RIMETTI I DEBITI AI DEBITORI

Francesco Colosimo sta intrecciando un cesto nella sua bottega di via Grande a Marzi, quando gli si para davanti Pasquale Garofalo che lo affronta a muso duro:
– Franchì, siamo alla metà di agosto e mi devi dare ancora venti lire per la legna dell’inverno passato… come la mettiamo?
– E come la mettiamo… prima dell’inverno prossimo ti pago…
– Non hai capito, le venti lire me le devi dare entro oggi se no t’ammazzo! – lo minaccia.
– Pasquà, va camina! E secondo te se non te li ho dati finora, all’improvviso mi spuntano venti lire nell’orto? Sto facendo delle ceste per un negoziante di Cosenza e appena mi comincia a pagare, i primi soldi sono i tuoi, ti va bene così?
– Franchì, entro oggi se no la faccio finita… – tronca la conversazione, gira i tacchi e se ne va.
Colosimo ha trentatré anni ed è nato a Conflenti, ma girovagando per i paesi della valle del Savuto ha conosciuto una ragazza di Marzi, si è sposato e si è stabilito lì.
Pasquale Garofalo a Marzi c’è nato e cresciuto. Il 13 agosto 1922, il giorno in cui chiede i soldi a Colosimo, ha sessantasette anni.
Francesco, ovviamente, non riesce a racimolare le venti lire e quando chiude la bottega, come quasi ogni giorno, va nella cantina di Francesco Garofalo per passare un po’ di tempo guardando gli amici giocare a carte. Quel giorno non c’è nessuno oltre al cantiniere e i due si mettono a giocare tra di loro, ma non hanno nemmeno finito la prima partita a scopa che entra Pasquale Garofalo.
Francesco Colosimo lo guarda perplesso, temendo che possa ricominciare con la richiesta delle venti lire, ma Pasquale sembra tranquillo, si siede accanto ai due giocatori e propone di fare una partita in tre, bevendo un buon mezzo litro di vino. Francesco tira un sospiro di sollievo.
Finita la partita, Pasquale se ne va, proprio mentre stanno entrando i fratelli Paolo e Rosario Tucci, i quali si mettono a giocare e bere con i giocatori rimasti.
Passa poco più di un’ora, poi la porta della cantina si apre e gli avventori vedono entrare di nuovo Pasquale Garofalo un po’ malfermo sulle gambe. Nessuno ci bada più di tanto e Pasquale si va a sedere su di una panca proprio di fronte a Francesco Colosimo, abbassa la testa, socchiude gli occhi e tutti hanno la sensazione che si stia addormentando.
Dopo un po’, Paolo Tucci si accorge che dalla tasca destra della giacca di Pasquale spunta la lama di un coltello a scatto e silenziosamente fa segno a Colosimo di dare un’occhiata. Colosimo si avvicina senza far rumore e sfila il coltello dalla tasca di Garofalo, poi si risiede e i quattro continuano a giocare a carte e a bere vino.
Sono ormai le sei di pomeriggio quando Pasquale Garofalo si sveglia. Come se non avesse mai chiuso occhio, si alza dalla panca e si pianta di fronte a Francesco, mette le mani sui fianchi e gli dice con tono minaccioso:
Porco che non sei altro, mi vuoi pagare o no?
– E che ti debbo dare se soldi non ne ho? – gli risponde alzandosi e mettendoglisi davanti a sua volta, a pochi centimetri di distanza e guardandolo altrettanto minacciosamente.
– Se non mi paghi ti rompo il culo qui davanti a tutti!
– Finiscila adesso – ti prometto che adesso esco da qui e cerco di farmi prestare le venti lire e te le restituisco entro stasera.
– Tra un’ora torno e voglio trovare i soldi! – quando stanno per venire alle mani, gli altri presenti si mettono in mezzo e li separano.
Pasquale Garofalo mette la mano in tasca per prendere il coltello ma non lo trova. Ha un attimo di sbandamento ma non si perde d’animo: ha un altro coltello nascosto nella tasca dei pantaloni e lo sventola sotto il naso del rivale, ma anche questa volta gli altri riescono a evitare la zuffa e a disarmarlo. Pasquale esce dalla cantina e, una volta in strada, chiama il rivale:
– Esci che ti debbo scannare! – che abbia un terzo coltello? Francesco non ci crede e lo affronta. I due sono su un ponticello della strada Nazionale e si guardano in cagnesco. Pasquale sta per saltare addosso all’avversario ma Francesco, più giovane e agile, lo anticipa mollandogli un sonoro manrovescio in faccia. Pasquale perde l’equilibrio e, disgraziatamente, vola sotto al ponticello, che in quel punto non ha parapetto, facendo un volo di un paio di metri. Disgrazia su disgrazia, finisce il volo proprio sopra alcune grosse pietre di fiume, batte la nuca e rimane immobile.
– L’hai ammazzato! – urla uno dei presenti a Colosimo.
Se l’ho ammazzato lo pago! – risponde Colosimo, consapevole di ciò a cui potrà andare incontro.
Sono attimi concitati e pieni di tensione perché in effetti, guardando il corpo di Garofalo da sopra il ponte, sembra morto, ma quando tutti i presenti scendono sul greto del torrente, si accorgono che è vivo e si sta riprendendo dalla brutta botta. Lo riportano sulla Nazionale e Paolo Tucci gli mostra i due coltelli che gli hanno preso e gli dice:
– Domani mattina ti vado a denunciare per questi…
– Domani me la vedrò io! – gli risponde Pasquale tenendosi la testa tra le mani.
Proprio in quel momento arriva un carabiniere a cavallo della Tenenza di Rogliano, che ha osservato tutta la scena da lontano e chiede a Garofalo quali siano le sue condizioni e chi lo ha fatto cadere dal ponticello.
– Mi hanno picchiato Francesco Colosimo e i fratelli Rosario e Paolo Tucci – poi non riesce più a dire nulla, mentre tutti i presenti protestano l’innocenza dei fratelli Tucci, ma non c’è bisogno perché il maresciallo Spanò ha visto perfettamente che è stata una persona sola a picchiare Pasquale.
I presenti portano a casa il ferito e lo fanno stendere sul letto, ma Pasquale perde subito conoscenza e morirà poche ore dopo.

Frattura della base cranica con conseguenti commozione ed emorragia cerebrale sentenzierà l’autopsia. Francesco Colosimo viene rinviato a giudizio per omicidio preterintenzionale e, il 23 novembre 1923, condannato a due anni, due mesi e venti giorni di reclusione, di cui gli sono condonati sei mesi. Siccome Francesco Colosimo non presenta ricorso in appello, la sentenza diventa esecutiva e sconterà un anno, otto mesi e venti giorni.[1]

 

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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