HANNO AMMAZZATO ZAPEPPA

Il 10 aprile 1913, verso le 18,00 il Sostituto Procuratore del re Carmine Nardomeo sta passeggiando con Domenico Carlucci che lavora nella sua segreteria. Quando sono all’altezza della Caserma Fratelli Bandiera, diretti a Piazza Valdesi, la loro attenzione è attirata da un insistente e crescente vocio che proviene da Via Rivocati. Incuriositi, Nardomeo e l’amico si fanno largo tra le decine di persone che sembrano brandire delle sedie e arrivano all’imbocco del Vico I Rivocati, senza essere riusciti, nel frattempo, a capire ciò che sta succedendo. “Certamente qualcosa di grave, altrimenti non si spiegherebbero le grida di aiuto” pensa, lavorando di gomiti per avanzare più velocemente. Poi all’improvviso gli si para davanti un carabiniere che, riconosciutolo, lo fa passare nel vicolo dove Nardomeo, con raccapriccio, vede per terra, in un lago di sangue, un uomo con la testa quasi aperta in due. A pochi passi, un capitano e un maresciallo dei carabinieri trattengono tre uomini, ai loro piedi un’accetta e due trincetti da calzolaio sporchi di sangue.
Dalla folla si alza un grido come se fosse il grido di una persona sola:
       Hanno ammazzato Zapeppa!
La mattina successiva, mentre le indagini vengono portate avanti in modo serrato per chiarire la dinamica dell’efferato delitto, su Cronaca di Calabria viene pubblicato solo un trafiletto:
Omicidio
– Giovedì sera, in via Rivocati il noto e temuto pregiudicato Francesco De Francesco soprannominato  Zapeppa, in compagnia di altri tre ha preso ad altercare con un altro galantuomo… tal Riccardo Pranno, con cui si dice aveva vecchi rancori per fatti fra di loro avvenuti in America, donde entrambi erano da poco ritornati. Il padre del Pranno, si è intromesso per evitare una lite, ma il De Francesco ha inveito contro di lui riducendolo a mal partito. 
A tal vista oltre del Riccardo sono accorsi i fratelli di costui Luigi e Pasquale e tutti e tre con trincetto e con una scure hanno colpito ripetutamente il za peppa che trasportato all’ospedale vi giungeva cadavere. Tutti i rissanti, escluso Pranno Francesco per cui è risultato di essersi intromesso solo per far da paciere, sono stati assicurati alla giustizia[1].
Ma per capire il contesto e le modalità del brutale assassinio, dobbiamo fare un passo indietro e raccontare la storia dall’inizio.
Zapeppa, Francesco De Francesco, un malavitoso, un violento, un ladro. Nel 1903, viene processato insieme ad un altro centinaio di malavitosi in un processo che desta scalpore in città e gli appioppano 7 anni di carcere per associazione a delinquere, pena che sconta girando molte carceri per i continui trasferimenti dovuti alle sue intemperanze. Verso la fine del 1910 torna in città deciso a darsi da fare per riannodare i fili del malaffare ma, quasi subito, incontra una ragazza, Francesca Tripodi di Filadelfia nel Vibonese, nota nell’ambiente della prostituzione come ‘a Pacchiana, di cui si innamora perdutamente e la toglie dalle grinfie del suo sfruttatore, Riccardo Pranno. I due, lui ormai trentenne e lei ventunenne, vanno a vivere insieme e, insieme, cambiano vita, desiderosi di lasciarsi alle spalle le proprie miserie umane. E Francesca Tripodi di miseria umana, degrado, umiliazione ne ha conosciuto davvero tanto. Arriva a Cosenza appena diciassettenne, nel 1906, con il miraggio di trovare un lavoro da cameriera in qualche famiglia benestante, ma capita nelle mani sbagliate e la chiudono in un bordello di Santa Lucia. Qui conosce Riccardo Pranno, uno dei più temuti delinquenti cittadini, uno con il quale nemmeno la malavita organizzata ha mai voluto avere niente a che fare, che la fa uscire dal bordello per sfruttarla brutalmente in proprio. Pranno emigra a New York portandosi dietro Francesca e in America la sfrutta, se possibile, ancora più selvaggiamente. Poi Pranno decide all’improvviso di rimpatriare e lascia la sventurata da sola, senza nemmeno un centesimo e senza nemmeno un posto in cui andare a dormire. Francesca però non si perde d’animo e, in modo rocambolesco, riesce a tornare a Cosenza, dove ricomincia a fare la vita a Santa Lucia, al riparo dal suo aguzzino, che, nel frattempo, è partito per Buenos Aires. Nel 1910, come dicevamo, conosce Zapeppa e finalmente le torna il sorriso.
Zapeppa e Francesca convivono serenamente e onestamente per quasi due anni, poi lui, stanco di lesinare la giornata e desideroso di avere l’opportunità di poter offrire qualcosa di più alla sua donna, emigra in Argentina, dove arriva sulla nave Principe Umberto il 26 agosto 1912[2].
A Buenos Aires, frequentando la comunità dei cosentini, inevitabilmente incontra Riccardo Pranno e i due litigano per Francesca. Ma tutto si risolve in fretta perché Pranno decide di rientrare in Italia.
Zapeppa comincia a guadagnare discretamente e scrive molte volte a Francesca per farla partire, ma non ottiene alcuna risposta perché la ragazza, per sfuggire alle insistenti minacce di Pranno, preferisce andare a chiudersi in un bordello di Paola e nella precipitosa fuga perde le lettere di Zapeppa con l’indirizzo di Buenos Aires.
Zapeppa, preoccupato e irritato per il silenzio di Francesca, decide di tornare a Cosenza per capire cosa stia accadendo, per poi ripartire con la sua donna. Arriva in città il 3 o 4 aprile 1913 e si mette subito alla ricerca di Francesca. Due suoi vecchi amici di malaffare, Adolfo Rao e Giuseppe Sarti (o Sartù) lo informano che la ragazza è andata a fare la puttana a Paola e gli spiegano anche il perché. Ovviamente è deciso ad andare a riprendersela, ma non prima di aver chiesto conto a Riccardo Pranno. Se l’amore aveva placato la sua proverbiale furia, quello stesso amore gliela sta facendo riesplodere e se è vero, come è vero, che l’amore gli ha fatto mettere la testa a posto, è altrettanto vero che adesso sente il disperato bisogno di bere e di ubriacarsi, così il pomeriggio del 10 aprile, in compagnia di Adolfo Rao, Giuseppe Sarti e Ruggero Fucilla, va a bere in una cantina di Via Rivocati. All’uscita i quattro si imbattono in Riccardo Pranno. Zapeppa lo chiama da parte e i due si mettono a discutere apparentemente senza astio, ma i presenti sentono che stanno parlando di Francesca Tripodi.
     Me la vado a prendere a Paola e me la porto in Argentina. Tu non t’immischiare – fa Zapeppa a Pranno con tono risoluto.
     Non ci viene. Gliel’ho proposto anche io e non è voluta venire – risponde l’altro.
    Stai tranquillo che con me ci viene. L’ho sempre trattata bene, non come te che l’hai sfruttata come una cagna – gli dice De Francesco con disprezzo, mentre gonfia il petto e si avvicina minaccioso all’avversario. Gli amici intervengono e convincono De Francesco a riprendere la loro strada, ma mentre si allontanano notano Riccardo Pranno che entra nella sua bottega di calzolaio in compagnia del fratello Luigi.
I due restano dentro solo pochi secondi, poi si mettono a camminare nella scia di Zapeppa che si ferma e dice ad Adolfo Rao di far andare il rivale in Piazza d’Armi per risolvere definitivamente la questione.
  Questa sera ci deve essere sangue – fa, a muso duro, Zapeppa all’avversario, interrompendo il confabulare di Rao con Riccardo Pranno.
 Non vale la pena fare questioni per una puttana – gli risponde Luigi Pranno per calmarlo – e poi non è questo il momento di litigare, non vedi che c’è tutta la mia famiglia alla finestra?
    Tanto meglio, tutta la tua famiglia e io da solo – lo sfida. 
Adolfo Rao, per la seconda volta riesce a convincerlo a lasciar perdere, lo prende sottobraccio e lo porta davanti alla bottega di barbiere di mastro Luigi Vena dove c’è una panca e lo fa mettere a sedere perché è evidente che Zapeppa è completamente ubriaco.
Francesco Pranno, il padre dei fratelli, che dalla finestra ha notato il battibecco, è preoccupato che il diverbio possa degenerare e scende in strada per far rientrare in casa i figli i quali, nel frattempo, sono entrati a bere una gazzosa nella fabbrica di Annino Gallo.
Zapeppa e Riccardo Pranno si studiano come in una partita a scacchi. Sanno che ormai devono risolvere la questione col sangue ma entrambi aspettano l’occasione buona per avere la meglio senza correre eccessivi rischi.
Però quandoZapeppa parte di testa non c’è calcolo che tenga e, accada quel che accada, deve attaccare a testa bassa come un toro scatenato. Mentre Francesco Pranno gli si avvicina, forse per mettere una parola di pace, De Francesco dice a voce alta agli amici:
                –  Se viene qui avrà la parte migliore.
Il vecchio, che conosce la pericolosità e soprattutto la forza erculea di Zapeppa, non cade nella trappola. Si ferma a qualche passo di distanza e chiama a sé Giuseppe Sarti per chiedergli se i figli hanno fatto qualcosa di male, perché se così è ci penserà lui a metterli a posto, ma Zapeppa equivoca qualche parola e gli si scaglia addosso, lo prende per i capelli e comincia a suonargliele di santa ragione. Cadono a terra, Francesco Pranno sotto e Zapeppa sopra. La gente intorno comincia a urlare e le urla richiamano l’attenzione dei fratelli Pranno. Il primo ad arrivare alle spalle di Zapeppa è Luigi che brandisce un trincetto lungo 35 centimetri (alcuni testimoni lo descriveranno come una sciabola spezzata) col quale colpisce Zapeppa al rene destro. Nonostante il colpo ricevuto, De Francesco si rialza, indietreggia verso il Vico I Rivocati, dove può meglio guardarsi le spalle, ma inciampa in un gradino e cade bocconi. Adolfo Rao cerca di fermare Luigi Pranno colpendolo con un’ombrellata ma è tutto vano. Luigi gli è di nuovo sopra e colpisce Zapeppa dietro la scapola destra, perforandogli il polmone. Poi sopraggiunge Riccardo che, con un trincetto un po’ più corto, lo colpisce dietro al collo, trapassandogli la spina dorsale. Sembra finita ma arriva il terzo dei Pranno, Pasquale, il quale, armato di un’ascia che ha preso da una bottega lì vicino, gli vibra un tremendo colpo in testa, aprendogliela quasi in due.
I tre fratelli gettano le armi prima che arrivino il Capitano e il maresciallo dei carabinieri che stanno passando da lì per caso.
Nonostante tutto, il cuore di Zapeppa batte ancora quando il Sostituto Procuratore Nardomeo arriva sul posto. Morirà quasi un’ora dopo in ospedale.
Luigi Pranno si accusa dell’omicidio dicendo che è stato lui solo a colpire Zapeppa. Resterà da chiarire come ha fatto a colpirlo con tre armi diverse, mentre si riparava dalle ombrellate che gli tirava Adolfo Rao.
Quasi tutte le testimonianze che gli inquirenti raccolgono parlano di una vera e propria esecuzione. L’unico che si ostina a parlare di legittima difesa è l’avvocato Pietro Mancini che difende i fratelli Pranno. Ma è una tesi che non regge. Luigi e Riccardo Pranno vengono rinviati a giudizio per omicidio volontario, Pasquale per concorso in omicidio. Anche i tre amici di Zapeppa vengono arrestati e rinviati a giudizio per rissa e porto d’arma insidiosa (l’ombrello).
Ci vorranno due anni e mezzo prima che inizi il dibattimento e intanto è iniziata la Grande Guerra e Ruggero Fucilla e Adolfo Rao sono richiamati alle armi. Il processo si trascina stancamente di rinvio in rinvio fino alla fine del 1916 quando Luigi Pranno, dal carcere, scrive al Procurarore del re a Catanzaro:
(…) Il sottoscritto detenuto Pranno Luigi dopo che sia stata fissata per ben la terza volta la nostra causa non si è potuta andare in discussione il venticinque di cotesto mese ciò per l’assenza di Rao Adolfo ora in zona di Guerra.
Siamo in tre fratelli in putati di omicidio reclusi fin del 10 Aprile 1913, sono ormai quattro Anni che ora per un motivo ora per un altro si verifica questo Benedetto rinvio e dire che siamo tre robbusti giovanotti che la coscienza cidetta riavere la libertà potendo con vigore soccorrere la Patria in tale momento di bisogno. Anche mio Padre fece domanda a S.E. il Ministro G.G. perché la causa venga discussa e benche questo abbia dato parere favorevole non valse, percio prego caldamente la S.V.Ill.ma volersi benignare accio di sporre che venga messa a ruolo magari alla quintici di Febbraio e vada in discussione sensa ostacoi augurandocci che l’umano sentimento di e quità di V.S.Ill.ma farà Giustizia e voglia prentere a cuore la nostra preghiera in tale Grazia.
D.mo Servo Pranno Luigi
Il Procuratore Generale della Corte d’Appello non resta sordo alla supplica di Luigi Pranno e l’11 dicembre 1916, relazionando alla Sezione di Accusa su tutta la vicenda, osserva tra le altre cose:
(…) Ed è parimenti da osservare che propostasi la causa contro tutti, nel marzo del 1915, si dovette rimandare per nullità un atto al Pretore di Paola, a cagione della negligenza di un ufficiale giudiziario. (…).
(…) la causa suddetta, in cui i tre fratelli Pranno hanno subito più di tre anni e otto mesi per ciascuno di detenzione preventiva, non può essere trattata, né prevedesi prossima l’epoca in cui al rimando sine die possa tener dietro la decisione del giudizio, che dai detenuti viene vivamente sollecitato. Che pertanto occorre contemperare le esigenze di giustizia con i diritti degli imputati, applicando le disposizioni di legge che regolano la materia in esame.
(…) e in tali sensi si fa formale istanza alla Ecc.ma Sezione di Accusa, proponendosi la separazione del processo in confronto dei fratelli Pranno da quello in confronto degli altri imputati Sarti, Fucilla e Rao, con le conseguenti ulteriori provvidenze che l’onorevole consesso crederà parimenti di adottare per il sollecito espletamento dei due giudizi (…).
La Sezione di Accusa decide per la separazione dei processi e, finalmente, il 17 marzo 1917, dopo quattro anni dall’omicidio di Zapeppa, comincia l’ultimo atto del processo ai fratelli Pranno.
Il clima in città è di disinteresse generale, la gente ha altro di cui preoccuparsi dopo due anni di guerra, lutti e privazioni più dure del normale. I giornali nemmeno ne parlano.
Questa volta si svolge tutto in pochi giorni, quasi tutti i testimoni maschi sono soldati in zona di guerra, uno, Eugenio Nardi, è perfettamente sconosciuto tanto che non risulta nemmeno all’ufficio Anagrafe, altri due sono deceduti.
Le cose, a questo punto, cominciano a mettersi bene per i fratelli Pranno. Il 20 marzo il Pubblico Ministero chiede che venga dichiarata estinta l’azione penale per sopravvenuta amnistia a carico di Luigi Pranno per il reato di lesioni in danno di Giuseppe Sarti e per prescrizione in relazione al reato di porto abusivo di armi a carico di tutti e tre i fratelli.
Richiesta accolta dal Presidente. I pochi testimoni presenti sono ascoltati con estrema celerità, devono solo confermare le dichiarazioni rese in istruttoria e così, il 29 marzo la giuria emette il suo verdetto: assoluzione per tutti e tre i fratelli Pranno per avere agito in stato di legittima difesa.
Dopo la scarcerazione, Pasquale Pranno diventa amante della prostituta Eugenia Cardamone, facendosi mantenere anche da lei, poi, come il fratello Luigi aveva auspicato nella supplica al Procuratore del re, viene chiamato alle armi in zona di guerra nel I Reggimento Fanteria di Marcia.
I fratelli Pranno sopravvivranno alla guerra e torneranno alle loro case, dedicandosi ai loro più o meno loschi affari.[3]

 

[1] BCCS, Sez. Calabra Giornali, A155, N° 28 del 13 aprile 1913.
[2] Dato ricavato da www.altreitalie.it
[3] ASCS, Processi Penali, B. 2763.
Mi corre l’obbligo di precisare che studiosi (N. Gratteri – A. Nicaso in “Cosenza, ‘ndrine, sangue e coltelli”, Pellegrini 2009 e A. Badolati in “Mamma ‘ndrangheta”, Pellegrini 2014) enormemente più importanti di me ricostruiscono la vicenda in modo diverso, sostenendo che Francesco De Francesco fu ucciso per legittima difesa perché dava fastidio a un giovane socialista  Riccardo Pranno). Mi permetto di dissentire: né negli atti di indagine, né in quelli processuali, né nei giornali dell’epoca si fa riferimento a questioni politiche. Di più, nei curricula dei fratelli Pranno si può trovare di tutto, tranne che l’appartenenza al Partito Socialista. L’unico socialista in questo processo è l’avvocato Pietro Mancini, difensore dei fratelli Pranno.

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