I DELITTI DI VIA PADOLISI – 1^ parte

Compà Petrù, tu cca si? Quannu si esciutu? – fa Michele Gencarelli a Pietro Fera quando, il 29 agosto 1944, lo vede sulla porta di casa a Via Padolisi 1 .
Michelù, stamatina è finita finalmente! Trasa ca ni vivimu nu bicchiere ‘i vinu! – lo invita l’amico per festeggiare l’uscita dal carcere dove ha scontato una breve condanna.
Pietro Fera, nato a Biserta il 29 settembre 1911 è pluripregiudicato per reati contro il patrimonio. È sposato ma vive separato dalla moglie ed è l’amante di Franceschina Bruno, che di anni ne ha trentacinque. I due hanno cominciato la loro relazione da un anno e convivono nella casa di lei a Via Padolisi. Con loro convive anche Luigi Camposano, fratello uterino di Franceschina, che è nato nel carcere di Reggio Calabria diciannove anni prima, dove la madre stava scontando una condanna per omicidio.
In casa a festeggiare ci sono anche un’altra donna, la venticinquenne Angelina De Cicco e un altro amico di Pietro Fera, Francesco Guarno.
Gli amici si divertono a cantare e ballare ma quando a qualcuno viene l’idea di giocare a padrone e sotto, Michele Gencarelli si scusa dicendo di non poter partecipare perché non ha soldi.
E mò ruvini ‘a cumpagnia? Te li presto io – gli fa Guarno    mettendo i dodici centesimi della parte che spetta a Michele per comprare del vino.
Gli amici si divertono e il vino finisce. A questo punto, per evitare storie, Franceschina prende la sua borsa e tira fuori una banconota da 500 lire, poi si affaccia dalla finestra e chiama una ragazzina che tutti considerano una mezza scema, le da i soldi e le dice di andare a prendere altri due litri di vino alla cantina di Enrico Perrelli, che è proprio di fronte a loro. La ragazza torna col vino e dice a Franceschina che il resto glielo porterà direttamente il cantiniere. E così è. Perrelli, non fidandosi della ragazza, le porta 452 lire di resto. Franceschina mette i soldi nella borsa, la posa sul letto che è nella stessa stanza dove si trovano tutti e torna a divertirsi con i suoi ospiti.
Dopo un po’, Pietro Fera e la sua donna escono a parlare davanti alla porta di casa, Francesco Guarno se ne va e gli altri restano dentro. Luigi Camposano balla con Angelina mentre Michele Gencarelli se ne sta seduto al tavolo scolando l’ultimo bicchiere, poi saluta e se ne va mentre i due amanti rientrano. Passano pochi minuti e le due coppie decidono di uscire a fare una passeggiata. Franceschina apre la borsa per prendere dei soldi coi quali comprare dei gelati ma ha una amara sorpresa: le 452 lire sono sparite!
I sospetti cadono subito su Michele Gencarelli e i quattro si precipitano fuori per andarlo a cercare. Non devono fare molta strada perché lo intravedono seduto a un tavolo nella cantina di Perrelli che sta bevendo vino e mangiando pane e prosciutto con un suo amico.
Sì propriu ‘nu mmerda! – gli fa Pietro Fera puntandogli l’indice contro – dammi i soldi che hai rubato a Franceschina!
– Quale soldi? – risponde Michele.
– Quello che hai nel taschino della camicia – lo accusa Franceschina indicando le banconote che spuntano dal taschino mentre, con una mossa fulminea le prende.
– Ridammi i soldi! Io non ho rubato proprio niente, sono passato da uno che mi doveva pagare delle ceste che gli ho fatto…
– Queste sono duecentocinquanta lire – gli fa sventolandogli le banconote sotto il naso – ne mancano duecentodue!
Michele capisce dagli sguardi pieni di odio di Pietro Fera e di Luigi Camposano che le cose si stanno mettendo male per lui e, con uno scatto felino, si da alla fuga.
I due lo inseguono lungo le scale di Vico Secondo Padolisi e lo raggiungono all’altezza di un vicolo cieco.
Perdunatimi! – li implora Michele – ho perso la testa…
Nu latru ‘un po’ arrobbare a nu latru! – gli fa Fera mentre Camposano si guanta la mano destra con un tirapugni.
Il pugno è violento e colpisce Michele all’occhio destro. Barcolla in direzione dell’uscita del vicolo. Poi viene colpito di striscio allo zigomo da un altro pugno e da un altro ancora alla nuca. Quando sta per cadere, ormai all’uscita del vicolo, Camposano lo spinge giù per la gradinata e il povero Michele ruzzola giù fino al piccolo slargo della fontana, dove c’è una ragazzina che sta prendendo l’acqua.
Camposano e Fera risalgono la gradinata fino a Via Padolisi e nel tragitto intimano alle persone che si sono affacciate di farsi i fatti propri:
Michele è ‘mbriacu… è cadutu sulu… – questa è la parola d’ordine.
Intorno a Michele si fa una piccola folla proprio mentre da lì sta passando il brigadiere della Questura Eugenio Granata che abita lì vicino. Gencarelli è steso a terra pieno di sangue e immobile.
– Che è successo? – chiede il brigadiere ai presenti.
– E’ caduto dalle scale… è ubriaco… – è la risposta che gli danno.
-Tu – dice Granata a un ragazzo – vai a chiamare una carrozza che lo portiamo all’ospedale – ma pare che sul Corso carrozze non ce ne siano e il brigadiere si allontana per telefonare ai Vigili del Fuoco. Quando torna sul posto non trova più nessuno.
– L’hanno portato a casa – gli risponde una donna dalla soglia della porta. E Granata va a casa di Michele, a pochi metri da lì.
L’uomo è steso sul letto in mutande e sembra essersi ripreso. Una vicina, Rosina Manzo, ‘a zingara, lo ha spogliato e lavato.
– T’è già passata la sbornia? – gli chiede il brigadiere – che ti è successo?
Brigadì, signu cadutu… è juta bona… – gli risponde.
– Sicuro? O t’hanno fatto cadere? – lo incalza Granata.
Signu cadutu! – conferma, lapidario,  Michele conosce le regole della malavita e sa che deve tenere la bocca chiusa, anche perché, per giustificare le botte che ha preso, dovrebbe dire che ha rubato i soldi a Franceschina.
Ma qualcuno parla. La Questura è informata del furto e il Questore in persona manda a chiamare il brigadiere Granata perché proceda all’arresto di Michele Gencarelli.
Che qualcuno ha parlato lo sanno anche Pietro Fera e Luigi Camposano, i quali concordano la versione dei fatti che dovrà essere ripetuta alla Questura. È Franceschina a tirare le fila di tutto.
Petrù, tu mi vò bene? e allura dicia ca si statu tu a minare a Michele, un potimu ruvinare a fratimma… – gli fa l’amante.
Ma signu esciutu mò mò… – protesta Pietro.
Statti tranquillu… testimoni ni trovamu quantu ni volimu… te pagu l’avucatu e le spise… a mia me ruvinanu ca tiegnu precedenti specifici… – cerca di blandirlo Luigi Camposano. E l’accordo, per amore di Franceschina, viene raggiunto. I due si precipitano a casa di Michele per dirgli ciò che dovrà riferire alla polizia e lì trovano la moglie separata dell’uomo e i figli. Li fanno uscire e confabulano brevemente col ferito, poi se ne vanno in fretta e furia.
– Che volevano? – gli chiede la moglie.
– M’hanno detto che posso dire che a picchiarmi è stato Pietro – le risponde.
Di lì a poco arriva il brigadiere Granata con due poliziotti ad arrestare Michele per furto e a portarlo in carcere. Il giorno dopo viene interrogato dal Commissario Iannelli al quale riferisce che Pietro Fera lo ha inseguito e, una volta che lo ha raggiunto, lo ha preso per le spalle e lo ha buttato a terra dandogli dei pugni in testa perché pensava che lui avesse rubato dei soldi all’amante, ma lui quei soldi non li ha mai toccati.
La cosa non è così grave da richiedere provvedimenti nei confronti di Fera e tutto sembra accomodarsi.
Ma non è così. Non si è trattato di un semplice occhio nero, le ferite riportate da Michele sono molto più gravi di quanto tutti pensino e nel giro di una settimana si aggravano sempre di più fino a portarlo alla morte, l’8 settembre.
Meningite purulenta in seguito alla diffusione del processo flogistico di tutto il contenuto orbitario destro e del connettivo retrobulbare. Ha contribuito all’esito letale la commozione cerebrale per lesione della base cranica con fuoriuscita di sangue dal condotto uditivo sinistro, tutto in conseguenza dei ripetuti traumi contusivi (pugni) sferrati con violenza alla regione parieto-orbicolare destra, alla regione laterale sinistra dell’osso nasale e sul corpo della vittima, recita il verbale dell’autopsia.
Adesso è omicidio preterintenzionale e il Procuratore del re, lo stesso 8 settembre, spicca un mandato di cattura nei confronti di Pietro Fera che se ne sta tranquillo in casa di Franceschina. Quando gli agenti della Questura si affacciano su Via Padolisi qualcuno si mette a fischiare in un modo strano e chi ha qualche conto in sospeso con la giustizia pensa bene di correre a nascondersi. Anche Pietro sa che non può stare tranquillo. Della morte di Michele ancora non sa niente, ma è sempre meglio non fidarsi, anche perché si aspetta che da un momento all’altro possano andare a prenderlo perché deve finire di scontare un residuo di tre mesi per una vecchia condanna. In men che non si dica sposta un armadietto che nasconde un bugigattolo e vi si nasconde, mentre Franceschina rimette l’armadio al suo posto. Quando gli agenti bussano alla porta lei apre subito ma è chiaramente nervosa.
– Pietro Fera è in casa? – le chiede uno dei due.
– No… non c’è nessuno – risponde cercando di non aprire la porta del tutto e di coprire la vista dell’interno col suo corpo.
– Sicuro? Facci entrare che diamo un’occhiata e se lo troviamo sono guai anche per te, lo sai bene… – l’avvertono. Quando sono dentro notano da molti particolari che in casa ci deve essere qualcun altro e si mettono a frugare dappertutto, poi uno dei due nota dei segni vicino all’armadio, come se qualcuno lo avesse spostato, spia nel piccolo spazio tra il muro e il mobile e si rende conto che dietro ci deve essere qualcosa che non va. Spostano l’armadio e fanno cucù a Pietro Fera – e che ci fai tu qua? – lo canzona l’agente
Brigadì… mò signu esciutu… n’atri tri misi dintra… e lassatimi jire! – cerca di giustificarsi.
– Ma quali tre mesi? Pietro Fera, ti dichiariamo in arresto per l’omicidio di Michele Gencarelli, questo è il mandato di cattura, muoviti e vieni con noi.
La frittata è fatta. C’è la testimonianza del morto, ci sono le testimonianze della vedova, dei figli e del commissario Iannelli che ha raccolto le confidenze del povero Michele.
Franceschina e Luigi Camposano si danno un gran da fare a trovare testimoni che giurano di aver visto Michele Gencarelli ubriaco che cadeva dalle scale, ma si vede chiaramente che sono testimoni di comodo e nessuno viene creduto.
D’altra parte a Pietro forse non conviene nemmeno confessare che a sferrare i pugni non è stato lui ma Luigi. In un modo o nell’altro in galera ci finirebbe lo stesso e quindi è meglio restare nelle grazie di Franceschina per avere protetto il fratello e non inimicarsi Luigi che è un tipo molto pericoloso.
Anche Franceschina finisce dentro per favoreggiamento e i due sono rinviati a giudizio. Il processo comincia il 16 giugno del 1945.
Pietro Fera viene condannato a sette anni di reclusione e Franceschina Bruno a sette mesi.
A guerra finita interviene la concessione dell’amnistia per varie tipologie di reato e a Franceschina, che ha già scontato la condanna, viene cancellata la pena. Anche Pietro, che ne frattempo si è visto confermare la condanna in appello, fa la domanda per beneficiare della legge e non presenta il ricorso in Cassazione. Il suo reato e la sua fedina penale però non rientrano nella lista dei possibili beneficiari e, scortato da due carabinieri, viene trasferito nel carcere di Pianosa dove resterà fino a fine pena.
Franceschina Bruno e suo fratello Luigi Camposano ringraziano calorosamente. 1
CONTINUA…
1 ASCS, Processi Penali.

 

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