UN GIORNO DI ORDINARIA FOLLIA

A Pietrafitta il cinquantenne Nicola Giorgi è considerato da tutti un’ottima persona e un uomo equilibrato e docile. Così docile che qualcuno arriva a dire che ha un carattere quasi femmineo. È sposato e ha, viventi, sei figli. Generalmente è un taciturno e quando è costretto a parlare preferisce esprimersi a monosillabi. Si occupa esclusivamente delle sue attività e della sua famiglia. Non frequenta cantine perchè non beve e non ha mai avuto a che fare con la giustizia.
Il 20 luglio 1922 si alza presto ed esce dalla sua casa nel rione Vicinanzo armato della sua rivoltella, deciso a uccidere un cane randagio che, secondo lui, gli sta rovinando il pollaio. Ad aspettarlo per strada c’è Giuseppina De Maria, soprannominata Vellica, che ha in affitto un orticello di proprietà di Nicola:
– Vedi che tuo fratello Gabriele ha chiuso l’acqua e non posso innaffiare i fagioli – protesta.
– Si sarà sbagliato, faglielo notare e deviate l’acqua.
– No, devi venire tu. La mantenuta di tuo fratello mi guarda male e ha detto che questi sono gli ordini di tuo fratello, per questo ve la dovete vedere tra di voi.
– E va bene, andiamo a vedere che ha combinato mio fratello – la accontenta, incredulo perché sa che Gabriele non farebbe mai una cosa del genere.
L’orto è completamente recintato da un muricciolo di pietre a secco e vi si accede da una porticina abbastanza sgangherata. Giuseppina ne coltiva meno della metà, mentre l’altra parte è lasciata bonariamente a Gabriele. Nel terreno scorre un canale comunale per l’irrigazione e questo, a seconda delle necessità, può essere deviato da una parte all’altra ostruendo gli ingressi con della terra. Nicola verifica che, in effetti, l’acqua va tutta dalla parte di Gabriele e fattosi dare la zappa dalla donna, provvede a deviare l’acqua.
Antonina Bianchi, la convivente di Gabriele, osserva le operazioni e protesta vivacemente. Nicola è sempre più perplesso e non sa spiegarsi il perché di quel comportamento.
– Mò vado a chiamare Gabriele e te la vedi con lui – gli dice Antonina.
Dopo pochi minuti, la donna torna in compagnia di Gabriele e di un altro fratello, Francesco. Gabriele ha in mano un coltellaccio col quale si era messo a scuoiare una pecora e Antonina ha in mano la zappa. A Nicola sembra che i due si stiano avvicinando con fare minaccioso e questo lo turba oltremodo perché non sa spiegarsene il motivo. In fondo l’orto è suo, l’acqua che ci passa dentro è sua e lui è padrone di utilizzarla come meglio crede.
– Stiamo innaffiando noi, perché hai chiuso l’acqua? – gli dice con tono aspro Gabriele.
– Perché l’orto è mio e innaffia chi dico io. Non ti va bene? Avrei potuto affittare la parte che zappi tu, ma sei mio fratello e non ti caccio.
– Ma guarda tu questo! – attacca Antonina – invece di guardarsi l’onore della figlia si mette a vedere se noi innaffiamo l’orto! – il riferimento all’onore della figlia Giuseppina, della quale ingiustamente si diceva in paese che se la intendesse col padre superiore del convento, lo fa andare in bestia. Ha ancora in mano la zappetta della sua affittuaria e con questa tira un colpo col dorso sulla testa del fratello, poi fa un passo indietro, getta a terra la zappetta, mette la mano in tasca e ne estrae la rivoltella, la punta alla testa di Antonina che gli è ormai accanto e fa fuoco un paio di volte. Tra lo sbigottimento generale punta l’arma contro Gabriele e gli scarica addosso i quattro colpi restanti. Il poveretto riesce a fare quattro o cinque passi, poi cade stecchito. Giuseppina De Maria resta impalata per la paura, mentre Francesco scappa precipitosamente.
Nicola ha gli occhi di fuori, sembra distante da ciò che è successo. Con calma torna a casa, al secondo piano di una costruzione abitata dalla sua famiglia e da quella di Gabriele, prende la sua doppietta, la carica e si mette in tasca un’altra decina di cartucce, parte caricate a palla e parte a pallini.
Lentamente scende le scale, forza la porta di ingresso della casa di Gabriele ed entra. In una delle camere da letto stanno ancora dormendo Francesco, di appena un anno, figlio del fratello e di Antonina, ed Emilina Aquino, diciassettenne figlia della donna e del suo precedente marito.
Nicola punta il fucile contro il bambino e gli spara un solo colpo dilaniandolo. Emilina si sveglia di soprassalto, vede il fucile a una spanna dal proprio viso e capisce che sta per accaderle qualcosa di brutto. Con uno scatto salta dal letto per cercare di scappare ma non fa in tempo, un colpo la centra in pieno petto e le spacca il cuore.
Adesso Nicola è sulla strada col fucile in mano. Respira affannosamente e gli tremano le mani. Il suo aspetto è terrificante con gli occhi fuori dalle orbite, le narici dilatate e il suo fisico, molto più alto della media, sembra ancora più possente.
Il rumore secco delle esplosioni e gli immancabili sguardi da dietro le finestre fanno si che la voce si sparga nel Vicinanzo in men che non si dica. Chi lo incontra non crede ai propri occhi perché sembra un pazzo invasato e ne rimane terrorizzato. Chi lo incontra cambia subito strada temendo che possa puntare il fucile e fare fuoco in qualsiasi momento. Ma Nicola sembra non accorgersi nemmeno delle persone che incontra per strada, lui cammina come se fosse in un deserto.
Abbiamo già visto come Francesco Giorgi, il fratello dell’omicida, se la sia data a gambe levate. Arrivato nei pressi della sua abitazione incontra il proprio figlio Giuseppe e gli racconta in modo sommario e concitato, tremando ancora per la paura, ciò che è appena successo nell’orto. Ancora non sanno che altri due innocenti hanno perso la vita per mano del loro congiunto, così Giuseppe, che ha diciotto anni, temendo che la furia dello zio si possa abbattere anche sulla propria famiglia, si arma di scure e si mette in cerca di Nicola per cercare di calmarlo e, se fosse il caso, fermarlo con ogni mezzo.
Girato un angolo, Giuseppe si trova davanti lo zio e si ferma di scatto. I due si guardano per qualche secondo senza parlare, poi, quando il ragazzo sta per aprire bocca, Nicola alza di scatto il fucile e spara colpendolo in pieno petto. Quella cartuccia è caricata a pallini e non è mortale. Giuseppe cade a terra sanguinante
Zù Nicò… zu Nicò… pietà… un m’ammazzare – lo implora. Ma Nicola si fa avanti con calma fermandosi ai piedi di Giuseppe che cerca disperatamente di indietreggiare strisciando a terra. Nicola apre il fucile, toglie la cartuccia esplosa e ne mette una carica. Richiude. Guarda il nipote con un ghigno satanico mentre si porta il fucile alla spalla. Giuseppe piange e implora misericordia mentre viene centrato da altri due colpi al petto.
Nicola se ne va, convinto di averlo ucciso ma Giuseppe è forte e nonostante sia ferito molto gravemente e perda molto sangue, strisciando a terra riesce a tornare a casa dove morirà un paio di giorni dopo.
Il Vicinanzo ormai si è svuotato e Nicola cammina per i vicoli nel silenzio più totale. Adesso è sotto la casa della figlia Giuseppina. Sale la scala esterna, si ferma sul vignano e bussa.
– Apri che ti devo parlare – dice mentre picchia con le nocche sul legno del portone.
– Non posso sto facendo, vieni più tardi papà… se no dimmi quello che mi devi dire da dietro la porta.. – Giuseppina ha capito cosa le toccherebbe se facesse entrare il padre.
– Apri ti ho detto! Apri che non ti faccio niente – continua a insistere picchiando col calcio della doppietta sul portone per cercare di aprirlo. Giuseppina è terrorizzata ma resiste. Mette il maschio e fa forza con le spalle per non far cedere la porta – apri mannajallamaronna!
Papà, tinne po’ jire ca unn’apru – gli fa per scoraggiarlo.
Pieju ppe tia! Quannu te pigliu t’ammazzu! – e se ne va. O almeno così vorrebbe far credere. Infatti, ridiscesa la scala, con un angolo dell’occhio guarda verso la finestra della figlia e la intravede nella penombra. In quello stesso momento arriva l’altra figlia, Rosina di diciannove anni, sposata da appena due mesi. Giuseppina apre la finestra per dire alla sorella di calmare il genitore ma partono quasi contemporaneamente due colpi. Per fortuna di Giuseppina la mancano ma una scheggia di piombo la colpisce sul labbro facendola urlare di dolore mentre cade a terra. È la sua salvezza perché Nicola la crede morta.
Papà… papà mio… che cosa hai fatto? Calmati adesso, ci sono qua io… – gli dice Rosina buttandoglisi tra le braccia e baciandolo teneramente per calmarlo.
Vavatinni alla casa e fatti i fatti tua – la gela.
– No! Papà, calmati, te ne prego – continua singhiozzando.
Vavatinni, t’haiu dittu… – le ripete, allontanandola da sé. Nicola ama profondamente Rosina, come amava profondamente Giuseppina, e forse non vuole farle del male. Ma Rosina gli si butta di nuovo addosso e, nell’abbracciarlo, cerca di sottrargli la doppietta. Nicola le da uno spintone e, imbracciato il fucile le spara in testa, uccidendola all’istante. Poi guarda di nuovo verso la finestra di Giuseppina e non la vede affacciata. Fa una leggera smorfia con la bocca e se ne va.
Virginia Giorgi, una sorella di Nicola, saputo che suo fratello aveva ucciso l’altro fratello, va nell’orto a vedere il cadavere di Gabriele. Con lei c’è suo nipote Alfonso il quale, non appena cominciano a sentire i colpi di fucile provenire dal paese, prudentemente convince la zia a tornare a casa. Ma si imbattono in Nicola.
– Fratello mio, che cosa hai fatto? Perché lo hai fatto?
– C’è pure la parte tua… – le risponde freddamente mentre estrae la rivoltella e le spara contro un colpo. Alfonso, preso dal panico, scappa lasciando Virginia in balìa del fratello.
La donna è ferita lievemente e cerca scampo in un vicolo. Ma è un vicolo cieco e Nicola le è addosso. Virgina cade e indietreggia strisciando mentre il fratello, rimessa in tasca la rivoltella, prende il fucile e le spara altri due colpi fulminandola.
Con calma, messo il fucile a tracolla, Nicola si incammina verso Aprigliano dove c’è la caserma dei Carabinieri. Lungo il tragitto, non si sa per quale motivo butta in un dirupo solo la rivoltella, continuando a tenere il fucile a tracolla.
Il Carabiniere che apre la porta della caserma se lo trova davanti col fucile in mano. Ha un sobbalzo ma Nicola lo tranquillizza:
– Vi consegno la mia doppietta e vi faccio noto che stamane a Pietrafitta ho fatto lo sterminio. Ho ammazzato otto persone e cioè un fratello e i due familiari grandi e piccoli, una sorella e le mie figlie Giuseppina e Rosina; ne avrei ammazzati di più se non avessi esaurito le munizioni – la dichiarazione è estremamente lucida e precisa ed esprime chiaramente che ha sparato con l’intenzione di uccidere, tenendo conto che Nicola non sa ancora che Giuseppina è solo ferita lievemente e il nipote Giuseppe è ancora vivo.
Ma tre giorni dopo, quando lo interroga il magistrato, non sembra più tanto lucido nelle sue dichiarazioni.
Dopo aver ucciso mio fratello e la sua mantenuta, forse avrei ucciso anche mio fratello Francesco se non fosse scappato, tornai a casa, presi il fucile con tutte le cartucce che trovai e uscii. Ciò che ho compiuto dopo questo momento io non posso raccontarlo perché avevo completamente perduto i lumi della ragione. Vostra Signoria mi fa rilevare che io sarei sceso al piano inferiore dove avrei ammazzato il bambino di un anno e la giovane diciassettenne. Io non nego di aver compiuto tutta la strage, ma ora, ripeto, non so e non posso raccontare il successivo svolgimento. Certo sparai fino a consumare tutte le cartucce. Nessuna ragione poteva spingermi ad ammazzare mia figlia Rosina che io adoravo e mia sorella che non mi aveva mai fatto niente di male. Può darsi che tra le vittime ci sia anche mio nipote Giuseppe, ma io non ricordo nemmeno di averlo incontrato. Può anche darsi che io abbia sparato delle fucilate contro mia figlia Giuseppina mentre era affacciata alla finestra, ma non ricordo. In sostanza, dopo avere ucciso mio fratello e la sua amante, una cieca mania di distruzione mi prese e a questo soltanto si deve attribuire la strage di tanti innocenti. Soltanto ora comincio a capire l’enormità di ciò che è successo e mi chiedo perché non ho conservato l’ultimo colpo per me stesso.
Questa dichiarazione è ciò che aspettano gli avvocati Stanislao Amato, Vito Goffredo e Nicola Serra per chiedere con insistenza che Nicola venga sottoposto a perizia psichiatrica e così, il primo gennaio 1923, il Tribunale di Cosenza ne stabilisce il ricovero nel manicomio criminale di Aversa. Nel frattempo, gli esiti dell’autopsia sul corpo della figlia Rosina stabiliscono che c’è un altro morto: il bambino che portava in grembo. Ma i feti non fanno numero per il codice penale e gli omicidi restano sette.
I medici tengono in osservazione Nicola per un anno e dieci mesi, poi consegnano la perizia psichiatrica nella quale, in 96 pagine, concludono che l’esame obiettivo del periziando rivela indubbi caratteri di degenerazione nella sua costituzione antropologica quale il cranio viscerale piccolo e sproporzionato al cranio facciale molto sviluppato, la fronte stretta, bassa e sfuggente, l’occipite appiattito, il palato alto e ogivale, la poca differenziazione dei denti ecc., quindi tutto ciò fa ritenere l’imputato un individuo degenerato, rappresentando il risultato di una serie di deviazioni remote e acquisite dagli antenati, dei quali va considerata la grave ereditarietà psicopatica (il padre di Nicola, gestendo una cantina, beveva vino; uno zio paterno era definito criminale perché quasi idiota; una sorella era neuropatica; un fratello si era reso responsabile di tentato omicidio; uno dei suoi figli è descritto come povero di spirito e ottuso di mente). Se a tutto questo si aggiunge che Nicola fin dall’infanzia soffrì di epistassi senza alcuna lesione nasale o di altri organi che potesse spiegarne l’origine e che poco tempo prima della strage l’epistassi fu sostituita da cefalea, ecco emergere la diagnosi di epilessia. In sostanza, dicono gli specialisti, la fuoriuscita di sangue dall’organismo, facendo eliminare una certa quantità di tossico, faceva si che il residuale veleno organico riuscisse insufficiente a stimolare i centri psico-motori in modo tale da non poter provocare convulsioni, delirii o altri fatti di natura epilettica. Inoltre va considerato il fatto che Nicola ha sempre avuto intolleranza per le bevande alcoliche, cosa ordinaria in soggetti epilettici, specialmente in quelli figli di alcolisti. La strage, d’altra parte, presenta tutti i caratteri di una manifestazione epilettica come la cieca ferocia e il ricordo annebbiato, incerto, confuso e sommario dell’atrocità commessa.
Stabiliti questi concetti diagnostici, i medici non hanno alcun dubbio: per il fatto di trovarsi in preda ad un accesso psichico della epilessia non era in grado di comprendere, apprezzare e valutare gli atti criminosi che andava compiendo e la conseguenza degli stessi. E ciò perché la natura del disordine psichico era tale da turbare profondamente la di lui coscienza togliendogli ogni possibilità di libera scelta nella determinazione alle azione criminose imputategli, perciò deve godere dei benefici concessi dalla legge ma, concludono, malgrado attualmente appaia indenne da disordini psichici, potrebbe ripresentare per la stessa infermità altri fatti di violenza cieca e feroce. Perciò è necessario sempre considerarlo un individuo pericolosissimo per sé e per gli altri e come tale bisognevole di cura e custodia Manicomiale a tempo indeterminato.
Questa tesi viene accettata dai giudici e il 20 gennaio 1925 la Corte emette la sentenza con la quale viene disposto il ricovero in manicomio a tempo indeterminato del serial killer Nicola Giorgi.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.

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