LA CAMBIALE

Rosina Calabrese è una bella ragazza di ventisette anni. Alta molto più della media, capelli lunghi neri raccolti in una crocchia sulla nuca, occhi nerissimi. Veste anche di nero. Veste di nero perché è a lutto. È a lutto perché da un anno le è morto il marito in guerra, sul Carso. A Pedace qualche uomo fa dei pensieri su di lei ma non c’è niente per nessuno. È una donna integerrima.
La mattina del due settembre 1916 Rosina è seduta sul gradino della soglia di casa a rammendare delle calze. Con lei c’è una vicina, Filomena Iazzolino, che ha in braccio la nipotina di nemmeno un anno e mezzo e le due donne chiacchierano tranquillamente del più e del meno. Poi Filomena alza lo sguardo verso la sua sinistra, verso l’imbocco di via Soprana, e sbianca in viso. Senza parlare tocca con un gomito il gomito di Rosina e le fa segno di guardare chi si sta avvicinando a loro. Rosina non sbianca come l’amica ma ha solo un impercettibile moto di stizza. Quell’uomo è suo suocero, Francesco De Luca, contadino sessantenne.
Rosina e il suocero sono in contrasto dal giorno in cui arrivò la triste notizia della morte di Pietro Santo e frequenti sono stati i litigi tra i due. Francesco si avvicina sempre più con passo deciso alle due donne e alla bambina. Man mano i tratti del suo viso si fanno sempre più nitidi ed è chiaro che è veramente arrabbiato. Ormai è a un passo. Si ferma e si pianta a gambe larghe davanti alle donne. Ha le mani in tasca e uno scintillio sinistro negli occhi.
Che vuoi fare? – dice con asprezza rivolto alla nuora, che non lo degna nemmeno di uno sguardo e continua il suo lavoro di rammendo. Filomena ha paura e stringe al petto la nipotina – che vuoi fare? – ripete senza ottenere risposta neanche questa volta.
In via Soprana sembra regnare adesso un silenzio irreale. Forse è la loro tensione a far percepire  quel silenzio, o forse la vita della strada si è davvero fermata nell’istante in cui Francesco estrae dalla tasca il coltello e guarda negli occhi Rosina, la quale senza paura si alza in piedi e affronta il suocero a mani nude.
Filomena stringe al petto la nipotina coprendole gli occhi e, approfittando del varco lasciato libero da Rosina, si rifugia all’interno.
Rosina e il suocero si guardano in silenzio per pochi attimi, poi la furia si abbatte sulla ragazza, ancora incredula che l’irreparabile stia avvenendo davvero. Quattro coltellate in pieno petto date con una violenza talmente inaudita che il coltello, penetrando nelle carni della ragazza, spezza di netto due costole e poi trapassa il cuore.
Rosina si affloscia come un cencio, senza un lamento. Francesco tiene ancora stretto in mano il coltello che gocciola il sangue della nuora. Il suo respiro adesso è affannato. Guarda con odio il corpo inerme e, prima di andarsene, mormora:
Spero che sia morta, se no non sono contento
Francesco De Luca torna sui propri passi e, dietro di lui, la vita in via Soprana riprende in modo drammatico tra le urla delle donne che accorrono sul luogo del delitto.
La caserma dei carabinieri è a pochi metri. Attirato dalle urla disperate delle donne, il maresciallo Tatalo esce sulla strada e vede Francesco De Luca che cammina nella sua direzione col coltello insanguinato ancora in mano e, poco dietro, il corpo di Rosina attorniato da un gruppo di donne. Tatalo non perde tempo, si para davanti all’assassino e lo ferma. Francesco non oppone alcuna resistenza, si fa disarmare docilmente e altrettanto docilmente si fa portare dentro.
Il maresciallo corre verso Rosina ma non può fare altro che constatarne la morte.
– Perché lo hai fatto? – chiede a Francesco qualche minuto dopo.
– Dopo che mio figlio è morto sul campo di battaglia ho chiesto parecchie volte a mia nuora che mi desse per ricordo un vestito e una fotografia che prima era appesa al muro di casa mia e poi in casa sua, ma lei mi ha risposto sempre di no. Ho detto pure che glieli avrei pagati e lei ha continuato a rifiutarmeli, così ho deciso di ammazzarla e stamattina sono partito dalla località San Domenico, dove abito, e sono andato direttamente a casa di mia nuora. L’ho vista e le ho detto per due volte “Che vuoi fare?” ma lei non mi ha risposto, si è alzata in piedi e mi si è parata davanti. Io non ci ho visto più…
A Tatalo sembra troppo puerile come movente e comincia a indagare. Intanto viene a sapere che nessuno dei parenti e degli amici della famiglia De Luca ha mai visto fotografie del povero Pietro Santo appese né in casa dei genitori e né in casa sua.
Alcuni testimoniano che, si, è vero che Francesco avesse chiesto indietro delle cose alla nuora, compreso un vestito, ma le richieste erano volte ad ottenere più che altro della mobilia che egli riteneva che la nuora avesse portato nella casa nuova, presa di recente in fitto, in modo abusivo.
Poi si presenta don Giuseppe Adamo di Serra Pedace il quale racconta al maresciallo delle cose molto interessanti:
– Io sono il proprietario dei terreni di cui Francesco De Luca è colono ed ero in rapporto di grande fiducia e stima col povero Pietro Santo, suo figlio. Prima di partire per il fronte, proprio per la stima e fiducia che aveva di me, Pietro mi portò un memoriale contenente tutti i crediti che vantava nei confronti di numerose persone, tra le quali anche io. Esiste anche una seconda copia di questo memoriale che dovrebbe essere in possesso di Vincenzo De Luca, il fratello di Pietro. Dopo la sua morte chiamai la vedova e le restituii il mio debito di trecentodiciotto lire, comprensivo degli interessi, e lei mi rilasciò regolare ricevuta. Io la misi al corrente del memoriale e le dissi che per legge, di tutto ciò che Pietro aveva lasciato le spettava un terzo, un terzo spettava ai genitori e un terzo ai fratelli. Lei non fece alcuna osservazione contraria e promise che si sarebbe attenuta alla legge, una volta recuperati tutti i crediti. Il fatto è che tra i debitori di Pietro Santo c’è anche il padre, che ebbe in prestito mille e trecento lire: mille lire provate da una cambiale e trecento per un prestito sulla parola contratto davanti a testimoni. Dovete sapere, inoltre, che esiste un atto sottoscritto davanti al notaio Sprovieri con il quale Francesco De Luca, non sapendo fare la sua firma, nominò un certo Domenico Cava suo procuratore speciale apposta per firmare la cambiale. Il giorno dopo che io pagai il mio debito alla povera Rosina venne il suocero che si lamentò con me per il fatto che avevo dato tutti i soldi a lei e non avevo provveduto a dividerli secondo la legge. Il gli dissi che non avrebbe avuto nessuna difficoltà a rivalersi delle cento lire perché avrebbe potuto trattenerle dalle mille e trecento che ancora doveva dare a Rosina. Lui si arrabbiò e mi disse testualmente: “Mi ha spogliato anche la casa e io intendo avere tutto quello che mi spetta: peraltro la giustizia me la farò da solo perché l’ammazzerò!”. Io lo rimproverai aspramente per quelle parole ma lui continuò a ripetere che l’avrebbe ammazzata e questa cosa me la confermò anche sua moglie, alla quale dissi di parlare con Rosina per dirle di stare attenta e lei glielo disse ma, così mi riferì in seguito, Rosina le rispose che non aveva paura del suocero.
“Ci siamo” mormora tra sé e sé il maresciallo e trova altri testimoni che gli raccontano di come Francesco volesse soldi e non fotografie. Una vicina di casa di De Luca gli racconta che un paio di mesi prima dell’omicidio, Francesco l’aveva mandata a casa della nuora per convincerla a dargli dei soldi. “Io sono pronta a dargli quello che la legge dice, con le imbasciate non gli do niente perché con i soldi di mio marito non voglio che si paghino i suoi debiti, piuttosto li farò mangiare agli avvocati!” fu la risposta secca di Rosina.
Non contento, Francesco De Luca mandò un’altra donna con la stessa richiesta e ottenne una risposta ancora più lapidaria: “Se veramente vanta dei crediti, che si rivolga alla giustizia”. Quando la donna riferì la risposta di Rosina, De Luca la gelò: “Soldi da spendere ad avvocati non ne ho, se non mi accontenta l’ammazzo!”. Preoccupata, la donna riferì a Rosina il proposito del suocero e lei le rispose “Di petto a petto non me la faccio fare, me la dovrà fare a tradimento… in ogni caso non t’immischiare che sono cose che non ti riguardano”.
Il maresciallo Tatalo riesce anche a farsi fare una dichiarazione dal notaio Rosario Sprovieri che prova la veridicità delle dichiarazioni di Giuseppe Adamo. Ed è con una certa invidia che legge e rilegge la carta intestata del notaio dove appare bene in vista la dicitura Telefono 82. “E noi dobbiamo andare ancora alla posta a fare telegrammi…” pensa a voce alta mentre si incammina a piedi dalla città verso Pedace.
Adesso ce n’è abbastanza perché il Giudice Istruttore possa chiedere il rinvio a giudizio di Francesco De Luca per omicidio premeditato, aggravato da brutale malvagità, vista la violenza con la quale ha inferto i colpi mortali.
La Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro lo rinvia a giudizio per omicidio premeditato, escludendo però l’aggravante della brutale malvagità.
La storia del processo in Corte d’Assise, travagliata e singolare per i continui errori procedurali commessi nella compilazione della lista dei giurati popolari, si conclude dopo quasi cinque anni, il 16 aprile 1920 con la condanna a diciotto anni e quattro mesi di reclusione, condonandogli, però, quattro mesi di pena. Francesco De Luca si salva dall’ergastolo perché la giuria popolare non riconosce la premeditazione dell’atto.
La Cassazione, il 20 luglio dello stesso anno rigetta il ricorso di De Luca e conferma la condanna.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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