IL SACCO NEL CANALE

Il frinire delle cicale, l’allegro saltellare dei grilli ma soprattutto il fastidioso ronzare di mosche e zanzare accompagnano Marianna Rovito, trentenne contadina di Cosenza, e suo nipote Antonio Filice di 12 anni mentre attraversano la campagna di contrada Petrara per andare a deviare l’acqua del canale di irrigazione che dal torrente Campagnano si insinua tra gli orti coltivati. È da poco passato il mezzogiorno del 19 agosto 1918.
Arrivati a un certo punto, zia e nipote devono oltrepassare il canale per arrivare all’orto. Non c’è una passerella, un tronco o qualsiasi altro sistema per andare dall’altra parte, bisogna fare un salto di circa un metro, tanto quanto è largo il corso d’acqua ma sono abituati a farlo e, più che un fastidio, ormai è un gioco. Ormai sono vicini, devono solo costeggiare per qualche decina di metri il canneto che costeggia il canale e poi sollevare la tavola per permettere all’acqua di irrigare i solchi con le piante.
Antonio è un ragazzino sveglio e i suoi occhi vanno veloci da un posto all’altro del suo campo visivo e, all’improvviso, si scosta dalla zia e si inoltra tra le canne
– Dove vai? Attento che cadi nell’acqua
– C’è qualcosa… sembra un sacco con della roba dentro – le risponde, sporgendosi con un braccio, mentre con l’altro si tiene a una canna che si flette pericolosamente
– Attento che lì è profondo! – continua a richiamarlo
– Ce l’ho! L’ho preso! – esulta Antonio che ha ripreso l’equilibrio mentre, con i piedi nudi affondati nella terra molle della sponda, trascina il sacco fuori dall’acqua
Sciolto il nodo e allargati i lembi della stoffa, i due notano che dentro c’è una specie di pacco oblungo, una cinquantina di centimetri, avvolto in quello che sembra uno di quei pannolini che si usano per fasciare i bambini
– Lascialo stare! – ordina Marianna, bianca in volto, al nipote
– Ma… io voglio vedere che c’è… magari c’è qualcosa che possiamo vendere…
– Ti ho detto di lasciarlo stare! – l’ordine è perentorio e Antonio ubbidisce – andiamo a togliere la tavola dell’acqua e poi andiamo a chiamare qualcuno per avvisare i Carabinieri
– Ma che diavolo pensi che ci sia? – le chiede
– Un bambino morto ma, per l’amor di Dio, che non ti venisse in mente di volergli togliere la fascia!
I Carabinieri arrivano col dottor Adolfo Tafuri dopo quasi tre ore e cominciano i rilievi. Il medico annota che il corpicino è avvolto strettamente da un pannolino a fascia, serrato ancora di più all’altezza del collo, e legato con una robusta corda. È un maschietto completamente formato e ha fatto anche la cacca prima di morire, così testimoniano le macchie sulla stoffa. La pelle, quasi macerata, si sfalda in lamelle non appena la si sfiori. Gli occhietti sono chiusi così come la bocca, la zona dell’ombelico si presenta leggermente incavata. Non sembrano esserci segni evidenti di violenza e quindi si non può affermare con certezza se sia stato ucciso o se sia morto per cause naturali. Ci vuole l’autopsia.
Il Vicebrigadiere Angelo Aloia e il carabiniere Luigi Cannataro cominciano, con la cautela del caso, a raccogliere informazioni per scoprire l’identità della donna che ha messo alla luce il bambino. Interrogano tutti gli abitanti di contrada Petrara ma lì non c’è nessuna donna ad uno stato tale di gravidanza da far pensare a un parto nei giorni precedenti. Ma l’udito di Aloia è fino e sente che in una casa si sta parlando di una donna forse incinta, moglie di un americano, nella vicina contrada Panebianco e immediatamente vanno lì.
Scoprono che in effetti una donna incinta c’è e la cosa curiosa è che da parecchi giorni nessuno la vede in giro. Scoprono anche che una vicina di casa va spesso a trovarla con fare circospetto. Aloia pensa che non sia il caso di insistere oltre per non insospettire la donna, organizzando una visita a notte inoltrata. Verso le 22,30 di quella stessa sera, quando tutto è silenzio a Panebianco, i Carabinieri bussano alla porta di Rosina Molezzi e della sua vicina Filomena Gerace, portandole in caserma.
Le due donne negano recisamente ogni addebito ma la notte è lunga e le domande costringenti di Aloia fanno si che alla fine confessino
– Per mia sfortuna, l’anno scorso conobbi il soldato Camillo Mamone del diciannovesimo Reggimento Fanteria di Cosenza. Io ero impiegata a trasportare delle tavole per conto della società ferroviaria e lui era adibito alla guardia del deposito. Mi ha fatto una corte serrata e io, che sono sola da anni perché mio marito è emigrato Allamerica, alla fine ho ceduto e siamo diventati amanti. Poi sono rimasta incinta e non l’ho più visto. La mattina del 13 agosto ero da sola in casa perché i miei due figli erano andati a Sant’Ippolito a divertirsi alla festa del paese, all’improvviso mi sono venute le doglie e poco dopo ho partorito da sola. Anche quando ho partorito il mio secondo figlio ero da sola
e quindi sapevo come e cosa dovevo fare. Gli ho legato il cordone, l’ho lavato e l’ho fasciato, poi l’ho messo sul letto. Pian piano riuscii a espellere la placenta facendola cadere dentro un bacile e mi coricai vicino al bambino. Forse dopo un’ora venne Filomena Gerace e le confidai tutto, dicendole anche che mi ero accordata con una certa Giovannina di Rende, che viene spesso da queste parti, perché prendesse, a pagamento, il bambino per tenerlo a balia. Chiesi a Filomena il favore di prendere il bambino e di portarlo a Giovannina che, così mi aveva detto, in quei giorni doveva andare a Torre Rossa, vicino a casa mia, per vendere ricotte. Le dissi anche di riferire a Giovannina che se avesse voluto i soldi subito sarebbe dovuta venire a prenderseli a casa. Filomena prese il bambino e andò via. Io mi tranquillizzai perché sapevo che di lì a poco i miei figli sarebbero tornati e non si sarebbero accorti di niente. Quando Filomena tornò mi assicurò di aver dato il bambino a Giovannina e che nessuno dei vicini si era accorto di nulla perché aveva nascosto il bambino sotto il suo grembiule. Da allora non ho più avuto occasione di incontrare Giovannina, né lei è venuta a casa per prendersi i soldi, per cui non ho avuto notizie del bambino. Ieri, però, ho saputo che un bambino è stato trovato morto alla Petrara e che i Carabinieri cercavano la madre. Io ero sicura che il mio bambino fosse stato dato a Giovannina e non ho sospettato che quello trovato potesse essere il mio. Io sono innocente… non ho fatto niente! Se avessi voluto ammazzarlo lo avrei fatto da sola e l’avrei seppellito da qualche parte e nessuno lo avrebbe mai trovato… se qualcuno lo ha ammazzato è stata sicuramente Filomena, ma non so nemmeno immaginare il motivo per cui l’ha fatto…
Poi Aloia interroga Filomena
– Non è vero che Rosina Molezzi mi ha dato l’incarico di portare il suo bambino a questa Giovannina che viene dalle nostre parti a vendere ricotte ed è assolutamente falso che io abbia fatto del male al bambino perché io non l’ho mai visto questo bambino! La mattina del 13, come ogni mattina, sono andata a casa di Rosina ma non c’era nessun neonato in casa, ricordo solo che lei era a letto e mi pregò di farle una tazza di camomilla. Voi volete farmi dire che l’ho strangolato, chiuso nel sacco e buttato nel canale ma io non l’ho fatto e non avrei nemmeno avuto un solo motivo per farlo!
Due versioni opposte, quindi non resta che metterle a confronto davanti al Giudice Istruttore
– La mattina del 13 sei venuta a casa mia come al solito e io ti ho raccontato del parto facendoti vedere il bambino che avevo già fasciato, chiedendoti di portarlo a Giovannina. Tu hai preso il bambino e sei uscita. Quando sei tornata mi hai detto di averlo dato a Giovannina – Accusa Rosina
– Non è vero! Quando sono venuta a casa tua non c’era nessun bambino e tu hai voluto una tazza di camomilla – si difende Filomena
– Tu stai mentendo! Io non avrei potuto disfarmi da sola del bambino nel modo in cui è stato trovato e poi – lancia l’affondo – mi risulta che parlando col Vicebrigadiere Aloia gli hai confessato di essere stata tu a strangolarlo!
– Io non dico niente altro se non che quando sono venuta a casa tua non c’era nessun bambino e Aloia forse ha confuso quello che gli ho detto a tu per tu!
Insomma, nessuna delle due cede e tutte e due restano in carcere in attesa del processo.
Nel frattempo arrivano gli esiti dell’autopsia che non lasciano dubbi: Il feto è nato vivo e ha respirato, come ci è risultato dagli esami (…) che la causa unica e diretta della morte doveva essere stata la violenza che aveva prodotto l’occlusione delle vie aeree e strappato il cordone ombelicale. A proposito stabilimmo che la violenza dovette essere prodotta da almeno due persone (asfissia con violenza sul cordone ombelicale). Ed infine, da tutti i dati minuziosamente vagliati e studiati, doveva ritenersi che al momento del ritrovamento del cadaverino, la morte doveva datare almeno ad un giorno.
Strappato il cordone ombelicale? Allora Rosina ha mentito spudoratamente affermando di averglielo annodato per bene! E se qualcuno ha strozzato il piccolo innocente, non può che essere stata Filomena. Sono quindi entrambe colpevoli e vanno giudicate per infanticidio, ma la battaglia legale è appena agli inizi.
L’avvocato Tommaso Corigliano, che difende Rosina, scrive parole dure contro Filomena: Ella aveva affidata la sua creaturina ad una trista donna, tale Gerace Filomena, con l’incarico di condurla in territorio di Rende da una nutrice, colla quale si era già intesa. Evidentemente la modesta somma di 150 lire che, insieme con il neonato, era stata consegnata alla Gerace perché a sua volta ne facesse rimessa alla nutrice, fu motivo sufficiente per l’efferato delitto… per appropriarsi di quel denaro la Gerace spense quella piccola vita…Che c’entra in tutto ciò la madre derelitta? Perché la si tiene in ceppi se essa, prima di ogni altro, fu colpita dal maleficio? I fulmini della giustizia raggiungano tutti la vera, la sola responsabile. E responsabile non solo del tenue reato di infanticidio, ma di ben più grave delitto!
Ma finora Rosina non ha detto di non aver consegnato denaro a Filomena? E può essere tenue un infanticidio?
Pietro Mancini, difensore di Filomena, risponde con parole di gran lunga più dure: Il sottoscritto chiede ancora una volta la scarcerazione di Gerace Filomena inavvedutamente arrestata per un’interessata e calunniosa accusa lanciatale da una donna, i cui precedenti e le cui abitudini son noti a tutti gli onesti abitanti della contrada Panebianco, continuamente offesi dalle gesta di costei. Gerace Filomena è vittima della propria bontà. Donna di vita illibata. Onesta fino allo scrupolo. Madre di famiglia esemplare. In posizione finanziaria invidiabile. Non poteva vincere in un momento tutti questi ostacoli e piombare – senza ragione o motivo – nel delitto. Le costruzioni fantasiose, irreali, trovano resistenza nei precedenti e nella moralità della sua vita. Non s’improvvisa il delinquente. Se per gioco difensivo o nella speranza di scagionarsi da colpa o responsabilità si getta la colpa sulla nostra povera difesa, il Magistrato saprà trovare nella forza della verità e nella serena valutazione dei fatti, delle cause, dei precedenti, ragione per doverla scagionare.
Nessuna delle due viene scarcerata, seppure provvisoriamente, e insieme affronteranno il processo davanti alla Corte di Assise di Cosenza perché ritenute entrambe responsabili in concorso.
Ci vorranno dieci mesi perché si arrivi alla sentenza e nel frattempo Rosina cambia versione
– Allorché sgravai, svenni e non so se il bambino fosse nato vivo o morto, perché nulla ricordo…
Beh, se era svenuta e non ricorda che vogliamo farci? Evidentemente tutto quello che Rosina ha raccontato finora è frutto di un incubo avuto durante quei momenti.
Così, il 25 giugno 1919 alle 11,25, la giuria ritiene che nessuno la mattina del 13 agosto 1918 provocò la morte del bambino mediante occlusione delle vie respiratorie, strappandogli contestualmente il cordone ombelicale.
Evidentemente il piccolo ha voluto suicidarsi…[1]

 

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