Anche in tempo di pace c’è chi gioca a riprodurre la guerra. L’alba del 14 settembre 1902 nelle distese del barone Mollo sul Campagnano, è macchiata del sangue di due uomini, gli stimati capitani Palumbo e Santoro, assisi l’uno dinanzi all’altro in un lago di sangue[1]. La sciabola ha colpito rapida e implacabile aprendo le carni dei contendenti al punto che i medici, Molezzi e Vocaturo, intimano al capitano direttore di scontro Danielli di mettere fine alla mattanza.
Il duello come forma archetipica e stilizzata dello scontro bellico sopravvive agevolmente al cambio di secolo, continuando a essere nella Cosenza della belle époque sfogatoio per liti e baruffe che hanno come posta in gioco l’onore, direttamente scalfito, dileggiato o anche solo lontanamente minacciato. Dagli insulti verbali scaturiti da una semplice diversità di vedute su di un dato argomento, ai colpi bassi e sovente letali il passo è breve. Così, anche nella Cosenza d’inizio Novecento il duello viene praticato per ricondurre negli studiati confini di un’arte antica e ampliamente codificata, i contenziosi apparentemente insanabili delle stizzose élites: vi ricorrono soprattutto militari attivi o in congedo ma anche giornalisti, avvocati, benestanti e capitalisti, deputati, studenti, medici, ingegneri, professori, impiegati[2].
Si vuole che tra i due ufficiali, Palumbo e Santoro, esistessero vecchi e insanabili rancori dovuti secondo la pubblica voce a incompatibilità di carattere. Ma il fuoco che alimenta la contesa divampa improvviso nel quartiere di San Domenico dove la truppa trova base, alloggio e ristoro.
«Le qualità di un soldato devono essere compruovate senza dubbio alcuno», rimprovera duramente il Santoro al Palumbo, quest’ultimo colpevole di avergli destinato per attendente un soldato di cui s’ignorava tutti i precedenti. Palumbo non ci sta, la sua voce s’ingrossa ma tra un’ingiuria e l’altra viene afferrato alla gola dal dirimpettaio. Ancora pochi istanti ed è rissa: un vero pugilato dal quale entrambi riportarono leggere contusioni, degli sgraffi e qualche morso. Stante la gravità dell’accaduto uno scontro è assolutamente necessario. Il cartello di sfida è già pronto, come se il Santoro non aspettasse altro per recapitarlo: duello alla sciabola, senza esclusione di colpi, con guantone, nella località Campagnano, e fino ad impossibilità di proseguire, a giudizio dei medici. Così allo scoccare della mezzanotte in una sala del quartiere di S. Domenico i secondi compilano i verbali, allertano i medici che presenzieranno alla sfida, preparano le carrozze. Queste muovono alle 4.30 giungendo sul posto designato dopo mezz’ora. Incomincia ad albeggiare e il momento è solenne. La lettura del verbale di sfida e delle condizioni dello scontro dà il via alle operazioni preliminari, vale a dire il sorteggio del posto dei contendenti sul campo, la predisposizione delle sedie e del nécessaire per le medicazioni, infine la sanificazione delle lame delle sciabole.
«A posto!» – ordina il capitano Danielli.
Palumbo e Santoro sono l’uno di fronte all’altro. Vestono in pantaloni scuri e camicia bianca e, come manualistica vuole, col braccio destro denudato. Le due lame si toccano per la prima volta, è il saluto.
«In guardia» – ordina nuovamente l’arbitro della contesa.
Il primo assalto dura quasi due minuti ed è violento, impetuoso, fulmineo, con molto accanimento fino a raggiungere il corpo a corpo, non consentito da nessun regolamento. Danielli intima l’alt e le parti si ricompongono. Il secondo assalto viene quasi monopolizzato dal Santoro che per diverse volte costringe l’avversario all’affannosa parata, ma poi è il Palumbo a colpire, aprendo per sette centimetri il collo del contendente. Per nulla intimorito e col sangue che gli imbratta la camicia il Santoro passa al contrattacco, mirando alla testa e al volto. Pochi secondi e il Palumbo è una maschera di sangue, con una ferita di sette centimetri alla regione temporo-parietale sinistra e una di otto sulla guancia destra. I duellanti stramazzano sulle seggiole e vengono lungamente curati dai medici che, constatata la gravità delle ferite e soprattutto le parti del corpo interessate, mettono fine alla contesa, redigendo apposito verbale. Opportunamente sanati, Palumbo e Santoro si guardano dritti negli occhi stringendosi la mano, scambiandosi la camicia intrisa del proprio sangue e vestendo quelle di ricambio gentilmente offerte dal barone Mollo, padrone di casa.
La notizia corre di bocca in bocca, animando i ritrovi e i caffè delle belle époque e mandando letteralmente in solluchero la stampa locale[3]. Alla signorilità dei contendenti e coadiuvati da due egregi signori borghesi fa da contraltare il loro comportamento poco militare. Oltre alla zuffa, ai duellanti viene rimproverato di non aver rispettato la fondamentale regola della “parata” che è obbligo reciproco di chi schermisce. Ma i toni sono in generale assolutori: data la gravità del fatto che aveva provocato lo scontro, e le gravissime condizioni nelle quali lo scontro doveva avvenire, nonché la veste e il grado degli avversari, non era possibile né la calma, né la regola d’arte della parata in ogni colpo.
Fasciati di tutto punto e con ferite guaribili in giorni dieci, i protagonisti del cavalleresco avvenimento vengono posti agli arresti di rigore in attesa dell’arrivo di un ufficiale generale per l’apertura di una inchiesta disciplinare che, però, non trova alcun seguito. Ogni torto è dunque riparato dal sangue versato, quest’ultimo lavato via dal fascino di un’arte antica che se non conduce immediatamente alla morte, appiana e indocilisce, portando due riottosi militi a stringersi contegnosamente la mano.
[1] Cronaca di Calabria, 18 settembre 1902: Il duello di domenica.
[2] Cfr. A. B. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000.
[3] Cronaca di Calabria, 21 settembre 1902: Gli echi del duello di domenica.
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