GIGGINO IL NUMISMATICO

– Buongiorno cavaliere, avrei delle monete da mostrarvi… però non qui… – così esordisce Luigi Giugno, Giggino per gli amici, una fredda mattina della metà di febbraio del 1934, rivolgendosi al dottor Ettore Feraco, noto farmacista di Cosenza.
Giggino Giugno, nato a Cosenza il 23 gennaio 1899, oltre che essere uno dei migliori e più conosciuti ladri della città, è anche un valente filatelico, numismatico e conoscitore d’arte e in molti lo consultano per pareri qualificati. Di mattina la sua attività principale è quella di fare il giro di negozi e uffici a chiedere francobolli usati che poi seleziona e rivende. Ovviamente qualche francobollo, così come qualche moneta che commercia è di provenienza furtiva, quindi Giggino fa anche il ricettatore. Ma non finisce qui. Teoricamente il suo lavoro dovrebbe essere quello di imbianchino in società con il cognato Francesco Parise, ma da un po’ di tempo si è ingegnato e ha cominciato a vendere stoffe a domicilio con pagamento rateale. È senz’altro un modo elegante per entrare in molte case e verificarne il contenuto per poi poter procedere a eventuali furti.
– Ci possiamo vedere nel pomeriggio a casa mia – risponde il farmacista. Sa che se le monete non gliele fa vedere in farmacia c’è qualcosa di losco, ma a lui non importa se siano frutto di ricettazione o meno, sa solo che con Giggino fa sempre buoni affari e tanto gli basta – anzi – prosegue – è necessario che tu venga a casa mia perché così ti faccio vedere due quadri che ho intenzione di vendere.
Forse a Giggino non è venuto in mente che potrebbe organizzare un furto ai danni del farmacista, o forse non vuole pensarci, visto che è uno dei suoi migliori e più fidati clienti ma, tant’è, quel pomeriggio rimane abbagliato dagli ori e dagli argenti che l’incauto cavaliere Feraco gli mostra. L’idea del furto adesso gli è venuta eccome! Ma è troppo rischioso, meglio evitare. No! Come si fa a lasciare tutto quel ben di Dio? Cerca di temporeggiare con la vendita delle monete, alza il prezzo. Il farmacista gli dice che è troppo e che ci vuole pensare, magari si rivedranno, sempre a casa, il giorno dopo.
– Si, è meglio, la notte porta consiglio a tutti, statemi bene, cavaliè, a domani – saluta Giggino togliendosi il cappello floscio.
Ma ci saranno tanti altri “domani”, infatti, ora con la scusa delle monete (ci vorrà più di una settimana per concludere con un prezzo estremamente favorevole al cavaliere Feraco), ora con la scusa di esaminare per bene i quadri, Giggino si presenta ogni giorno a casa del farmacista e nei momenti in cui rimane da solo nel salotto verifica il contenuto di ogni cassetto e si spinge perfino a dare delle sbirciatine nella camera da letto dei Feraco. Quando ormai conosce ogni oggetto prezioso della casa e ogni posto in cui mettere le mani, è in grado di disegnare una piantina dei locali e programmare il furto. L’unico problema è come fare a entrare nelle due sole ore in cui l’appartamento, sito in un edificio a due piani nella centralissima Piazza Carmine, di lato all’Ospedale e di fronte alla caserma dei Carabinieri, rimane incustodito. Dalle finestre che danno sulla piazza neanche a parlarne, ovviamente; dal portone di ingresso nemmeno, perché si farebbe troppo rumore. Rimane la finestrella della cucina che si apre sulle scale ma è protetta da tondini di ferro infissi nel muro. Non è una grata vera e propria perché le sbarre sono sistemate solo dal basso in alto e non incrociate, ma ci vorrebbe un uomo dotato di una notevole forza per piegare almeno una sbarra per fare un po’ di spazio e poi ce ne vorrebbe un altro abbastanza magro e agile da infilarsi in quello spazio. Questo è il vero problema per Giggino: trovare gli uomini giusti. Alla fine decide che le sbarre possono essere piegate con la forza congiunta di due uomini normali e così la scelta ricade su Vincenzo Givigliano, alias il Mangonese, che fa il sarto, e Raffaele Marino che lavora in una tipografia. Entrambi sono, ovviamente, abili ladri.
Giugno spiega loro il suo piano per filo e per segno. Aspetteranno che la donna di servizio esca di casa verso le 16,00 come ogni giorno e quindi sarà egli stesso a entrare in casa Feraco dopo avere, con l’aiuto del Mangonese, allargato le sbarre della finestrella. Marino dovrà appostarsi nelle vicinanze della farmacia per controllare i movimenti dei coniugi Feraco mentre Givigliano, allargate le sbarre, dovrà appostarsi nei giardinetti che si trovano tra l’edificio da svaligiare e la caserma dei Carabinieri.
Durante tutte la fasi della preparazione del furto, Giggino continua a frequentare la casa del farmacista come se nulla fosse e, anzi, gli dà appuntamento per la mattina del 15 marzo al fine di ritirare i due quadri per i quali, mente, ha trovato un compratore.
Ma quella mattina Giggino non si presenta all’appuntamento, l’ha sparata grossa sul compratore e ancora non ha inventato una scusa plausibile da far digerire al farmacista. Sa di non poterli ritirare nemmeno il pomeriggio perché è il giorno scelto per fare il colpo. Vedrà dopo il da farsi, “non è questo il problema”, pensa.
Il pomeriggio del 15 marzo piove. Verso le 15,00 Giggino e il Mangonese, riparandosi sotto un ombrello, scendono lungo il Corso Telesio portando a turno una pesante borsa di cuoio grezzo dentro la quale hanno sistemato gli attrezzi del mestiere. Vicino la chiesa di San Domenico li aspetta Marino, che appena li vede si incammina per raggiungere la sua postazione. Quando arriva davanti alla caserma dei Carabinieri si volta e vede i suoi due compari che entrano nell’androne di casa Feraco e spariscono nella penombra delle scale. Tira un lungo respiro e percorre la cinquantina di metri che gli mancano per appostarsi nel luogo prescelto.
Giggino e il Mangonese salgono in fretta le scale buie. Non c’è nessuno a disturbarli. Non c’è nemmeno Ugo Gioia, ventenne lustrascarpe che solitamente usa quell’androne come bottega. Giggino toglie un grosso palanchino di ferro dalla borsa e, aiutato dal Mangonese, fa leva sul tondino di ferro del diametro di un centimetro e, nel giro di un minuto, i due riescono a creare lo spazio sufficiente perché Giggino possa passarci dentro, anche se con qualche difficoltà.
Il Mangonese, a questo punto, esce e si va ad appostare, come concordato, tra le aiole davanti la caserma dei Carabinieri, pronto a lanciare il fischio di avvertimento se qualcosa dovesse andare storto.
Giggino, una volta dentro, si dirige sicuro nel salotto di casa Feraco, apre il sacco che si è portato dietro e comincia a buttarci dentro pezzi di argenteria. Poi è la volta della collezione di monete antiche e poi ancora è il turno della cassetta dei gioielli della signora Feraco. Anelli e orecchini d’oro incastonati da pietre preziose, catene, bracciali, spille. Trova anche, in un’altra cassetta, una ventina di monete d’argento e una parure in corallo. Non può fare a meno di fermare la sua frenetica attività per osservare gli oggetti con attenzione. Sono tutti pezzi magnifici. Pregusta già quanto in più potrà ricavarne, quando qualcosa lo disturba. Nelle scale sente un trambusto e delle grida. Un uomo sta gridando al ladro. Non perde tempo a versare quelle meraviglie nel sacco e si precipita verso la finestra per scappare ma della gente è proprio lì fuori. Si sente in trappola. Non può certamente calarsi dalle finestre che danno su Piazza Carmine perché finirebbe tra le braccia dei carabinieri. Non può uscire dal portone di casa né dalla finestrella. Che fare?
Giggino non perde la calma. Si accuccia sotto la finestrella e aspetta. Sente che la gente che sta sul pianerottolo si allontana per andare a chiedere aiuto e decide di rischiare. È fortunato. In un attimo butta fuori il sacco e sguscia dal pertugio. Nessuno. Come se niente fosse esce dal portone dell’edificio e si dirige nel labirinto di vicoli verso via Rivocati, dalla parte opposta della caserma.
Il Mangonese, che nel frattempo si è premurato di distrarre un facchino che stava guardando insistentemente verso l’ingresso del palazzo, è molto preoccupato dal trambusto, ma lo nota e lo segue a distanza, tirando un sospiro di sollievo. È fatta!
L’androne del palazzo, nel frattempo, si popola di gente, curiosi per lo più, e di carabinieri. È arrivato anche il lustrascarpe, un tipo minuto che ha avuto in passato problemi con la giustizia, e si mette a curiosare come gli altri. Scambia qualche parola anche con il ragioniere Enrico Aloe, l’uomo che, accortosi che le sbarre della finestra di casa Feraco sono piegate, ha gridato al ladro. Forse sarà la sua rovina, perché il ragioniere, pratico del palazzo in quanto proprio sopra l’appartamento dei Feraco abitano i suoceri, dice ai carabinieri di non averlo visto al suo banchetto di lustrascarpe quando è entrato nell’androne, ma di averlo visto e di averci parlato dopo essere uscito a chiamare aiuto. Da dove è entrato se il ragioniere assicura di non essersi allontanato più di cinque o dieci metri dal portone tenendolo sempre d’occhio?
Questo, più la sua corporatura minuta adatta a passare facilmente nel pertugio e un graffio sulle sue scarpe, basta per portare dietro le sbarre lo sventurato e a lasciarcelo per un paio di mesi. Per sua fortuna i carabinieri continuano ad indagare e ad arrestare pregiudicati, tra i quali un certo Gennarino De Marco, trentacinquenne macellaio figlio del mitico “Bacco”, il primo capo riconosciuto della mala cittadina alla fine del XIX secolo.
De Marco finisce in galera perché, pare, la sera del furto organizza in casa sua una cena alla quale partecipano molti pregiudicati e i carabinieri pensano che sia stata organizzata per festeggiare il colpo. Ma c’è di più. Tutti sanno che Gennarino, approfittando della detenzione di Luigi Pennino, si atteggia a capo ed è capace di tutto, anche di uccidere – si è fatto quasi nove anni per omicidio volontario –, elargisce di tasca propria aiuti a famiglie di detenuti, paga avvocati e ordina anche qualche pestaggio. Sicuramente il furto l’ha ordinato lui, pensano i carabinieri.
Da parte sua, il farmacista Feraco si sgola davanti al giudice per supplicarli di indagare anche su Giggino Giugno che ritiene il principale indiziato, ma gli inquirenti ci metteranno un paio di settimane a racimolare qualche soffiata con il nome di Luigi Giugno e di Vincenzo Givigliano, il Mangonese. I carabinieri rintracciano anche il facchino che riconosce Givigliano. Li arrestano ed arrestano anche l’amante del Mangonese, Olimpia Argondizzo, perché la giovanetta Maddalena Ruggiero l’avrebbe vista rincasare la notte del furto con al dito un anello di valore che, stando alle dichiarazioni della giovanetta, i due amanti hanno dato in pegno la mattina successiva, ma i carabinieri non riescono a trovare alcun riscontro in merito.
 Dopo tre mesi di carcere preventivo i due, come tutti gli altri vengono scarcerati perché non ci sono indizi sufficienti, anche se tutti gli alibi sono stati smontati pezzo per pezzo e, il 17 luglio 1934, l’istruttoria viene chiusa.
Sembrerebbe che la combriccola di ladri l’abbia fatta franca, ma a volte il diavolo ci mette la coda. Infatti, il primo settembre, alcuni agenti della Pubblica Sicurezza, vanno a casa di Raffaele Marino perché, sospettandolo coinvolto in un piccolo traffico illecito, devono procedere alla perquisizione della sua abitazione. Non trovano niente che possa collegare Marino all’inchiesta ma, in fondo a un cassetto, proprio mentre stanno per fargli firmare il verbale con l’esito negativo della perquisizione, trovano la sorpresa: tre monete antiche d’argento, un pezzo di anello con brillante, una perla e altri due mezzi anelli con pietre preziose.
Marino confessa subito che quegli oggetti sono una piccola parte del bottino fatto in casa Feraco e che lui, il Mangonese e un fantomatico gigantesco uomo di Reggio Calabria ne sono gli autori. Confessa anche che aveva qualche altro oggetto ma, trovandosi senza soldi, su suggerimento di Luigi Giugno, lo ha venduto a Napoli a una certa Angelina Casolaro. La Questura non perde tempo e arresta il Mangonese che confessa ma smentisce il complice, accusando Giggino Giugno di essere la mente e l’esecutore materiale del colpo e, a questo punto, anche Marino si adegua e fa il nome di Giugno il quale, arrestato, tiene la bocca chiusa e si dichiara innocente. Ma ormai non c’è niente da fare i tre sono chiaramente i colpevoli. Si, ma la refurtiva? È su questo punto che gli inquirenti hanno la sorpresa più grossa: a loro insaputa, la gran parte della refurtiva è rientrata in possesso del dottor Feraco!
Givigliano e Marino, seppure con qualche differenza sono concordi nel ricostruire così la vicenda: dopo la scarcerazione, il Mangonese va a trovare il farmacista Feraco per assicurargli che non aveva minimamente preso parte al furto e il carcere fatto lo aveva molto demoralizzato. Anzi, per provare al farmacista di essere innocente, il Mangonese gli promette di interessarsi per cercare di recuperare la refurtiva.
Ovviamente la refurtiva è in possesso suo e degli altri due compari ma, essendo di difficile collocazione presso i ricettatori, i tre hanno in mente di truffare Feraco.
Il Mangonese viene contattato da due individui e dall’avvocato Roberto Fagiani, incaricati in precedenza da Feraco per rintracciare la refurtiva. Ma i due individui, Luigi Verri e Vincenzo Parisi, si mettono d’accordo con i ladri e inizia così il balletto del dire e non dire, finché Givigliano rivela al farmacista che la refurtiva è custodita a Reggio Calabria e che servono 600 lire per il noleggio di un’automobile e le spese di viaggio.
Il dottor Feraco incarica l’avvocato Fagiani di consegnare la somma al Mangonese ma il professionista, intuendo la verità, si mette a giocare in proprio e trattiene per sé 400 lire e non ci sono santi che tengano quando i compari protestano. Ormai sono tutti consapevoli di dover giocare ognuno il proprio gioco per spillare quanto più possibile al dottor Feraco.
Il tira e molla dura qualche giorno, poi l’avvocato Fagiani e il Mangonese si accordano col farmacista per la somma di 12.000 lire e così, di sera, portano la roba, chiusa in una cassa di legno, a casa Feraco. È Fagiani personalmente che spunta sulla lista degli oggetti rubati quelli restituiti. Feraco è imbestialito, sostiene che manchino gli oggetti di maggior valore e si rifiuta di pagare. Quasi li caccia di casa. L’avvocato e il Mangonese rimettono tutto nella cassa e se ne vanno.
Un paio di giorni dopo, il Mangonese va nello studio dell’avvocato Fagiani per sapere se ha novità sull’affare e questi gli dice, senza mezzi termini, che ha restituito tutti gli oggetti, facendosi dare 2.000 lire. Non gli crede. Va a parlare col farmacista che gli conferma la cosa, aggiungendo che Fagiani gli ha fatto ritrovare la cassa in via Forche Vecchie (l’attuale Via 24 maggio).
Il Mangonese allora convoca tutti gli aventi diritto alla spartizione nello studio di Fagiani e le 2.000 vengono spartite così: 200 lire a Fagiani; 550 a Verri; 100 per rimborso spese automobilistiche a Verri; 200 a Marino; 150 a Giovanni Parise; 700 a Givigliano; 100 a Domenico Storino. Ma che c’entra in tutto questo Domenico Storino e, soprattutto, chi è? Domenico Storino è cugino di Marino che gli ha rivelato tutto e li ha minacciati di denunciarli alla Questura, quindi è l’estorsore dei truffatori!
Giggino Giugno nemmeno si immischia, come abbiamo visto, in questa squallida truffa. Lui ha preso la roba che ha scelto e che gli spettava in quanto ideatore ed esecutore del bait e l’ha rivenduta sul mercato di Napoli.
Alla fine di tutto, a pagare saranno solo Raffaele Marino, Vincenzo il Mangonese e Giggino Giugno. L’avvocato Roberto Fagiani sarà prosciolto in istruttoria dalle accuse di ricettazione “perché il fatto non sussiste” e di truffa “per non aver commesso il fatto”.
Per gli stessi motivi saranno scagionati anche Luigi Verri e Giovanni Parise.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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