IL LUPO E L’AGNELLO

Corso Mazzini, con i suoi negozi tutti nuovi, è ormai il cuore pulsante della città. Il 1939 sta per finire e gli echi della guerra sono ancora lontani. La gente, di domenica mattina, ama fare lo struscio sul Corso con gli abiti buoni.
Un uomo, ha una sessantina di anni, passeggia nervosamente avanti e indietro, scrutando in lontananza le sagome davanti a lui. “Più o meno questo è l’orario… da un momento all’altro arriveranno e mi dovranno stare a sentire… Oh! Dovranno proprio starmi a sentire!” mormora tra sé e sé. Poi, ad un tratto, gli occhi  gli si illuminano. Ha intravisto, a qualche decina di metri da lui, la sagoma del figlio Franco e della nuora Angela che passeggiano sottobraccio. Gli danno le spalle e, di certo, non lo hanno notato. L’uomo affretta il passo e, quando è a una decina di metri dal figlio e dalla nuora li chiama:
– Franco! Franco! Angela! Aspettatemi che vi debbo parlare!
I due si voltano e lo vedono mentre agita le braccia in segno di saluto. Sul suo viso non c’è traccia di risentimento. Ma loro due ne hanno da vendere, di risentimento. È la nuora a cominciare a tempestarlo di insulti, seguita a ruota dal figlio:
– Merda! Vattene!
– Stronzo, che mi parli a fare? Vaffanculo!
– Ma… io… io voglio chiarire, state tranquilli… – fa appena in tempo a dire che il figlio, raccattato un sasso dalla strada, glielo lancia contro. Poi un altro e un altro ancora, accompagnati da tremende bestemmie. L’anziano cerca di ripararsi alla meglio tenendo le braccia davanti al viso, ma non riesce a evitare una sassata che lo colpisce in piena fronte, e lo fa cadere per terra sanguinante.
È quello che Angela forse stava aspettando. È una furia scatenata. Gli si lancia addosso tempestandolo di pugni, schiaffi e insulti. L’uomo cerca anche questa volta di ripararsi coprendosi il viso con le mani, ma un calcio in un fianco, sferratogli dal figlio, gli toglie il respiro e si abbandona inerme. La nuora gli è sopra a cavalcioni e gli pianta le unghie sulle guance lasciandogli otto solchi sanguinanti. Poi raccatta una pietra e fa per colpirlo, ma viene fermata appena in tempo da un altro figlio dell’uomo, Carmine, che strattona lei e il proprio fratello, intimando loro di andarsene immediatamente, non prima, però di beccarsi un morso dalla nuora che per poco non gli stacca un dito. Ferito, finalmente può prendersi cura del padre.
L’anziano, altri non è che Stanislao De Luca, un tempo temuto capo della malavita cittadina, ma poi uscito dal giro.
La sua storia di sanguinario delinquente cambiò repentinamente non appena varcata la soglia del carcere fiorentino delle Murate, nel lontano 1903. E merita di essere raccontata, anche attraverso le sue parole. Così scriveva, il 25 marzo 1909, al  Prefetto di Cosenza per ottenere la revoca della sorveglianza speciale: (…) Figlio di una delle più distinte famiglie Cosentine e per il sommo affetto dei miei, avvicinando malsani compagni, comparsi sullo scanno dei rei e da lì giù in catorbia per 7 anni e 3 di vigilanza speciale. Entrato in quella culla di affanni, di pianti e d’altri guai, conobbi l’immensità della mia sciagura e, svelto un falso principio, repentinamente mi diedi a tutt’uomo per la mia riabilitazione (…) e sopraffacendo e sprezzando con abnegazione esemplare le mollezze con cui crebbi, mi diedi al lavoro con tanta tenacia e propositi d’apprendere una delle arti moderne e da conseguirne il diploma (di Aggiustatore meccanico, nda). La mia esemplare condotta al Reclusorio, l’assiduità al lavoro, l’obbedienza ed il rispetto sommo ai miei superiori, il mio ravvedimento completo sono stati elementi da essere proposto dal Consiglio di disciplina di Firenze per la Grazia Sovrana ed il nostro beneamato che plaudendo all’atto giusto e pietoso de quegl’Illustri Componenti mi Graziò con Decreto Reale. Giunto al mio tugurio ed in braccio ai miei cari ho dato apertura a due locali siti in Via Martirano N. 30=33 per officina Meccanica uno, pel laboratorio Fabbro l’altro (…)”.
Stano, non più Don e non più benestante – il padre, prima di morire ha dilapidato tutto il patrimonio in avvocati – esce dalle Murate il 6 settembre 1908, con un paio di anni di anticipo rispetto al previsto, e va a vivere in una modesta abitazione in via Martirano 44 con la moglie, i tre figli (ne avrà altri sei), la madre Filomena Ortale, insegnante, e uno zio prete. Con il loro aiuto economico  riesce a intraprendere una nuova vita nella quale non avrà più le mani bianche e curate bensì i calli. Stano, però, capisce subito che la sua attività professionale non avrà un futuro per le limitazioni impostegli dalla sorveglianza speciale e lotta strenuamente per ottenere la piena libertà, che otterrà il 26 aprile 1910 con un anno di anticipo.
Gli anni passano e gli affari vanno bene. Stano, che gira quasi tutta la Calabria a riparare orologi da campanile, nel 1922 apre anche un’oreficeria/orologeria in via Sertorio Quattromani. All’avvento del fascismo non è tra i primi a prendere la tessera. Lo farà il 12 aprile 1925, quando gli consegnano la tessera N 1343138 e si distingue subito per il contributo di cento lire, versato per la costruzione della Torre Mussoliniana di Milano. Non solo. Nel 1927 fa fabbricare un orologio Alpina, sulla cui cassa fa incidere un fascio littorio nero, per regalarlo a Michele Bianchi.
Prima di tutto ciò, nel 1924, Stano subisce un furto di orologi ad opera di un suo lavorante, Ippolito Montaldista, alias Valentini, per il valore di settemila lire che lo fa traballare. Poi si ammala, passa lunghi mesi ricoverato in una clinica romana e spende tutto quello che ha per curarsi, accumulando anche altre diecimila lire di debiti. È il colpo di grazia. Non ha più liquidità e non riesce a pagare i fornitori. Viene dichiarato fallito nel 1931 ma, a
fatica, riapre la gioielleria a nome del figlio Franco e si riprende. Nel 1938, rimasto vedovo, si trasferisce con Franco e la moglie, Angela Tomo, della quale in città si dice sia una poco di buono, ma Stano, che a suo tempo aveva dovuto subire le stesse voci su sua moglie Giuseppina Cinelli (il 14 febbraio 1898, durante il carnevale, vibrò una coltellata a tale Pietro Tallarico, a suo dire colpevole di avere sfottuto la fidanzata), non fa una piega.

Sorgono presto seri problemi. Franco non accetta più che il padre si occupi della gioielleria e le liti sono quotidiane. L’8 novembre 1939, Stano va via dalla casa del figlio.
Franco e Angela non sono ancora soddisfatti e mettono in giro strane voci sul suo conto, accusandolo anche di aver tentato di stuprare la nuora. Ma, anche se avesse voluto, Stano non avrebbe potuto perché gli interventi chirurgici a cui fu sottoposto durante la malattia lo hanno reso impotente.
È per questo motivo che Stano ha cercato un chiarimento col figlio e la nuora. Sembra però che non sia il tempo dei chiarimenti, ma quello delle querele e controquerele. Ci vorranno parecchi mesi perché la ragione torni a prevalere e le cose si aggiustino tra padre e figlio.
I guai, però, non sono affatto finiti. Stano entra in contrasto con l’avvocato Giuseppe Campagna,  pezzo grosso della federazione fascista, per avere citato in giudizio il padre di questi che gli era debitore di centottanta lire e deve subire ritorsioni di ogni tipo dalla federazione stessa.
Lo accusano anche di giocare d’azzardo nei locali del Partito e, riprendendo vecchie voci, di avere tentato di stuprare la nuora. Viene convocato in Questura e si becca, per cominciare, una diffida. Ma il vecchio leone è pronto a vendere cara la pelle e scrive a destra e a manca, riuscendo alla fine a salvare la faccia.
È la nemesi storica che si abbatte su di lui. Lui che aveva aggredito a colpi di pistola il padre ed era stato perdonato. Lui aggredito dal figlio che ha perdonato. Lui che ha sfregiato il viso di tante persone e che ora ha il viso sfregiato.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali. La storia completa delle malefatte di Stano De Luca è contenuta nel mio “Guagliuni i mala vita”, Pellegrini editore 2012, nda.

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