CORNA E SANGUE

– Me ne devo andare da Cosenza, lo capisci che quelli mi vogliono ammazzare? – Giovanni Pellegrino, venticinquenne manovale di Zumpano ma residente a Cosenza, ha paura che i parenti della sua amante, Annina Gagliardi, gli vogliano fare la pelle per averla disonorata. La persona a cui sta raccontando le proprie paure è sua moglie, Rosaria Pasciari, la quale, tuttavia, non è assolutamente risentita nei confronti di Giovanni, anzi! Anche Rosaria ha un amante da quattro anni, Alfredo Valentini, loro intimo amico e alto funzionario della Prefettura di Cosenza.
– Che ti posso dire? Se hai questa paura, vai… anzi, sai che facciamo? Chiamiamo compare Alfredo e lo preghiamo di vendere il mio oro così ti prendi i soldi del ricavato e parti tranquillo…
I soldi ricavati non sono molti ma bastano per pagare il viaggio fino a Milano dove lavora un fratello di Giovanni e per vivere un po’ di giorni in attesa di trovare un lavoro. Così, il 10 novembre 1922, Giovanni parte di notte, a bordo di una carrozza chiusa, per non destare sospetti, presa a noleggio fino a San Fili. Da lì prenderà il treno per a Paola e poi quello per Milano. Giovanni si tranquillizza e Rosaria può frequentare più assiduamente Alfredo.
Manca poco alla mezzanotte del 7 dicembre quando Rosaria sente bussare alla porta di casa a Piazzetta Toscano. Si alza dal letto e si avvicina all’uscio sorridendo e sussurra, mentre si sistema i capelli e annoda la cintura della vestaglia
– Alfredo… Alfredo, sei tu?  Aspetta un attimo che apro…
– Non sono Alfredo… sono Giovanni – Rosaria è sorpresa, non vorrebbe aprire ma ormai la frittata è fatta ed è meglio affrontare subito la situazione. Apre la porta e Giovanni l’aggredisce verbalmente – Puttana! Compare Alfredo di qua… compare Alfredo di là… parti, parti pure che c’è compare Alfredo che mi guarda… ti guarda e ti fotte… puttanalordafetusa!
– Ma sei scemo? Lo sai benissimo di me e di Alfredo, eccome se lo sai! Allora dovrei avere anche io da ridire della tua Annina e poi sei così cretino che ti sei fatto pure scoprire dai parenti… io sono quattro anni che amo Alfredo e tu lo sai benissimo, eccome se lo sai! – ripete – Ora finiamola che se no qui escono tutti e ci ridono dietro. Sei sicuro che non ti ha visto nessuno mentre venivi a casa? I parenti di Annina ancora ti cercano e sono capaci anche di venire di notte… fai una cosa – Rosaria è un fiume in piena e, approfittando delle incertezze del marito, non gli dà nemmeno il tempo di parlare – stanotte vai a dormire sotto da tua madre, domani vedremo di appianare la cosa e di trovare un accordo tra di noi.
E così fanno. Ma Rosaria non si fida e, quando non è ancora l’alba se ne va da casa e si ripara nell’abitazione di sua sorella Graziella in Via della Neve. Solo verso sera, dopo un continuo viavai di mediatori, marito e moglie si incontrano.
– Senti Rosaria, scordiamo il passato, andiamocene a Milano e ricominciamo daccapo, vuoi? – Giovanni cambia tono e atteggiamento, forse ha meditato su questo strano menage e vuole ricominciare con la moglie.
– Sei Pazzo! Ormai il gioco delle coppie è finito e le carte sono sul tavolo: io non ti amo più, non ti voglio più da tempo e voglio andare a vivere con Alfredo, tu ti sei invaghito di quell’altra… portaci Annina a Milano e lasciami in pace una volta per tutte! Senti, io sono finanche disposta a vendere tutto ciò che abbiamo e lasciarti i soldi, purché tu te ne vada, Alfredo mi farà una casa più bella. Ci separiamo e chi s’è visto s’è visto, ognuno per la sua strada.
– Gli abiti… dammi gli abiti e il congedo militare, mi servono – le chiede, ormai sconfitto. Rosaria però vuole non solo la vittoria ma anche l’umiliazione di Giovanni. Prende una camicia da una cassa gliela tira in faccia.
– Questo è il tuo congedo! – gli dice con disprezzo – vattene!
Giovanni, umiliato, non può far altro che raccattare da terra la camicia e accettare di mettersi da parte. Chiama un falegname per far valutare la mobilia e nel frattempo manda una vicina di casa fidata a parlare con Annina per convincerla a seguirlo a Milano, ma la ragazza, che nel frattempo si è promessa in sposa al fratello di Giovanni, non ne vuole sentir parlare e rifiuta la proposta. È spiazzato. Carica sulle sue spalle quest’altra umiliante sconfitta. Adesso non ha più nessuno e nella sua mente c’è sempre la terribile, incombente minaccia che i familiari di Annina lo trovino e lo facciano secco. Adesso sa che la moglie deve seguirlo a ogni costo, non può più lasciarlo, non può stare da solo.
Il dieci dicembre manda i suoi due fratelli più piccoli a vedere se la moglie è insieme ad Alfredo in casa della cognata Graziella. No, compare Alfredo non c’è. Esce furtivamente dalla casa della madre, scende la scalinata che Piazzetta Toscano porta a Via della Neve e si affaccia sull’uscio della cognata.
– Dov’è Rosaria? – i suoi occhi sono stravolti, sembra un pazzo. Nella sua mano destra stringe qualcosa – dov’è che la voglio convincere…
In casa di Graziella, oltre a lei e a Rosaria c’è anche un’altra loro sorella, Rosa, la quale, non appena si accorge che l’oggetto in mano al cognato è un coltello, si mette a urlare:
– Scappa! Rosaria scappa che il cornuto ti vuole ammazzare! – Rosa e Graziella  si parano davanti a Giovanni mentre la moglie tenta la fuga da una finestra. Si accende una violenta colluttazione tra le due donne e Giovanni che cerca di farsi strada menando fendenti a destra e a manca. Rosa e Graziella, ferite, devono arrendersi e lasciarlo passare ma Rosaria è già in strada che urla per chiedere aiuto. Giovanni è una furia, esce di casa e si lancia all’inseguimento della moglie che inciampa e cade. Adesso che l’ha raggiunta le è sopra e comincia a colpirla col coltello alle spalle. Otto coltellate che le trapassano il collo, la colonna vertebrale, il polmone sinistro e, infine, il cuore.
Giovanni scappa e si nasconde per un paio di giorni, poi si costituisce in Questura.
– L’ho ammazzata perché mi sentivo l’anima avvelenata. Ho scoperto che mia moglie se la intendeva con don Alfredo la notte che tornai da Milano e subito dopo ho capito che mi disprezzava perché mi aveva lasciato anche senza vestiti e quando glieli ho chiesti mi ha buttato una camicia in faccia. Poi la sorella, invece di adoperarsi per farci fare pace mi ha chiamato cornuto e allora ho capito che dovevo ammazzarla…
Cominciano anche le schermaglie legali con accuse reciproche tra difesa e parte civile di voler deviare il corso delle indagini.
Da parte della famiglia della vittima si cercherà di travisare i fatti e fare apparire il Pellegrino, che è un onesto lavoratore, come uno di quei mariti che si adattano facilmente alle infedeltà coniugali e che anzi vi speculano sopra; onde l’uccisione della moglie appaia non l’esplosione di una follia di amore oltraggiato e di gelosia, sibbene la vendetta del marito che non può più continuare le sue indegne speculazioni coniugali, scrivono gli avvocati difensori Giovanni Caputo e Vito Goffredo.
E scrivono ciò perché molti testimoni, compresi i familiari della povera Rosaria, depongono che è incomprensibile come Giovanni possa dire di non sapere della relazione extraconiugale della moglie dal momento che spesso andava a chiamare don Alfredo in Prefettura per buttarlo nelle braccia della moglie e talune volte avevagli ceduto il suo posto nel letto coniugale. Altre volte la moglie scendeva dalla suocera per congiungersi col Valentini e la suocera e la cognata facevano la guardia per lasciarli liberi. I testimoni parlano anche dei rapporti illeciti tra Giovanni e Annina Gagliardi giurando che una volta se la godette nello stesso letto maritale mentre era coricato fra la moglie e la Gagliardi. E don Alfredo? Alfredo Valentini non si tira indietro e conferma i racconti fatti dagli altri. Anzi, aggiunge che spesso il Pellegrino bussò alle sue tasche e consegna ai giudici due lettere che Giovanni gli scrisse.
Ma ci sono altri testimoni che giurano esattamente il contrario: Giovanni non sapeva niente della tresca della moglie e non era vero nemmeno che avesse una relazione con Annina perché la ragazza era fidanzata con Tonino, il fratello maggiore di Giovanni. L’unico punto su cui tutti i testimoni sono d’accordo e che a favorire e sfruttare la relazione tra Rosaria e don Alfredo erano la madre e la sorella di Giovanni. Si parla anche di due lettere anonime indirizzate al padre di Annina e si sospetta che a scriverle fosse stata Rosaria per provocarne la reazione e allontanare il marito dalla città. Il padre di Annina, interrogato, nega di aver mai ricevuto lettere anonime, ma Annina lo smentisce e giura il contrario. Un vero e proprio guazzabuglio.
È passato un mese dall’omicidio e, senza che nessuno lo abbia richiesto, arriva in Tribunale, spedito dal Comando del Distretto Militare di Cosenza, l’attestato che Giovanni Pellegrino fu ricoverato, dal 19 luglio al 6 novembre 1917, nel Manicomio Militare di Torino dove fu dichiarato affetto da Psicosi periodica e quindi riformato.
Vengono sequestrate in casa di Giovanni molte lettere che lasciano intravvedere alcuni rapporti poco chiari, mediati da Alfredo Valentini, tra la famiglia di Giovanni e alcuni ufficiali del Regio Esercito e della Pubblica Sicurezza e altre nelle quali sono bene in evidenza la familiarità e la grande influenza che in quella famiglia ha don Alfredo Valentini.
L’avvocato di parte civile Tommaso Corigliano, preoccupato per l’inattesa notizia della Psicosi periodica di Giovanni e di questi rapporti, vuole vederci chiaro e accusa: Poiché a favore dello uxoricida Pellegrino Giovanni fu Michele si tenta il salvataggio o, meglio, si prepara il salvataggio futuro attraverso una pretesa infermità mentale, si chiede che lo stesso sia sottoposto a regolare perizia psichiatrica. Alla presente richiesta non possono essere di ostacolo eventuali giudizi dell’Autorità Sanitaria Militare, la quale – come è risaputo – rimane spesso vittima delle audaci simulazioni di soggetti scaltri e criminali, quale è il Pellegrino.
Il Pubblico ministero la pensa come l’avvocato Corigliano e fa sua la richiesta di perizia psichiatrica. Il 18 giugno 1923, Giovanni entra nel Manicomio Giudiziario di Aversa e ci resta in osservazione per un anno, il tempo che occorre ai periti per studiarne la psiche.

Dopo la lunga analisi, i periti si convincono che fu nell’atto della camicia sbattutagli in faccia da Rosaria invece di dargli il congedo militare che “v’è tutta l’imprudenza, la crudeltà e l’estremismo di cui è capace l’animo femminile quando è preso nelle spire dell’istituto sessuale; ed imprudenza, crudeltà ed estremismo non potevano non trovarsi in un altro potente fattore criminogeno che veniva ad assommarsi ai tanti altri precedenti nell’animo dell’altro protagonista della tragedia, in cui ribolliva la fierezza e l’orgoglio del maschio troppo a lungo compresso; e ribolliva in un maschio che della mascolinità possedeva note di alto potenziale dinamico, reso più forte dai noti elementi etnici dell’anima calabrese e dai più noti elementi biologici personali di nevrotico sopravvissuto ad una psicosi. (…) Se l’atto del Pellegrino dovesse esclusivamente commisurarsi alla stregua dei motivi che lo determinarono, non si potrebbe esitare a riconoscervi i connotati dell’imputabilità. Commisurato, invece, alla stregua delle condizioni subiettive dell’imputato, obbliga a porre nella bilancia della medicina legale quell’elemento fatale che attraverso l’eredità, la imperfetta costituzione somato-funzionale e attraverso il corrispettivo psicopatologico, incombe sullo spirito di lui come un deficit di sviluppo, che lo pone in una condizione di inferiorità nei marosi della vita. Come già prima le fatiche di guerra ne infransero la salute mentale, poscia le anomalie della vita coniugale ne svelarono ancora una volta la debolezza. Una debolezza, non una insufficienza, un’anomalia, non una malattia, un’infermità nel senso letterale classico della parola, quella che il legislatore ebbe di mira subito dopo il concetto integrale della malattia, formando l’articolo 47 del C.P. che ipotizza precisamente quegli stati intermedi tra la normalità e la infermità piena, che abbracciano le più svariate forme di inferiorità mentale. È l’ipotesi che concilia nello stato attuale della legislazione penale le esigenze della scienza con quelle della giustizia, quantunque non sempre si adatti alla difesa sociale contro i soggetti pericolosi o inadattibili al civile consorzio. L’applicazione per altro nel caso presente è scevra anche di questo pratico inconveniente, perché l’anomalia del Pellegrino, da cui noi deducemmo l’applicabilità dell’art. 47, non è di quelle che si traducono per forza propria in atti antisociali, ma di quelle che han bisogno del concorso efficacissimo dei fattori esterni, senza dei quali rimangono come forze inerti dello spirito. È la condizione generale dei passionali a fondo nevropatico che senza la passione non delinquono, in quanto le loro anomalie non sono specificamente orientate verso il delitto. E ciò conforta e tranquillizza vieppiù la coscienza dei periti.

Quindi è colpa di Rosaria se il marito l’ha ammazzata accoltellandola alle spalle.
Il dottor Filippo Saporito e il dottor Eugenio La Pegna concludono la perizia attestando che Giovanni Pellegrino non ha simulato follia, che durante il servizio militare ebbe veramente un attacco di psicosi acuta per la sua costituzione nevropatica congenita, che nell’atto del commesso reato egli, sebbene guarito della psicopatia sofferta, conservava integro il suo temperamento nevropatico che fece di lui un delinquente passionale in concorso di anormali situazioni della vita coniugale” e che per tutto questo, nell’atto di uccidere la moglie si trovava in uno stato tale di infermità di mente da “scemare grandemente l’imputabilità senza escluderla.
La Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro, studiato il caso, decide, invece, che Giovanni è pienamente giudicabile e deve essere processato per uxoricidio.
A questo punto Giovanni dovrebbe lasciare il manicomio giudiziario di Aversa per essere trasferito nel carcere di Cosenza in attesa del dibattimento ma, il 4 agosto 1924, il dottor Saporito, direttore del manicomio, scrive al giudice del mandamento di Aversa per trattenerlo nel suo istituto:
Restituisco alla S.V. Ill/ma la lettera dell’Ill/mo Signor Giudice istruttore di Cosenza, pregandoLa di comunicargli che il Pellegrino è un abilissimo muratore occupato, con gran vantaggio dell’Amm/ne, nei lavori murarii in corso d’esecuzione per lo ampliamento e la sistemazione di quest’importante Istituto e che, perciò, questa Direzione sarebbe del subordinato avviso di trattenerlo in questo Manicomio fino a una ventina di giorni prima del dibattimento, epoca in cui egli verrebbe tradotto straordinariamente alle carceri di Cosenza.
Per quanto sopra ho esposto e per evitare una lunga sosta al Pellegrino nelle Carceri della sua città, con relativo ozio pernicioso alle sue condizioni morali, confido nell’accoglimento della presente proposta.
Evidentemente non si aspettava che Giovanni venisse rinviato a giudizio!
Pellegrino ad Aversa ci resta altri cinque mesi buoni, poi il 27 febbraio 1925 comincia il dibattimento che dura quattro giorni e la giuria popolare, su proposta del Pubblico Ministero, mette d’accordo tutti o quasi tutti e, senza applicare il famoso articolo 47 del Codice Penale (“Quando lo stato di mente indicato nell’articolo precedente era tale da scemare grandemente l’imputabilità senza escluderla, la pena stabilita per il reato commesso è diminuita…”), lo manda assolto.
Giovanni farà il muratore dove più gli garberà e il dottor Saporito dovrà cercarsi un altro muratore altrettanto valido.
Dimenticavo di raccontarvi che Annina Gagliardi e Tonino Pellegrino nel frattempo sono diventati marito e moglie.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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