutti definiscono come donna di illibati costumi ed ottima madre di famiglia, le prende di santa ragione per ogni nonnulla, come una notte di dicembre del 1913 quando, mentre dorme tranquilla, viene raggiunta da una scarica di pugni in faccia che le fanno cadere un dente. I suoi parenti le consigliano di denunciarlo ma lei non vuole per non creare scandalo tra i paesani e si tiene le botte.
Dicevamo del primo luglio 1914. Fortunata e Natalina tornano a casa stanche e sudate verso le 11,00. Francesco le sta aspettando sulla porta di casa con un orciuolo in mano:
– Vai a prendere l’acqua – ordina perentoriamente alla figlia la quale, posata a terra la fascina di grano che ha sulla testa, esegue senza fiatare.
Fortunata entra in casa e si asciuga i sudori cercando un po’ di ristoro al fresco. Francesco ha la faccia tirata, gli occhi rossi di rabbia e una specie di brontolio incomprensibile gli esce dalla bocca. Sta dicendo qualcosa alla moglie o rimugina i suoi contorti pensieri? Fortunata nemmeno se ne accorge di quel brontolio. Non si accorge nemmeno che Francesco è dietro di lei con un’ascia in mano e che gliela sta abbattendo sulla testa proprio nell’attimo in cui si sta girando verso il marito. Il colpo, invece di colpirle la nuca, si abbatte sulla spalla sinistra e Fortunata lancia un urlo di dolore. Capisce, mentre Francesco alza l’ascia per colpirla di nuovo, che se non cerca di scappare per lei è finita e si lancia verso la porta, urlando più che può.
Alla porta ci arriva e la apre, nonostante il marito la colpisca ripetutamente alla testa e alle spalle. Cade, mezza dentro casa e mezza fuori, sotto i colpi dell’ascia.
Antonietta Bianchi abita di fronte alla famiglia Gatto. Alle urla dei dirimpettai c’è abituata, ma quelle della mattina del primo luglio sono diverse. Sono le urla disperate di chi sta per essere ucciso. Spia dalla finestra e vede Fortunata mentre cade a terra inerme e il marito che continua a colpirla. Non perde tempo, esce sulla via e si mette a urlare con quanto fiato ha in gola:
– Che fai! Stai ammazzando tua moglie, fermati!
Anche Francesco Gatto urla. All’indirizzo della moglie, però:
Ti faccio vedere io chi è Francesco Gatto! – poi vede Antonietta che corre verso di lui gridandogli di smetterla altrimenti ammazza la moglie e continua a urlare – Ti sono bastate? Ora sei morta e ti frichi!
Tutto quello strepitare fa accorrere il vicinato e degli uomini hanno in mano anche dei bastoni. Francesco, ansimando, rientra in casa ma non può richiudere la porta alle sue spalle perché c’è in corpo della moglie a impedirglielo, così sale le scale che portano alla camera da letto e si barrica dentro. Cammina avanti e indietro con il suo passo claudicante per i reumatismi. Sbuffando come un toro bestemmia e spia da dietro la finestra la gente che urla minacce al suo indirizzo, mentre qualcun altro sta correndo ad avvisare il medico e i Carabinieri di Aprigliano. Poi si affaccia al balconcino di legno che è proprio sulla porta di casa, getta uno sguardo alla moglie che sta rantolando in un lago di sangue e di nuovo urla:
Ti sono bastate? Ora sei morta e ti frichi!
Passa qualche minuto. Arriva il dottor Vincenzo Piro, medico condotto di un paesino vicino, e Francesco crolla, forse a causa del rimorso di ciò che ha fatto. In tasca ha un coltellino, lo prende, lo apre e comincia a colpirsi con violenza al torace e all’addome ma si rende conto che la lama è troppo corta perché possa produrre ferite profonde e potenzialmente mortali, così ne prende un altro che ha la lama più lunga e più larga e si colpisce di nuovo. Uno dei colpi se lo tira tra lo stomaco e il fegato e quando la lama esce dalla carne, esce anche l’epiploon gastro-epatico. Già debole per suo conto, la forte emorragia prodotta da una dozzina di ferite lo fa stramazzare a terra proprio mentre i vicini sfondano la porta ed entrano nella camera.
Fortunata è in fin di vita, il dottore Piro può fare molto poco se non tamponare con svariati punti di sutura le dieci ferite più lievi alla testa; per quella più grave alla regione sottoscapolare destra c’è poco da fare: l’ascia è penetrata nella cavità toracica e il medico non riesce a stabilire i danni prodotti. Deve essere portata in ospedale con urgenza se si vuole tentare di salvarla, così accorre al richiamo della gente penetrata nella camera da letto per soccorrere Francesco e riesce a salvarlo.
Finalmente, alle 14,30, arrivano i Carabinieri con il dottor Alfonso Cosentini al quale non resta che constatare l’ottimo lavoro svolto dal collega. Fortunata viene portata nell’ospedale cittadino e sottoposta a un delicato intervento chirurgico che le salva la vita ma non può restituirle l’uso del braccio sinistro, paralizzato per la recisione del plesso cervicale sinistro.
Francesco viene immediatamente dichiarato in arresto ma è intrasportabile e viene piantonato nella sua camera da letto. Può, comunque, rispondere alle domande del Giudice:
– Stamattina mia moglie è andata in campagna senza dirmi niente e quando è tornata, accecato dalla rabbia, ho preso l’ascia e le ho dato parecchi colpi. Poi sono salito in questa stanza e ho sentito gridare parecchie persone e una di queste diceva: “Ciccio, hai ammazzato tua moglie!”. Preso dal rimorso ho afferrato un coltello e mi sono dato parecchie coltellate. – si ferma, riprende fiato, poi continua – Da quando siamo sposati, tra me e mia moglie è stata una guerra continua per troppa disparità di sentimenti. Non posso dire che lei mi sia stata infedele, no, perché sono cose che si fanno ma non si vedono
Anche Fortunata, prima di essere sottoposta all’intervento chirurgico, ha la forza di raccontare:
– Rincasata dalla campagna con mia figlia Natalina, mio marito l’ha mandata a prendere l’acqua alla fontana e quando siamo rimasti soli, senza alcuna ragione, solo per brutale malvagità, mi ha colpita a tradimento con un’ascia. Dal giorno che ci siamo sposati mi ha sempre maltrattata, giorno e notte, con pugni, schiaffi, calci, bastonate e parolacce. Il dente che mi manca me lo ha fatto cadere lui con un pugno che mi ha dato mentre dormivo e se non l’ho lasciato è stato perché mi sembrava vergogna. Io non ho mai fatto nulla di cui mio marito si potesse lamentare e su questo, oltre che sui maltrattamenti, è buon testimone tutto il popolo abitante in Pietrafitta.
Infatti, tutte le persone interrogate confermano il racconto di Fortunata e la descrivono come una donna onesta e grande lavoratrice.
Col passare dei giorni le condizioni di Fortunata e di Francesco migliorano e vengono dichiarati fuori pericolo.
Fortunata torna a casa col braccio sinistro sostenuto da un fazzoletto, Francesco invece viene trasferito in carcere e, interrogato di nuovo, fornisce una versione diversa. Il 6 luglio afferma:
Nel mattino in cui avvenne il ferimento io ero tranquillissimo, improvvisamente fui assalito da una smania irresistibile di percuotere. Avevo a portata di mano la scure con la quale avevo tagliato della legna e colpii mia moglie. Altre volte io avevo percosso mia moglie sempre per bisticci sorti tra noi, ma sempre perché io ritenevo che mia moglie agisse di testa sua senza obbedire a quello che io dicevo.
Poi, il 3 agosto, fa pervenire una lettera al Giudice Istruttore nella quale cambia di nuovo versione e dichiara di non aver mai avuto intenzione di uccidere la moglie ma che, nell’avere il diniego di ciò per cui prese moglie, con giuramento di mai più dargliene, perdé la ragione e inveì contro la stessa. Dunque il movente sarebbe nel rifiuto di Fortunata ad un rapporto sessuale. E questa motivazione Francesco la ribadisce in un’altra lettera del 19 agosto:
L’emarginato detenuto prega la S.V.Ill.ma affinché si benigni di disporre onde viene mandato un perito di fiducia della Giustizia a Pietrafitta affinché recasi a casa di Fortunata Cipparrone, ove trovasi unita la figlia Gatto Natalina e fargli passare una perizia tanto ad una che all’altra per quando riguardo alle parte genitale. Alla prima se trovasi infetta di morbo venerio e la seconda se trovasi deflorata.
Ma Fortunata si oppone con tutte le sue forze nel respingere le insinuazioni del marito, appellandosi alla illibatezza di tutta la sua vita di cui la popolazione di Pietrafitta è testimone. Ancora una volta, i testimoni le danno ragione e la richiesta di perizia viene respinta.
Dopo questo misero tentativo di alleggerire la sua posizione e dopo altre stranezze e presunte crisi convulsive avute in carcere, l’avvocato Tancredi (immediatamente affiancato dall’On. Nicola Serra), assegnatogli d’ufficio, inoltra una richiesta di perizia psichiatrica. Il dottore Ettore Gallo, medico del carcere di Cosenza, sostiene che Francesco non ha mai avuto crisi convulsive ma che è affetto da atrofia muscolare progressiva e il suo parere è decisivo perché la richiesta di perizia venga rigettata.
Il 10 giugno 1915 Francesco Gatto viene rinviato a Giudizio, ma ci vorrà quasi un altro anno prima che il dibattimento abbia inizio. E subito le testimonianze, compresa quella di Fortunata, vanno nella direzione di descrivere un uomo “strano” con comportamenti “strani” anche tra i genitori e i parenti:
– Il padre di mio marito una volta era andato in Sila col somaro ma siccome la bestia non voleva camminare, gli tagliò le zampe – racconta Fortunata – come era strano il padre così è strano mio marito.
– Gatto Francesco è un uomo molto nervoso e quando un uomo è forte nervoso, è parente al pazzo. Prima di colpire la moglie si è mostrato sempre nervoso sofistico – afferma Antonietta Bianchi.
– Andai una volta a trovare il Gatto e, tra le altre cose, mi disse che la moglie gli faceva salire il nervoso quando le parlava di matrimonio… cioè quando… quando le chiedeva di… di possederla e lei lo rifiutava, insomma – dice Caterina Tancredi.
Forti di queste dichiarazioni i difensori di Francesco rinnovano la richiesta di sottoporlo a perizia psichiatrica e questa volta vengono accontentati: il 21 luglio 1916 le porte del manicomio giudiziario di Aversa si aprono per accogliere l’imputato.
Durante i quasi sette mesi di osservazione, Francesco Gatto si apre ai periti e racconta che durante i primi anni di matrimonio, trascorsi in perfetta armonia con la moglie (contrariamente a quanto aveva dichiarato non appena arrestato), emigrò in Tunisia come molti altri abitanti dei Casali di Cosenza e talvolta ci restava per pochi mesi, altre volte per un anno intero. Poi emigrò in America dove rimase per tre anni, mandando a casa tutto ciò che poteva e i rapporti epistolari con Fortunata erano sempre cordiali. Ma, ammalatosi, fu costretto a rimpatriare e da allora le cose cambiarono. Fortunata era diventata capricciosa, dispotica, impaziente; lo abbandonava e lo contraddiceva. Di qui le continue scenate, le discordie che finirono per amareggiargli, giorno per giorno, l’esistenza.
– Ma io le volevo bene lo stesso, la volevo con me e le usavo sempre attenzioni, le mostravo affetto e tenerezza. Se non che, a 50 anni sonati, non potevo essere certo più un giovanotto di 20 o 30 anni! Fortunata, che aveva mangiato la polpa, non intendeva rodersi l’osso, come sarebbe stato suo dovere! Notai che, nonostante non fosse più una giovanetta, metteva nella sua acconciatura una cura e una ricercatezza che non si confacevano alla sua età. Era diventata vanitosa, amante degli oggetti d’oro, per i quali spendeva persino i denari che nostro figlio, residente in Canada, mandava per farmi curare. Mi accorsi anche che un mulattiere mio compaesano se la doveva intendere con lei, ma nessuno mi ha mai riferito niente di questa cosa. Con la scusa della mia malattia mi sfuggiva sempre e la notte se ne andava a dormire nel basso, credo per ricevere l’amante. Mi trattava come se fossi un garzone e non suo marito. Tutto questo mi ha convinto che mi era infedele. Perciò, quando quel giorno non ha voluto dirmi dove era stata, ho perso il lume degli occhi e l’ho colpita. Ero come ubbriaco, non capivo più nemmeno quello che facessi
I periti osservano che la convinzione che la moglie gli sia stata infedele, che lo maltrattasse e lo disprezzasse è così radicata nella sua coscienza da renderla verità e da deformarne tutti gli elementi costitutivi. L’aderenza tra la sua convinzione e la realtà che ha costruito nella sua mente è così tenace da resistere a qualsiasi critica, a qualsiasi prova o ragionamento contrario.
Con il passare dei mesi, osservano ancora i periti, le false concezioni del Gatto sono ancora oggi profondamente radicate nella sua coscienza, anzi vi si sono maggiormente ribadite dalla errata convinzione che la perizia, da lui stesso provocata, sia venuta a confermare le illecite relazioni della moglie (in realtà quella perizia non fu mai fatta. NdA). Contro costei egli nutre sentimenti di rancore e di vendetta, acuiti dal fatto che la moglie si è costituita parte civile contro di lui; e se egli, oggi, nell’ambiente manicomiale appare calmo e tranquillo, ciò è dovuto solo al fatto che trovasi in un’atmosfera di ordine e di disciplina, la sola confacente al suo stato, e lontano da tutto ciò che forma oggetto del suo delirio.
I dottori Filippo Saporito e Antonio dell’Erba, incaricati della perizia, concludono che:
1) Gatto Francesco è affetto da atrofia muscolare progressiva con sovrapposizione di delirio geloso.
2) La malattia esisteva al momento del reato ed era tale da togliergli completamente la libertà, se non la coscienza delle sue azioni.
3) La liberazione deve ritenersi tuttora pericolosa.
In base a questa perizia, l’8 novembre 1917, la Corte d’Assise stabilisce la non punibilità di Francesco Gatto e ne dispone il ricovero in manicomio senza specificarne la durata.[1]

 

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