IL VIZIO DEL MONACO

Più che un servizio di pattuglia è una passeggiata sotto il sole della fine di maggio 1884, quella che il Maresciallo Andrea De Martini, comandante della Caserma di Dipignano e i suoi sottoposti Vitaliano Davoli e Luigi Farinaccio stanno facendo. Il paese sta vivendo giorni tranquilli e ci si può rilassare un po’ gustando colori, odori e sapori della campagna.
Mentre i tre camminano per le vie del paese si imbattono in un giovanottino, Vincenzo Esposito Fisico, un trovatello allevato da una famiglia di Dipignano. Vincenzo ha ventuno anni ma è minuto, non passa il metro e mezzo di altezza e i quaranta chili di peso. Ha un bel sorriso che mette in evidenza il contrasto tra la pelle olivastra e i suoi denti, li ha tutti, bianchissimi. Vincenzo si guadagna da vivere chiedendo la carità e svolgendo piccole commissioni per i paesani. Lui non è in grado di lavorare perché è il cosiddetto scemo del villaggio, Vicianzu ‘u ciuatu. Affetto da cretinismo, secondo la terminologia medica.
Quando i tre Carabinieri lo notano, nello spirito quasi goliardico di quel pomeriggio, vorrebbero stuzzicarlo un po’ per farsi quattro risate e lo chiamano da lontano, ma il Maresciallo De Martini nota subito che qualcosa in Vincenzo non va e si fa subito serio. Il ragazzo non ha  la sua solita espressione sognante e l’andatura dinoccolata ma un’espressione sofferente e cammina come se avesse ingoiato un manico di scopa.
– Vincenzo, che hai?
– Mi fa male qua – risponde innocentemente toccandosi il fondoschiena.
– Sei caduto, ti hanno fatto cadere? – continua il Maresciallo.
– No…
– E allora che ti è successo?
Il problema di Vincenzo non sono i ricordi. Lui ricorda tutto quello che gli accade ma non riesce a collocarlo temporalmente nel modo giusto. Ha una certa lentezza a capire le cose, ma se gli si ripetono più volte è in grado di assimilare i concetti e ripeterli. Riesce anche a portare a termine alcuni semplici compiti che qualcuno gli affida per carità, come portare qualche pacco o qualche lettera. Dopo vari tentativi, il Maresciallo riesce a fargli dire che ha subito atti di sodomia, ma è scettico. Lo porta in caserma e manda a chiamare il medico per sottoporlo a visita. “Non sia mai è vero quello che dice, gliela farò pagare cara a quella carogna che si approfitta di un ritardato”, pensa.
E il medico conferma che la sodomia c’è stata, lo dicono i lividi ancora visibili e gli evidenti segni di infezione da sifilide. L’andatura impacciata di Vincenzo dipende dal fatto che chi gli ha usato violenza, gli ha passato la malattia.
– Chi è stato? – il tono del Maresciallo è dolce ma fermo.
– Il monaco…
– Il monaco? Ma che dici? Ricordati e raccontami – lo incalza il Maresciallo.
Il ragazzo, a stento, racconta che il parroco di Dipignano, don Filippo Mele, lo incarica spesso di portare delle lettere al Convento di Laurignano. Qui i monaci gli fanno la carità di farlo mangiare e spesso gli regalano anche qualcosa da portare via.
Giorni prima della festa della Madonna – quell’anno è caduta il 20 aprile – don Filippo lo manda al Convento con una lettera per padre Giuseppe, il Padre Guardiano.
Ad aprire il portone, contrariamente al solito, è proprio lui in persona, che prende la lettera e invita il ragazzo a entrare per mangiare qualcosa. Poi gli dice di accompagnarlo nella sua cella al piano di sopra per aiutarlo a fare un lavoretto e Vincenzo lo segue docilmente lungo i tetri corridoi e la scala buia. Una volta soli nella cella, padre Giuseppe ordina al ragazzo di mettersi carponi sul bordo del letto e Vincenzo, innocentemente, ubbidisce.
– Mi ha messo due cuscini sotto la pancia e mi ha detto di tenere la testa stretta in un altro cuscino…
– E poi? – il Maresciallo vuole sentire dalla voce di Vincenzo quello che già sa.
– E poi mi ha fatto male… io gliel’ho detto che mi ha fatto male e mi ha fatto uscire il sangue ma lui mi ha detto di stare zitto e mi ha dato venti centesimi…
De Martini stringe i pugni dalla rabbia ma si contiene, pensa che ci vogliano altre conferme, vuole sapere altro dal ragazzo.
– Ma è successo solo quella volta?
– No, tutte le volte che don Filippo mi mandava a portare la lettera… però quando ha cominciato a bruciarmi forte non ci sono andato più…
Il Maresciallo adesso non ha più dubbi, va dal Pretore a raccontargli tutto e ottiene di sottoporre a visita padre Giuseppe per sapere se ha la sifilide, “Perché, non sia mai, dovesse averla, gli faccio passare un brutto quarto d’ora, quant’è vero Iddio!” pensa mentre se ne torna in caserma.
Padre Giuseppe, 49 anni, al secolo Francesco Iessi di Filadelfia in provincia di Catanzaro, la sifilide ce l’ha davvero e i guai per lui sono appena cominciati.
Il Pretore, convinto anche lui dagli indizi, lo interroga. Lui non può negare di avere la malattia venerea e si giustifica dicendo che l’ha presa a Cassano Ionio durante un rapporto sessuale con una donna di cui ignora l’identità, ma che, nel modo più assoluto, quel ragazzo non lo ha mai visto in vita sua. Il magistrato non gli crede e lo mette a confronto, in mezzo ad altri due frati, con Vincenzo, il quale non ha nessuna difficoltà a riconoscerlo e, lasciando tutti stupefatti, gli conferma in faccia tutte le accuse. Il monaco, da parte sua, non appena vede il ragazzo diventa bianco come un lenzuolo. E di questo se ne accorgono tutti i presenti.
Sei tu che me lo hai messo nel culo e mi hai fatto uscire il sangue.
No… no… non conosco affatto l’individuo qui presente… non l’ho veduto mai – cerca di replicare, molto imbarazzato e titubante, mentre si copre il volto con le mani.
Padre Giuseppe viene arrestato con l’accusa di stupro violento e contagio di malattia venerea. Ma, come dicevamo, i suoi guai sono appena iniziati.
Aperta la falla, si presenta al Maresciallo De Martini un altro ragazzo, Raffaele Gallo, di diciannove anni, il quale racconta che dall’età di dodici anni e fino ai quindici ha lavorato come porcaro presso i monaci di Laurignano e che, durante questo periodo, padre Giuseppe si servì di lui per il suo piacere.
– Io allora ero ignorante… non capivo le parole strane che mi diceva… poi non volevo più, ma sono stato costretto a rimanere dai monaci per la fame… io non sapevo fare altro che badare ai porci…
La falla continua ad allargarsi, e si allarga così tanto che si presentano altri due ragazzi, Saverio Perfetti e Carmine Ruffolo per raccontare le loro tristi esperienze.
Saverio racconta che l’anno prima, il 1883, padre Giuseppe tentò di stuprarlo ma lui oppose resistenza e minacciò di andare a raccontare tutto al Vescovo di Cosenza:
– Mi ha dato due lire e mi ha pregato di mantenere il segreto… se non è riuscito a stuprarmi fu solo perché mi mise in guardia un altro giovanotto, non ricordo come si chiama, un suonatore ambulante, che mi raccontò del vizio del monaco
Carmine Ruffolo, invece, racconta che a gennaio 1884 lui, essendo calzolaio, era andato a riparare alcune calzature nel Convento di Laurignano, quando vide uscire piangendo dalla cella di padre Giuseppe un suo collega calzolaio, il sedicenne Pietro Casciaro di Paterno, il quale gli raccontò il tentativo di violenza appena subito.
Il Maresciallo riesce a rintracciare anche il suonatore ambulante, Bernardo Albisani, che conferma di aver subito un tentativo di violenza.
La nave comincia ad affondare, rischiando di trascinare con sé anche il buon nome del convento. Gli altri monaci sono esterrefatti, hanno sempre considerato padre Giuseppe, che tutti loro hanno eletto come padre Guardiano, un uomo buono e non vorrebbero credere a quelle orrende accuse. Ma devono arrendersi non tanto davanti alle prove, seppur evidenti, ma a ciò che i due confratelli, condotti insieme a padre Giuseppe davanti a Vincenzo per il riconoscimento, hanno letto nei suoi occhi.
Nemmeno l’avvocato Antonio Serravalle di Catanzaro, difensore di Francesco Iessi, se la sente di confutare la bontà della testimonianza di Vincenzo, seppure i periti lo abbiano ritenuto affetto da idiotismo di primo grado, cioè da imbecillità. Riesce solo, timidamente, a lamentarsi del fatto che, essendo necessaria la querela di parte per perseguire il reato di stupro, reato non  perseguibile d’ufficio in base all’articolo 500 del Codice Penale in vigore, tale querela è stata sporta dal tutore di Vincenzo solo quando le indagini sono state chiuse. Continua l’avvocato, se una pena vuolsi che colpisca il frate, basti alla giustizia lo scorno subito ed il rinvio al Tribunale per l’eccitamento. Il giudizio più solenne dell’Assise non servirebbe che a screditare un eremitaggio che per l’addietro fu sempre sacro asilo a’ poveri.
Ma alla Giustizia lo scorno non basta e all’eremitaggio sarà molto più utile estirpare quella gramigna.
 Francesco Iessi è rinviato a giudizio per stupro violento nei confronti di Vincenzo Fisico Esposito e Raffaele Gallo e di tentata corruzione di minorenni nei confronti degli altri tre ragazzi. Il 15 aprile 1885 la Corte lo condanna a dieci anni di reclusione, al pagamento delle spese processuali e al pagamento dei danni alle parti lese.
La condanna sarà confermata, in poco più di un mese, dalla Corte d’Appello di Catanzaro e dalla Corte di Cassazione. Nel 1893, grazie alla legge sull’indulto, la pena gli sarà diminuita di tre mesi.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

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