LA DONNA SGOZZATA

– Mariè… Marietta! – a chiamare ad alta voce Marietta Biafora, contadina di trent’anni da Pietrafitta, ma maritata a Turzano, è sua suocera, Maria Spadafora, contadina di sessantacinque anni.
– Che c’è?
– Sto andando al pagliaio, la fai venire ad Angelina che mi aiuta a prendere la biada per l’asino?
– Ancora non è tornata, non so dov’è andata… anzi, adesso è quasi buio e comincio a preoccuparmi – le risponde la nuora. Marietta ha tre figli piccoli, Angelina di dieci anni, Antonietta di sei e Pasquale di tre, che cresce da sola perché il marito è emigrato Allamerica da un paio di anni. Con la suocera i rapporti sono buoni ma si frequentano poco anche perché l’anziana è una persona schiva che bada solo a lavorare il piccolo pezzo di terra che le da di che vivere da quando è rimasta vedova.
– Va bene, non ti preoccupare. Ah! Vedi che domani mattina vado al mulino della Massa a far macinare un po’ di grano… buonanotte – la tranquillizza Maria che, tenendo un sacco vuoto in mano, prosegue il suo cammino verso il pagliaio non distante dall’abitato di Turzano.
È l’imbrunire del 13 dicembre 1915.
– Angelì – Marietta sveglia la figlia di buon’ora il mattino successivo – alzati e vai a dire a tua nonna se per favore, visto che va al mulino, mi fa macinare un po’ di miglio.
– Ci posso andare pure io? – le fa la bambina scattando giù dal letto.
– Si, ma sbrigati se no tua nonna parte con l’asino.
Angelina con quattro salti arriva a casa della nonna e la chiama. La chiama parecchie volte ma non ottiene risposta. Bussa anche alla porta ma non risponde nessuno. Nota, però, che una finestra è spalancata. Delusa, torna a casa e dice alla mamma che la nonna non c’è, che l’ha chiamata ma non ha risposto e le dice anche della finestra spalancata.
– Sarà andata a sbrigare qualcosa in giro prima di partire – osserva Marietta – adesso vado a vedere a casa del prete se è là…
A casa di don Angelo Bonofiglio però non c’è e né lui, né le sue tre sorelle nubili l’hanno vista o sanno dove può essere andata. Non sa niente nemmeno l’altra nuora dell’anziana e niente sanno i vicini di casa. Certamente deve esserle accaduta qualcosa di brutto. Chi può si mette a cercarla in campagna, ma sembra essere svanita nel nulla. Altri prendono una scala ed entrano, attraverso la finestra spalancata, nella casa dell’anziana. Non è nemmeno lì e la casa è in perfetto ordine.
– Non è che noi ci stiamo preoccupando e Maria invece è a casa della figlia a Sant’Ippolito? – ipotizza qualcuno. Così alcune persone vanno al paese vicino per vedere se l’anziana sia dalla figlia Maddalena. Nel frattempo si sparge la voce che Maria quella mattina è stata vista in paese e quindi tutti danno per scontato che sia andata a Cosenza prima del necessario per sbrigare chissà quale altra incombenza e il paese torna ad essere tranquillo.
Le ore però passano senza che Maria si faccia viva e le preoccupazioni che possa esserle accaduta qualcosa tornano. Poi scende la sera e non succede ancora niente. E non succede ancora niente la mattina del 15 dicembre, così le ricerche della donna ricominciano in grande stile. Marietta e altri vanno di nuovo nell’orto della donna scomparsa ma se non l’avevano trovata lì il giorno prima, è ovvio che non la trovano nemmeno adesso.
– Ma nel pagliaio ha controllato qualcuno? – chiede Marietta ottenendo solo risposte negative. L’attenzione si concentra sulla piccola costruzione fatta di assi di legno e canne, ma la porta, mezza sgangherata, è chiusa a chiave. È chiaro che non può essere lì, ma Marietta insiste e insiste affinché si controlli l’interno. Provano a togliere qualche tegola dal tetto ma non si riesce a vedere bene l’interno buio. Un paesano schioda una tavola e gli sembra di vedere qualcosa di strano in mezzo alla paglia. Mentre si accende la discussione su come fare per entrare senza fare troppi danni, sopraggiunge Maddalena, la figlia, la quale con un’imprecazione si lancia contro la porta e l’abbatte con una tremenda spallata.
La luce del giorno illumina l’interno del pagliaio, quasi del tutto pieno di fieno per l’asino e di tralci secchi di vite. Distesa per terra e semicoperta dalla paglia, c’è Maria con la gola orrendamente squarciata da un orecchio all’altro e il taglio è così profondo da far intravedere le vertebre cervicali. In testa ha ancora il suo fazzoletto grigio annodato sotto il mento, gli occhi e la bocca sono spalancati a dimostrare sorpresa per ciò che stava per accaderle.
La voce si diffonde in pochi minuti e il parroco si prende la briga di correre in città dal Procuratore del re per denunciare il delitto. Prontamente arrivano in paese squadre di carabinieri e agenti di pubblica sicurezza che cominciano a indagare. Vengono notate subito alcune stranezze: la vittima ha ancora addosso un paio di orecchini d’oro e appesi al collo ci sono delle chiavi e un sacchetto con diciassette lire. Non sembra affatto un tentativo di rapina finito male.
Prove non ne raccolgono, ma ricevono molte confidenze che raccontano di cattivi rapporti tra Marietta e la suocera e di una presunta relazione tra Marietta e un certo Vincenzo Pucci il quale farebbe parte di una congrega di malavitosi operante in paese. Qualcun altro dice che Marietta non disprezzasse nemmeno l’interesse verso di lei di un altro paio di malavitosi, Vincenzo Bonofiglio e Giovanni Lopez. Carabinieri e poliziotti, inoltre, trovano molto sospetta la circostanza che sia stata proprio Marietta a insistere per andare a controllare nel pagliaio “per evitare che poi la troviamo mangiata dai vermi”. Vengono perquisite le abitazioni dei sospetti e gli agenti sequestrano in casa della donna un coltellaccio da cucina che presenterebbe delle macchie di sangue, una sottoveste lavata di fresco con delle macchie sospette e una busta con dentro ottocentodieci lire, mentre sulla sua mano destra ci sono evidenti graffiature; in casa di Vincenzo Bonofiglio trovano trecento lire di cui non sa prontamente giustificare la provenienza; in casa di Pucci sequestrano un vecchio rasoio arrugginito. In casa di Lopez invece non trovano niente, ma arrestano anche i suoi due fratelli Ernesto e Angelo. Nello stesso tempo, da una verifica fatta in casa della vittima con la figlia, dove tutto sembra essere in ordine, viene stabilito che mancano da una cassapanca più di mille lire. Certamente deve averle prese qualcuno che conosceva bene la povera Maria perché quella cassa era chiusa a chiave e la chiave era custodita in un’altra cassa, la cui chiave era ancora appesa al collo della vittima.
Così procedono al fermo della donna e dei cinque uomini e li portano in Questura.
Marietta è esterrefatta per l’accusa che le viene mossa e si dichiara innocente. Non è vero che i suoi rapporti con la suocera fossero cattivi, tutt’altro, ma soprattutto non è vero che avesse accettato la corte dei tre e men che meno che avesse avuto una relazione con Vincenzo Pucci.
Anche Ernesto Lopez  si dichiara estraneo e lancia un terribile sospetto su Vincenzo Pucci:
– Quando carabinieri e poliziotti hanno cominciato a girare per il paese, Pucci mi ha chiesto di scambiarci le scarpe “se mi prendono con queste scarpe sono rovinato” ha detto e poi ha aggiunto che nelle scarpe aveva nascosto qualcosa di compromettente.
Gli investigatori chiamano Pucci e gli fanno togliere le scarpe: notano che una delle due è stata ricucita da pochissimo tempo.
– Sono calzolaio… era rotta e l’ho riparata – si giustifica.
Non gli credono. Scuciono la scarpa e ci trovano ben nascoste ottocentosettantacinque lire.
– E queste?
– Ho spacciato delle banconote false… quello è il ricavato – risponde imbarazzato.
– Questa è la tua parte del denaro della vecchia! – gli urla il Procuratore sventolandogli in faccia le banconote – per ora portatelo via…
Pucci ci ripensa e il mattino dopo chiede di essere interrogato:
– Avevo una relazione con Marietta Biafora la quale più volte mi propose di uccidere la suocera promettendomi come ricompensa il denaro che la vecchia teneva in casa. La stessa proposta la fece a Ernesto Lopez in mia presenza. La sera del 13 dicembre, io ed Ernesto Lopez passavamo davanti la casa di Marietta e lei mi chiamò dicendomi sottovoce: “possiamo approfittare dell’occasione, dato che mia suocera è andata al pagliaio”. Io le risposi che poteva cominciare ad andare perché io e Lopez l’avremmo raggiunta facendo un’altra strada, cioè quella che passa attraverso i terreni dell’onorevole Nicola Spada. Io e Lopez arrivammo prima di Marietta e l’aspettammo. Quando arrivò, tutti e tre ci avvicinammo al pagliaio mentre la vecchia ci dava le spalle perché stava richiudendo la porta per andarsene. Mi lanciai addosso alla donna e la spinsi dentro afferrandola per la gola, mentre Lopez la imbavagliò per evitare che gridasse. La vecchia cadde per terra e deve avermi riconosciuto perché mi disse: “ti cerco il Sangiovanni, lasciami stare che non ti faccio patire niente”. A quelle parole io e Lopez lasciammo la vecchia e stavamo per andarcene, pentiti di quello che stavamo per fare, ma all’improvviso Marietta, che era rimasta dietro di noi, si lanciò sulla suocera con un grosso coltello e la colpì alla gola e il sangue cominciò a inondare tutto e io e Lopez uscimmo inorriditi. “Dove sono le chiavi della vecchia?” chiesi a Marietta quando fummo fuori e lei mi rispose “stai tranquillo, penso a tutto io che conosco ogni cosa”. Io e Lopez tornammo in paese dalla stessa strada mentre Marietta uscì e, richiusa a chiave la porta del pagliaio, tornò per la strada che aveva già fatto. Arrivati alla fontana del paese io e Lopez ci dividemmo e tornai a casa entrando dalla parte di dietro per non essere visto. La mattina dopo, verso le sette, andai a casa di Marietta che mi diede un fascio di banconote che avrei dovuto dividere con Ernesto Lopez. Solo la sera ci incontrammo io ed Ernesto e gli offersi la metà dei soldi che ancora non avevo contato. Lui rifiutò e stabilimmo che li avrei conservati cucendoli nelle scarpe. Così sono andate le cose.
– Che fine ha fatto il fazzoletto col quale Lopez aveva imbavagliato la donna? E come era il coltello? Perché non sei andato quella sera stessa a casa di Marietta? E perché non hai contato i soldi? – il giudice lo tempesta di domande perché molte cose non sono chiare e Pucci, da parte sua, non sa dare risposte convincenti. Ma la domanda principale che il giudice dimentica di fare sarebbe stata: come fece Maria Spadafora a chiedere di essere risparmiata se, come afferma Pucci, era imbavagliata?
L’autopsia mette in evidenza come sia sui polsi che sulla gola della vittima ci sono segni di forti pressioni esercitate con le mani prima dello sgozzamento ed è estremamente probabile che a trattenere la donna debbano essere state due persone. Il caso sembra chiuso: ci sono dei sospettati e c’è una confessione, questo basta. Che Marietta ed Ernesto Lopez cerchino, con fatti concreti, di dimostrare la propria estraneità al delitto non serve.
Ma il caso non è affatto chiuso. L’avvocato Tommaso Corigliano inizia una vera e propria battaglia per dimostrare l’innocenza di Marietta, seppure ostacolato dal nuovo Codice di Procedura Penale che inibisce ai difensori degli imputati di avere accesso a quasi tutti gli atti di indagine. Dimostra come sia infondato il sospetto dei cattivi rapporti tra suocera e nuora e dimostra che Marietta non aveva bisogno dei risparmi della suocera perché vive in una condizione di relativa agiatezza con i soldi che il marito le manda dall’America e che è stata tanto oculata nella gestione di quei soldi da avere accumulato un patrimonio di circa ventimila lire, compresa la casa dove abita, vendutale dall’onorevole Nicola Spada.
Poi arriva una lettera anonima che denuncia l’esistenza della società della mala vita il cui capo di società è indicato proprio in Vincenzo Pucci e che camorristi sono Vincenzo Bonofiglio (la sua personalità criminale è tratteggiata in una lettera spedita da Detroit, dove Bonofiglio era emigrato. nda), Giovanni ed Ernesto Lopez, mentre Francesco Ferro, Salvatore De Luca, Ippolito Coscarella, Pasquale Caterina, Gaetano Rendace, Vincenzo Muoio e Eduardo Tommasini sono picciotti. L’ignoto afferma anche che si tengono regolari lezioni di scherma col coltello dietro al cimitero e che le riunioni per pianificare i colpi avvengono nel sotterraneo della cantina di Giuseppe Bonofiglio. Fa anche un lungo elenco di furti ed estorsioni messe a segno dalla banda e mai denunciati ma la lettera non ha nessun seguito perché per la Procura del re di Cosenza non è più il tempo, ormai da parecchi anni, di fare indagini per scoprire l’esistenza di associazioni per delinquere.
Nonostante nemmeno sugli altri tre indagati sembrino esserci indizi sufficienti a giustificarne la detenzione, restano tutti in carcere. E si ha l’impressione che tutti gli imputati restino in carcere per delle incomprensioni tra il Giudice Istruttore e i vertici della Questura, che per mesi si scambiano lettere su chi e come debba svolgere le indagini, finché la situazione non viene presa in mano dal vicecommissario Francesco Cilento, appena trasferito in città. Tra mille difficoltà e reticenze, Cilento raccoglie la confidenza di una certa Teresa Caterini che dice di aver visto sul luogo del delitto, e proprio quella sera,  Vincenzo Pucci, Vincenzo Bonofiglio e Giovanni Lopez e di essere stata minacciata dai parenti di Bonofiglio perché si facesse i fatti suoi. Ma Cilento non può verificare la confidenza per la brevità del mandato ricevuto e la confidenza resta solo una voce tra le tante. Sembra però certo che non ci sia mai stata una relazione tra Marietta e Pucci.
Intanto, la perizia fatta sul coltello sequestrato a Marietta la scagiona: quelle che sembravano macchie di sangue altro non sono che segni di ruggine. E anche la testimonianza di Teresa Caterini, nel frattempo interrogata, è categorica:
– Vidi Vicenzinu ‘u scarparu che girava dalla parte destra del pagliaio e all’angolo di sinistra, fermi e accovacciati, Vincenzino Bonofiglio e Giovanni Lopez.
Finalmente, il 23 settembre 1916, la Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro emette la sentenza di rinvio a giudizio e finalmente Marietta può esultare: lei, Ernesto e Angelo Lopez  sono dichiarati estranei ai fatti e prosciolti. A giudizio vengono rinviati Vincenzo Pucci, Vincenzo Bonofiglio e Giovanni Lopez.
In carcere Pucci comincia a dare di testa, tanto che il medico, dopo averlo tenuto in osservazione, scrive al Procuratore del re che il detenuto mangia pochissimo, ha frequenti dolori di testa e commette delle stranezze. Nonostante nutra dei dubbi sul comportamento del detenuto, è altamente probabile che quelli riscontrati sono sintomi di malattia mentale e quindi sarebbe opportuno ricoverarlo in manicomio per farlo curare. A supportare questa tesi ci sono due rapporti del capo delle guardie il quale denuncia che Pucci “ha commesso violenze contro degli altri e contro se stesso. È pericoloso per sé e per gli altri e per l’ordine dello Stabilimento”. Così viene disposto il ricovero di Vincenzo in manicomio e il 13 aprile 1917 entra in quello di Montelupo dove, pian piano, sembra ristabilirsi al punto che gli specialisti lo dichiarano in condizioni di poter presenziare al dibattimento perché “in pieno possesso delle proprie forze di ragione”.
Il processo può finalmente iniziare ma, nella prima udienza, il 19 febbraio 1919 i difensori di Pucci, vista la relazione del manicomio di Montelupo nella quale si fa riferimento alla pazzia di alcuni parenti dell’imputato, chiedono che Pucci sia sottoposto a perizia psichiatrica. La Corte accoglie la richiesta e Vincenzo, il 27 maggio 1919, varca la soglia del manicomio giudiziario di Aversa. Qui, gli specialisti hanno subito l’impressione che il suo comportamento da smemorato altro non sia se non un espediente difensivo e non riscontrano alcun aspetto tipico del malato di mente, ma Pucci non cede alle continue richieste dei medici di parlare dell’orrendo crimine di cui è accusato e i medici lo lasciano cuocere a fuoco lento nel suo stesso brodo. La tattica funziona e, come per incanto, “stanco di essere ancora rinchiuso nel Manicomio”, il 22 settembre successivo, Vincenzo Pucci si decide a parlare e cambia versione dei fatti:
– Io ero un onesto lavoratore di Torzano, dove mi ero stabilito con mia moglie, ma da quando per mia mala ventura conobbi Vincenzo Bonofiglio, ritornato dall’America, ho cominciato, per l’influenza che aveva su di me, a trascurare il lavoro, ma ho sempre rifiutato di seguirlo per compiere reati, fino al 13 dicembre 1915. Quel pomeriggio avevo bevuto con Eduardo Tommasini quando Bonofiglio ci propose di rapinare la vecchia. “Andiamo a prendere la vecchia che proprio adesso è andata con un sacco al suo pagliaio” ci disse. Annebbiati dal vino, io e Tommasini accettammo e lo seguimmo. Io entrai per primo e la presi per il petto e lei, spaventata, disse: “Che vi ho fatto?”. Io, per spingerla verso la paglia, inciampai e caddi per terra e quando mi rialzai fui tirato fuori dal pagliaio da Bonofiglio e da Tommasini e ci dirigemmo verso una vasca piena d’acqua dove Bonofiglio lavò un piccolo coltello macchiato di sangue e poi si lavò le mani. Anche io e Tommasini ci lavammo e tornammo in paese. L’indomani Bonofiglio mi chiamò e mi diede del denaro e mi disse di nasconderlo nelle scarpe. Dopo due o tre giorni ho saputo che la vecchia era morta, poi sono venuti i carabinieri e mi hanno arrestato… Marietta Biafora è innocente ed è una donna onestissima…
A noi perciò non resta che presentarlo alla Giustizia come sano di mente sia al presente che all’epoca del presente delitto” scrivono i periti a conclusione del loro lavoro.
Eduardo Tommasini, nella breve istruttoria a suo carico riesce a dimostrare la sua estraneità ai fatti e questo peserà moltissimo sull’esito del processo.
Sebbene sia chiaro a tutti che ad uccidere la povera Maria Spadafora debbano per forza essere state almeno due persone, è altrettanto vero che le continue, false, chiamate in correità fatte da Pucci rendono non credibile nemmeno l’ultima versione che ha offerto sulla dinamica dell’orrendo sgozzamento. Una sola cosa è certa: la presenza di Vincenzo Pucci sulla scena del crimine per sua stessa ammissione. Poi ci sono i soldi nascosti nelle scarpe e le continue bugie per alleggerire la sua posizione. Gli avvocati di Vincenzo Bonofiglio e Giovanni Lopez hanno così buon gioco a smontare le accuse mosse nei confronti dei loro assistiti e a pagare sarà solo Pucci, condannato a trent’anni di reclusione, pena confermata in tutti i gradi di giudizio.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

Lascia il primo commento

Lascia un commento